Coronavirus: dopo oltre due anni l’evoluzione del virus continua a sorprendere gli esperti
Scienziati e medici continuano a rimanere sorpresi dalla rapidità con cui si evolve il virus, dai suoi effetti sul corpo umano ai suoi passaggi tra le specie.
In Italia sembra finalmente una realtà la "fine dell'emergenza" Covid-19. Il virus non è sparito, ma stiamo imparando a conviverci e le strutture ospedaliere riescono a gestire i ricoveri.
Ma questo non significa che il coronavirus non continui a mutare allertando scienziati e cittadini a non abbassare la guardia in vista dell'imminente allentamento delle restrizioni.
COME SI DIFFONDONO I VIRUS?
Come si diffondono i virus?
Chris e James si fermano a un mercato di animali selvatici lungo la strada a Monrovia, in Liberia. Filmato dalla serie “Virus Hunters”.
Raul Andino conosce bene gli agenti patogeni. In qualità di ricercatore dell’Università della California a San Francisco, da oltre 30 anni studia i virus a RNA, un gruppo che comprende il virus che provoca il COVID-19. Eppure, non immaginava che nel corso della sua vita avrebbe assistito a una pandemia di tali dimensioni.
“La portata e le implicazioni di questa pandemia sono ancora difficili da comprendere”, spiega Andino.
Anche se gli esperti nel suo campo sospettavano che sarebbe potuta scoppiare una pandemia, “il difficile è stabilire quando”, spiega, “è come per i terremoti: sappiamo che prima o poi ne arriverà uno, ma normalmente non ci pensiamo”.
L’11 marzo 2020, oltre due anni fa, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato il COVID-19 una pandemia; da allora, la malattia ha infettato circa 500 milioni di persone in quasi 200 Paesi e ucciso oltre 6 milioni di persone in tutto il mondo, e non si è ancora arrestata.
In questi anni il coronavirus ha più volte stupito gli scienziati: molti esperti continuano a rimanere sorpresi dalla rapidità con cui si evolve il virus, dai suoi effetti sul corpo umano ai suoi passaggi tra le specie.
Il virus SARS-CoV-2 originale si è evoluto rapidamente in una serie di varianti che hanno finora impedito il ritorno alla normalità pre-pandemica. Pur disponendo dell’impronta genetica del virus e avendo la capacità di decodificare i genomi delle nuove varianti nell’arco di poche ore, virologi e operatori sanitari faticano a prevedere in che modo le mutazioni modificheranno la trasmissibilità e il livello di gravità del virus.
Milioni di persone stanno lottando contro sintomi che perdurano a volte per settimane ma anche per diversi mesi dopo la diagnosi dell’infezione. Gli scienziati stanno facendo a gara per comprendere la biologia di questa nuova e sconcertante sindrome chiamata long COVID.
Dopo due anni, molti aspetti del virus SARS-CoV-2 rimangono sconosciuti, afferma David Wohl, specialista di malattie infettive presso l’Università della Carolina del Nord. Ecco ciò che hanno scoperto finora gli scienziati e quali sono i misteri che continuano a tormentare gli esperti di coronavirus.
Lo scenario peggiore
Da decenni gli esperti avvertivano la possibilità che scoppiasse una pandemia. La crescente antropizzazione di aree un tempo selvatiche aumenta le probabilità che un nuovo agente patogeno possa compiere il “salto di specie” da un animale all’uomo, dando origine a una zoonosi letale. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Nature le malattie infettive emergenti che hanno origine negli animali selvatici sono aumentate in modo significativo tra il 1940 e il 2004.
Ma la maggior parte degli esperti temeva i virus dell’influenza, e non si aspettava che un coronavirus potesse causare un simile disastro.
