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 Oggetto del messaggio: Re: IL MOSTRO DI FIRENZE E LE SETTE SATANICHE
MessaggioInviato: 16/01/2025, 11:32 
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https://www.open.online/2025/01/14/most ... -processo/


Gli avvocati del nipote di Mario Vanni chiedono la revisione del processo.

E portano alcune prove a supporto della richiesta



La locuzione “compagni di merende” nasce dalla testimonianza di Mario Vanni durante il primo processo nei confronti di Pietro Pacciani con l’accusa di essere il Mostro di Firenze. L’ex portalettere di Montefiridolfi la pronuncia all’esordio dell’interrogatorio del pubblico ministero Paolo Canessa: «Io sono stato a fa’ delle merende co’ i’ Pacciani, no?». Vanni e il reo confesso Giancarlo Lotti sono stati condannati in via definitiva per aver fatto parte della banda con Pacciani, nel frattempo deceduto. E quella sentenza compone la verità processuale sul serial killer responsabile dell’omicidio di otto coppie tra il 1968 e il 1986. Ma oggi gli avvocati del nipote di Vanni Valter Biscotti e Antonio Mazzeo hanno depositato una richiesta di revisione del processo che ha condannato Vanni all’ergastolo e Lotti a trent’anni. Vogliono dimostrare che Lotti era innocente. E così riscrivere tutta la storia del Mostro.



La richiesta


«È una battaglia di civiltà giuridica. Qualcuno si deve assumere il compito di eliminare i detriti che anche in un processo penale impediscono la ricerca della verità. Dopo 30 anni certi processi si vedono meglio, anche grazie alla scienza», dicono i legali al Fatto Quotidiano. Lotti, detto Katanga, all’epoca era disoccupato con una diagnosi di oligofrenia. Vanni, soprannominato Torsolo, aveva problemi di alcolismo e demenza. Il primo confessa di aver preso parte ad alcuni dei delitti e chiama in causa anche il secondo. Afferma di aver anche sparato in un’occasione, su richiesta di Pacciani. Il quale, secondo questa ricostruzione, avrebbe ucciso per prendere i feticci e in qualche modo venderli a qualcun altro. Le risultanze di quel processo hanno portato alle indagini sul Secondo Livello poi finite in un buco nell’acqua. Ma adesso, secondo i legali di Vanni, ci sono le prove per puntare sull’innocenza.



Le prove

Quali? Prima di tutto due consulenze, firmate da Fabiola Giusti e Stefano Vanin, che retrodatano uno dei delitti descritti in modo più dettagliato da Lotti. Ovvero quello di Jeanine Nadine Mauriot e Jean Kraveichvilj, avvenuto l’8 settembre del 1985 a San Casciano Val di Pesa, in località Scopeti. Lotti dice che i Compagni di Merende hanno ucciso di domenica.

Ma lo studio delle larve, effettuato con tecniche che allora non erano a disposizione della scienza, porta indietro le lancette almeno al venerdì sera.


Facendo venir meno tutto il racconto. Poi ci sono le testimonianze. La prima è quella del barista che disse di aver visto viva la vittima domenica mattina, ma per averla riconosciuta da una foto pubblicata due giorni dopo sulla Nazione. In quella foto Nadine Mauriot aveva quindici anni in meno e un taglio di capelli diverso. Altri due testimoni dicono che quella domenica Lotti non era agli Scopeti.



La pallottola


Poi c’è la pallottola trovata nel giardino di Pacciani. Nel 2019, secondo i giornali, la procura ha condotto alcune analisi e ha concluso che era stata in qualche modo artefatta. E in ogni caso non era compatibile con l’arma del delitto, la Beretta calibro 22 che ha “firmato” tutti gli omicidi a partire da quello di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, che per la giustizia italiana è stato fatto dal marito Stefano Mele. «Ho conosciuto mio zio come un uomo pacifico. Lo chiamavano in quel modo perché era ignorante, incapace di delitti efferati», dice il nipote Paolo. Secondo gli avvocati l’assassino è un killer solitario e calcolatore, come da profilo dell’Fbi dell’epoca. Un profilo che non combacia né con Pacciani né con Lotti e Vanni.