Questa percezione è cambiata nel 2002-2004, con l’arrivo della SARS (acronimo inglese di sindrome respiratoria acuta grave), che ha infettato oltre 8.000 persone in 29 Paesi e provocato 774 morti. Poi nel 2012 la diffusione della MERS (acronimo inglese di sindrome respiratoria medio-orientale) ha infettato oltre 2.000 persone in 37 Paesi; finora quel virus ha ucciso circa 900 persone.
Eppure, non si prestava molta attenzione ai coronavirus, ritenendo più temibili altri virus, come quelli di influenza, HIV e dengue, spiega Andino.
Poi, è arrivato il SARS-CoV-2. Si diffonde più rapidamente degli altri coronavirus, secondo gli esperti in parte grazie alla sua capacità di spostarsi in modo efficiente da una cellula all’altra. Il SARS-CoV-2 è inoltre più difficile da contenere perché provoca molti casi asintomatici, quindi le persone possono diffondere il virus senza rendersene conto. “Si può dire che il SARS-CoV-2 ha trovato un modo per potersi diffondere rapidamente e anche provocare una malattia”, aggiunge Andino. “È il peggiore degli scenari”.
L’avanzata delle varianti
Come se non bastasse, il virus SARS-CoV-2 ha acquisito mutazioni genetiche molto più rapidamente del previsto.
In genere, i coronavirus mutano con una velocità inferiore rispetto ad altri virus a RNA, come l’influenza e l’HIV. Sia il SARS-CoV che il SARS-CoV-2 accumulano all’incirca due mutazioni al mese; dalla metà a un sesto rispetto alla velocità riscontrata nei virus dell’influenza. Questo perché i coronavirus presentano proteine che in un certo senso “correggono” gli errori introdotti nel materiale genetico del virus man mano che avviene la replicazione.
“Ecco perché pensavamo che il SARS-CoV-2 non si sarebbe evoluto molto rapidamente”, spiega Ravindra Gupta, microbiologo clinico presso l’Università di Cambridge.
Ma il virus ha presto smentito Gupta e i suoi colleghi. La comparsa di Alpha, la prima VOC (dall’inglese Variant Of Concern, variante di preoccupazione) identificata nel Regno Unito a novembre 2020, ha lasciato sbalorditi gli scienziati: presentava 23 mutazioni che la distinguevano dal ceppo originale del SARS-CoV-2, otto delle quali si trovavano nella proteina spike, elemento essenziale con cui il virus si ancora alle cellule umane e le infetta.
“È diventato evidente che il virus poteva compiere questi straordinari salti evolutivi”, spiega Stephen Goldstein, esperto di virologia evolutiva per l’Università dello Utah. Con questa serie di mutazioni, Alpha era il 50% più trasmissibile rispetto al virus originale.
La versione successiva, Beta, è stata identificata la prima volta in Sudafrica ed è stata considerata una VOC appena un mese dopo. Presentava otto mutazioni sulla spike virale, alcune delle quali aiutavano il virus a sfuggire alle difese immunitarie dell’organismo. E quando la variante Gamma è comparsa nel gennaio 2021, presentava 21 mutazioni, 10 delle quali si trovavano nella proteina spike. Alcune di quelle mutazioni rendevano la variante Gamma altamente trasmissibile e capace di reinfettare i pazienti che avevano già avuto il COVID-19.
“È sorprendente vedere i salti nella trasmissibilità che queste varianti compiono”, aggiunge Goldstein. “Non credo che prima d’ora sia mai stato osservato un virus agire in questo modo ma, in effetti, non abbiamo mai osservato una pandemia con le capacità di sequenziamento del genoma di cui disponiamo ora”.
Poi è stato il turno della variante Delta, una delle più pericolose e contagiose. È stata identificata la prima volta in India e indicata come VOC nel maggio 2021. Alla fine dello stesso anno la variante era dominante in quasi tutti i Paesi. La sua costellazione unica di mutazioni, 13 in totale e 7 nella spike, ha reso la variante Delta due volte più infettiva rispetto al ceppo originale di SARS-CoV-2, ha causato infezioni più lunghe e prodotto 1.000 volte più virus negli organismi delle persone infette.