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 Oggetto del messaggio: Re: IL MOSTRO DI FIRENZE E LE SETTE SATANICHE
MessaggioInviato: 30/05/2025, 14:14 
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https://www.lacrunadellago.net/i-mister ... assoneria/


I misteri del mostro di Firenze:

l’ombra di Gladio,

dei servizi e della massoneria



Di Cesare Sacchetti

La Toscana è una terra che evoca cultura, storia, arte e genio.

Lì sono nati geni del calibro di Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti.

Lì, in altre parole, sono nati i geni più grandi non solo della storia d’Italia ma del mondo intero, tanta è la ricchezza custodita in Toscana.

Eppure tra queste amene terre ricche di storia, arte, cultura e stupendi paesaggi campestri, c’è un lato oscuro, uno di quelli che non ci si aspetterebbe di trovare proprio in mezzo a cotanta bellezza.

E’ la storia del mostro di Firenze e dei suoi efferati delitti che per 17 anni e oltre hanno terrorizzato i fiorentini e i toscani, in quella che all’epoca degli omicidi era ormai diventata una vera e propria psicosi da mostro.

I momenti di intimità delle coppiette toscane erano diventati d’un tratto dei momenti di paura e terrore, nei quali c’era da temere che all’improvviso sbucasse dai cespugli vicini lui, il mostro, con l’arma in mano e pronto a fare fuoco.

Il principio: il delitto di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco

La catena di omicidi inizia nel lontano 1968 e tocca inizialmente la cosiddetta pista dei sardi.

In Toscana, in quegli anni iniziano a migrare dalla Sardegna non pochi sardi che scelsero questa regione in cerca di fortuna.

Tra questi c’erano loro, c’erano i fratelli Vinci, Salvatore, Francesco e Giovanni.



Francesco Vinci

Il nome di Francesco sarà uno dei nomi più ricorrenti nella storia del mostro di Firenze, ma allora, negli anni’60, l’assassino seriale ancora non si era presentato alla Toscana, ancora non c’era il timore e la paura che una coppietta di fidanzati potesse essere uccisa a colpi di pistola senza una ragione apparente.

I tre Vinci avevano una relazione con un’altra donna sarda emigrata in Toscana, Barbara Locci, che era abbastanza nota nel paesino fuori Firenze dove viveva, Lastra a Signa, per essere estremamente libertina con gli uomini e per le sue numerose relazioni, tanto da guadagnarsi il soprannome di “ape regina”, vista la sua facilità di cambiare amanti con molta facilità.

Barbara era sposata con Stefano Mele, altro sardo emigrato in Toscana, che un po’ tutti conoscevano per essere tardo, passivo e senza nessun amor proprio nei confronti della moglie che lo tradiva in continuazione, una circostanza che non lo disturbava affatto, ma che sembrava anzi quasi divertirlo, tanto che pare portasse la colazione a letto a Barbara e ai suoi amanti.

La Locci prima del delitto aveva paura, come è capitato ad altre vittime del mostro di Firenze.

Aveva già confessato a Giuseppe Barranca, altro spasimante della donna, che temeva di essere uccisa in macchina a colpi di pistola, segno che Barbara era stata già molestata da qualche misterioso individuo che aveva probabilmente manifestato l’intenzione di ucciderla.

Ed è quello che avviene la notte del 22 agosto 1968.

Nonostante il timore precedente di volersi appartare in auto, Barbara dopo essere stata al cinema assieme a Lo Bianco e a suo figlio, il piccolo Natalino Mele di 8 anni, a vedere il film “Helga, il miracolo dell’amore” decide di recarsi con il suo amante in una stradina di campagna a via di Castelletti.



Barbara Locci e Antonio Lo Bianco

Lì entra in azione l’omicida che apre lo sportello del lato del guidatore, dove c’era Lo Bianco, e fa fuoco contro i due amanti.

Nel sedile posteriore giaceva il piccolo Natalino che svegliato dagli spari, vede quasi certamente l’assassino della madre e del suo spasimante.

Da questo momento in poi, inizia una fitta rete di misteri. Non si è ancora capito ad oggi come abbia fatto il piccolo di 6 anni a fare due chilometri di strada piedi fino ad una vicina cascina presso la quale suonerà il campanello e dirà questa frase.

“Apri, ho sonno, il mi’ babbo è malato e la mamma e lo zio sono morti”.

Si pensa che a portare lì il bambino sia stato probabilmente proprio lui, l’assassino, che non sapeva di trovare in macchina il figlio della donna, e allora ha deciso di caricarselo sulle spalle e di cantargli una canzone molto popolare all’epoca “La tramontana” per calmarlo mentre lo metteva al sicuro.

L’assassino del 1968 è lo stesso dei delitti successivi?

Ad oggi, ancora ci sono discussioni se questo delitto del 1968, per il quale fu condannato il marito della Locci nonostante le sue infinite contraddizioni possa essere attribuito al cosiddetto mostro di Firenze perché le modalità sono differenti da quelli dei sette successivi.

Difatti l’assassino dei successivi delitti agisce principalmente per condurre un macabro rito come l’escissione del pube sulla donna.

L’asportazione della vagina sembra essere ciò che muove questo maniaco che per soddisfare la sua perversa sete di feticci umani, si apposta nei luoghi dove si appartano i fidanzatini toscani in cerca di privacy, studia bene le zone dove colpire e quando entra in azione è semplicemente spietato, freddo, calcolatore e dimostra una assoluta padronanza delle proprie emozioni, tanto da saper agire di conseguenza anche quando le cose non vanno come da lui previsto.

L’assassino del 1968 non sembra invece che debba soddisfare questa sete di perversione.

Il suo movente è stato determinato probabilmente da gelosia o odio nei riguardi di una donna da lui giudicata troppo libertina, troppo discinta verso i suoi partner, e la sua azione di ricomporre le vesti della donna e di ritirarle su le mutandine sembra diametralmente opposta invece a come agisce l’assassino degli altri delitti dal 1974 al 1981.

A legare il primo delitto, quello del 1968 a quelli del 1974, sarebbe la pistola usata, una Beretta calibro 22 che avrebbe sparato sempre gli stessi colpi, ovvero proiettili Winchester serie H.

Il mostro ha depistato gli inquirenti?

Eppure negli ultimi tempi sembra aver preso una ipotesi che era stata già formulata nei primi anni’90 da un esperto del controspionaggio del SISDE come Aurelio Mattei, che, seppur sotto forma di romanzo, aveva scritto un racconto dal titolo “Coniglio il martedì..” nel quale un assassino seriale, chiaramente ispirato al mostro di Firenze, agiva per mettere in atto un depistaggio e sostituire nel fascicolo giudiziario di un vecchio procedimento dei proiettili con quelli da lui utilizzati nei delitti per stabilire il falso collegamento tra un delitto, in questo caso l’evidente riferimento nella realtà è a quello di Barbara Locci, e gli altri successivi.



Il romanzo di Aurelio Mattei

Quale interesse poteva avere il mostro a fare tale operazione se non quella di far pensare che l’autore originario del delitto della Locci e del suo amante, Lo Bianco, fosse da ricercarsi tra il giro di spasimanti della donna, e non invece piuttosto negli ambienti frequentati dal mostro stesso, che non sembrano affatto essere ordinari, come si vedrà meglio in seguito.

Secondo l’ipotesi formulata dal citato Mattei e sviluppata più recentemente dal giornalista Francesco Amicone, l’assassino dei delitti del 1974 avrebbe sparato dei colpi di pistola con la sua arma presso un poligono o un altro luogo all’aperto, avrebbe preso poi i proiettili e i bossoli sparati dall’arma sottoponendoli ad un processo di modifica attraverso della gelatina e del pentolame per deformare i proiettili e per renderli più simili a quelli sparati a Lastra a Signa, e inserirli così infine nel fascicolo giudiziario del delitto del 1968.

Il ritrovamento nel 1982 di queste prove in quel fascicolo ha suscitato lo scalpore di molti addetti ai lavori, semplicemente perché le prove vanno conservate altrove, nella stanza dei corpi di reato, e non devono finire tra le carte processuali.

L’ex magistrato della procura di Perugia, Giuliano Mignini, che si interessò al caso del mostro di Firenze, commentò così questo incredibile ritrovamento.