“La capacità del SARS-CoV-2 di trovare nuove soluzioni e modi di adattarsi e diffondersi con tale facilità è stupefacente”, spiega Andino.
Tuttavia, la variante Omicron, che è da due a quattro volte più contagiosa rispetto alla Delta, ha velocemente sostituito quest’ultima in molte parti del mondo. Identificata la prima volta nel novembre 2021, presenta un numero insolitamente elevato di mutazioni: oltre 50 in tutto e almeno 30 nella spike, alcune delle quali aiutano il virus a eludere gli anticorpi meglio di tutte le versioni precedenti del virus.
“Questi enormi salti compiuti dalle mutazioni rendono la pandemia molto meno prevedibile”, spiega Francois Balloux, biologo computazionale presso il Genetics Institute dello University College London nel Regno Unito.
Infezioni croniche
Una delle spiegazioni più convincenti per questi notevoli salti nel numero di mutazioni è che il virus SARS-CoV-2 abbia potuto evolversi per lunghi periodi di tempo negli organismi degli individui immunocompromessi.
Durante lo scorso anno gli scienziati hanno identificato pazienti oncologici e persone con HIV in stadio avanzato che non sono riusciti a eliminare l’infezione da COVID-19 per mesi o addirittura per quasi un anno. I loro sistemi immunitari soppressi permettevano al virus di persistere, replicarsi e mutare per mesi.
Gupta ha identificato una di queste mutazioni (individuata anche nella variante Alpha) in un campione proveniente da un paziente oncologico rimasto infetto per 101 giorni. In un paziente con HIV in fase avanzata proveniente dal Sudafrica, rimasto infetto per sei mesi, gli scienziati hanno registrato una serie di mutazioni che hanno aiutato il virus a sfuggire alle difese immunitarie dell’organismo.
“Sapere che il virus cambia la propria biologia così rapidamente nella sua storia evolutiva è un’importante scoperta”, spiega Gupta. Anche altri virus, come l’influenza e il norovirus, mutano negli individui immunocompromessi, ma “è molto raro”, aggiunge Gupta, inoltre “infettano una serie ridotta di cellule”.
Il SARS-CoV-2, al contrario, si è dimostrato capace di infettare molte aree diverse dell’organismo, creando effetti che per gli scienziati è stato più difficile arrivare ad associare al virus.
Un virus non solo respiratorio
All’inizio della pandemia, il personale medico ha notato che il virus non causava solo una malattia simile alla polmonite. Alcuni pazienti ricoverati presentavano anche danni cardiaci, trombosi, complicazioni neurologiche nonché problemi renali ed epatici. Un numero sempre maggiore di studi nei primi mesi ha suggerito una possibile spiegazione per questi fenomeni.
Il SARS-CoV-2 utilizza delle proteine (dette recettori ACE2) presenti sulla superficie delle cellule umane, per infettarle. Ma poiché gli ACE2 sono presenti in molti organi e tessuti, il virus infettava più parti dell’organismo, non solo le vie respiratorie. In alcuni report si afferma che il virus, o alcune sue parti, sono stati rinvenuti nelle cellule dei vasi sanguigni, nelle cellule renali e in piccole quantità nelle cellule cerebrali.
“Ho studiato molte pandemie, e in quasi tutte analizzando il cervello è possibile trovarvi il virus”, spiega Avindra Nath, neuroimmunologo presso i National Institutes of Health. Ad esempio, i tessuti cerebrali sottoposti ad autopsia di 41 pazienti ricoverati e poi morti per COVID-19 hanno rivelato bassi livelli di presenza del virus. Ma erano presenti anche chiari segni di danni, compresi neuroni morti e vasi sanguigni gravemente compromessi.
“È stato davvero sorprendente”, afferma Nath.