“Che nessuno, a Firenze, in Cassazione, a Perugia e, poi, ancora a Firenze, per altri otto anni circa, nessuno si sia accorto che al fascicolo processuale definito (sic) erano allegati i bossoli appartenenti ai proiettili utilizzati per un duplice omicidio, in aperta violazione delle disposizioni del codice, è un qualcosa che a menti critiche come quelle che si presumono in operatori del diritto non può non lasciare francamente increduli.”

Forse nessuno se n’è accorto per la semplice ragione che quei proiettili e bossoli originariamente non c’erano nel fascicolo, e sono stati messi lì dopo soltanto in un secondo momento, da un uomo che era riuscito ad accedere agli atti giudiziari, e da un uomo che era con ogni probabilità il mostro stesso che voleva depistare gli inquirenti attraverso tale falsa associazione.

Se gli inquirenti della procura di Firenze avessero esaminato la relazione originaria dei bossoli del 1968 fatta dal perito balistico dei Carabinieri, il colonnello Zuntini, sarebbero probabilmente giunti alla conclusione che non potevano essere gli stessi usati dal’74 al’85, perché i primi non avevano la caratteristica “unghiata” che presentavano quelli utilizzati dagli anni’70 in poi.



I bossoli trovati nel fasciscolo Mele presentano il segno distintivo assente invece su quelli trovati nel delitto del’68

Zuntini è molto lapidario al riguardo quando scrive che sui bossoli ci sono dei “segni quasi irrilevabili”.

Se tale pista è corretta, e francamente appare esserlo, allora sarebbe da riscrivere la storia dei delitti del mostro perché si avrebbe la relativa certezza, finalmente, che la pistola che ha sparato nel 1968 non è la stessa che ha sparato dal 1974 in poi, perché la seconda, come detto poco fa, lasciava sui bossoli quei segni distintivi che un perito esperto come il colonnello Zuntini difficilmente non poteva vedere.

Il profilo del mostro: l’assassino perfetto

Il profilo di questo assassino si conferma così come quello di un uomo addentro a determinati ambienti, uno che sembra che sappia dove andare a cercare determinati fascicoli, e che sembra estremamente edotto su conoscenze di tipo giuridico e militare che difficilmente lo associano ad un civile qualunque, tantomeno a degli alticci contadini e guardoni del fiorentino, come i famigerati compagni di merende, quali Pietro Pacciani, Mario Vanni, Giancarlo Lotti e Marco Pucci.

La dinamica stessa dei fatti suggerisce che quest’uomo sembrava avesse una estrema famigliarità con procedure d’attacco e modus operandi che non apparivano essere per nulla quelli di una persona qualunque.

Ad esempio, nel delitto del 1985 di Scopeti dei due francesi, Jean – Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot, l’assassino dimostra una forza fisica e una lucidità fuori dal comune.



Jean – Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot

I due ragazzi si erano accampati con una tenda nei pressi della campagna di San Casciano.

Il mostro spara contro la tenda nella quale c’erano i due giovani, uccidendo sul colpo Nadine e ferendo Jean – Michel.

Jean – Michel però riesce a scappare.

Il giovane era uno sportivo, un pugile in ottima forma fisica e allenato alla corsa, ma non appena inizia a fuggire l’assassino gli spara dei colpi da dietro mentre il ragazzo è in fuga, e riesce a colpirlo al gomito e all’omero, circostanza non affatto facile se si considera che il bersaglio era anche in movimento, fino a raggiungerlo per poi finirlo a coltellate.

Non sembrano nemmeno da lontano le caratteristiche dei compagni di merende, lenti e fuori forma.

E’ un uomo che in ogni momento ha idea di quello che deve fare.

Il delitto Mainardi – Migliorini e le bugie di Giancarlo Lotti

Lo si vede anche nel delitto di Paolo Mainardi e Antonella Migliorini.

I due giovani si erano appostati vicino la strada provinciale di Montespertoli perché lì passavano delle auto in un senso e nell’altro, e sarebbe stato più difficile per un eventuale aggressore sferrare il suo attacco.



Paolo Mainardi e Antonella Miglorini

Non per il mostro però, che li stava evidentemente seguendo da prima.

L’assassino inizia a sparare contro i due ragazzi, non uccidendoli subito.