È probabile che il virus inneschi nel sistema immunitario dell’organismo una sorta di modalità iperattiva, detta “tempesta citochinica”, che provoca infiammazione e danni in diversi organi e tessuti. La risposta immunitaria anomala può proseguire anche dopo l’infezione, causando sintomi persistenti, tra cui affaticamento cronico, palpitazioni cardiache e confusione mentale.
“Ma vi sono serbatoi del virus che possono provocare infiammazione cronica”, spiega Sonia Villapol, neuroscienziata presso lo Houston Methodist Research Institute. Un recente studio non ancora sottoposto a revisione paritaria ha mostrato che il materiale genetico del SARS-CoV-2 può rimanere fino a 230 giorni nell’organismo e nel cervello dei pazienti COVID-19, anche in quelli che hanno presentato infezioni lievi o addirittura asintomatiche.
Susan Levine è un’infettivologa di New York specializzata in trattamento e diagnosi della sindrome da affaticamento cronico (in inglese CFS, Chronic Fatigue Syndrome), che presenta alcune similitudini con il cosiddetto long COVID. Ora visita 200 pazienti a settimana, rispetto ai 60 del periodo prepandemico. Rispetto alla CFS, il long COVID “ha effetti molto più intensi e marcati”, spiega Levine. “È come un tornado all’interno dell’organismo, e si passa da essere in grado di lavorare 60 ore a settimana a dover stare tutto il giorno a letto, dopo appena una settimana da quando si è contratta l’infezione. Il decorso è rapidissimo”.
Serbatoi animali di SARS-CoV-2
A preoccupare gli scienziati ora è la persistenza del SARS-CoV-2 al di fuori della popolazione umana e la possibilità che questo si diffonda ad altri animali per poi tornare all’uomo, prolungando così la pandemia.
In aprile 2020 tigri e leoni nello Zoo del Bronx di New York sono risultati positivi al COVID-19, destando l’interesse nel trovare altri animali potenzialmente vulnerabili. Poco tempo dopo, uno studio ha scoperto che determinati mammiferi, tra cui alcuni primati, cervi, balene e delfini, sono tra i più vulnerabili alla COVID-19, per via della somiglianza dei loro ACE2 con quelli delle cellule umane.
Un altro studio ha sfruttato modelli di apprendimento automatico per valutare le capacità di 5.400 specie di mammiferi di trasmettere il SARS-CoV-2; il risultato è stato che tra gli animali più a rischio di diffondere il COVID-19 molti sono quelli che vivono a stretto contatto con l’uomo, come il bestiame di allevamento e gli animali domestici.
Finora il SARS-CoV-2 ha infettato gatti, cani e furetti domestici, devastato gli allevamenti di visoni e si è diffuso tra tigri, iene e altri animali negli zoo. Inoltre, il SARS-CoV-2 è riuscito a compiere il salto dall’uomo ai visoni in cattività per poi tornare a infettare gli allevatori di visoni. Ed è possibile che una persona in Canada abbia contratto il COVID-19 da un esemplare di cervo dalla coda bianca.
“Il timore è che se il virus continua a evolversi nei cervi fino al punto in cui questi animali diventano sempre più immuni, gli anticorpi preesistenti dalla reinfezione potrebbero favorire l’ulteriore evoluzione del virus”, spiega Samira Mubareka del canadese Sunnybrook Health Sciences Centre. Inoltre, “il virus potrebbe circolare anche in altre popolazioni di animali selvatici”.
Comunque, la diffusione del SARS-CoV-2 nell’uomo continua a essere fonte di grande preoccupazione per gli scienziati, man mano che si scoprono ulteriori informazioni sul virus e sulla sua presenza e impatto sia nell’uomo che negli animali.
“Non sappiamo ancora cosa ci riservi il futuro”, conclude Wohl, “Abbiamo oltre due anni di storia ed esperienza sul campo eppure, nonostante tutte queste conoscenze, è ancora difficile prevedere cosa avverrà in futuro”.
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