Il suo obiettivo, lo si ricordi, è sempre e solo l’escissione del pube, è questo che in qualche modo lo “soddisfa” ed è questo il trofeo che lui vuole portare a casa.

L’impianto accusatorio del PM Canessa si fondava sulla “confessione” di Giancarlo Lotti, il quale sosteneva che a sparare all’auto era stato Pacciani e che era stato Mainardi a far finire l’auto nella cunetta nel tentativo di scappare all’aggressione.

La tesi dell’accusa però si sfalda completamente in aula quando vengono chiamati a deporre i portantini e gli infermieri dell’ospedale Misericordia, tra i quali c’era Lorenzo Allegranti, giunti sul posto dopo che due coppie allarmate dagli spari, erano giunte vicino all’auto di Mainardi e avevano chiamato i soccorsi.

Ognuno dei soccorritori testimonia che Mainardi si trovava nel sedile posteriore gravemente ferito assieme alla sua fidanzata, anch’elle nella parte posteriore della vettura, che nel frattempo era morta.

L’intera storia raccontata da Lotti che affermava che Pacciani avrebbe iniziato a sparare contro l’auto mentre Mainardi era seduto sul lato del guidatore era chiaramente una bugia.

I compagni di merende probabilmente nemmeno erano mai stati lì, e l’avvocato di Mario Vanni, Nino Filastò, riuscirà a dimostrare come si sono svolti effettivamente i fatti quella notte.



L’intervista all’avvocato Filastò. Dal minuto 38:00 circa descrive la dinamica dell’agguato a Mainardi e MIgliorini

Il mostro era entrato in azione come si dice prima sparando contro l’auto nella piazzola, e poi, dopo aver spostato i corpi nei sedili posteriori, si stava allontanando dal luogo dell’aggressione alla ricerca di un posto più tranquillo per poter fare la sua “operazione” contro la vittima femminile.

Antonella però non era ancora morta. Inizia a scalciare da dietro e sui suoi stinchi si trovano infatti ferite mortali.

L’assassino allora infastidito si gira di scatto, le spara e la prende in fronte, dimostrando ancora una volta una sicurezza e una famigliarità con le armi che non tutti hanno.

Nel fare però questa operazione, non guarda la strada e va a finire nella cunetta dove l’auto è bloccata.

L’uomo non perde la calma nemmeno in questi istanti.

Scende dall’auto, spara contro i fanalini sghembi per evitare di attirare l’attenzione, colpi sentiti dalle due coppie nelle vicinanze, e spara un altro colpo attraverso il parabrezza contro il povero Mainardi, che non è ancora morto.

Infine prende le chiavi della vettura e le getta lontano.

Soltanto allora, una volta compreso che ormai non poteva più agire sul corpo della donna perché aveva già fatto fuoco e c’era il rischio di essere scoperto, si dilegua nella notte dimostrando ancora una volta una conoscenza sicura e dettagliata dei luoghi da lui scelti dalle sue azioni, come se sapesse sempre dove dirigersi una volta finito il “lavoro”.

Le telefonate anonime contro vittime e testimoni

Dopo questo delitto, arrivano altre conferme che l’uomo, chiunque fosse stato, non poteva essere un maniaco comune.

A casa dell’infermiere Allegranti, a poca distanza dall’agguato di Montespertoli, arriva una telefonata da parte di un sconosciuto soggetto che si identifica come un uomo della procura e vuole subito sapere se Mainardi, non ancora morto al momento dei soccorsi, aveva detto qualcosa.

Allegranti denuncia il fatto, ma intanto le telefonate continuano, persino al lavoro.

Il soggetto che chiama non ha inflessioni dialettali, sembra essere subito riuscito a sapere dove vive e lavora l’infermiere toscano, e non sembra intenzionato a lasciarlo in pace nemmeno due anni dopo, nell’estate del 1984, quando si reca in vacanza a Rimini con la sua famiglia.

L’uomo lì riceve una telefonata ancora una volta dallo stesso anonimo soggetto che è riuscito a sapere non solo che Allegranti era in vacanza a Rimini, ma sapeva anche in quale luogo si trovava l’uomo.

Soltanto qualcuno che stava conducendo una operazione di sorveglianza nei confronti di Allegranti poteva essere informato sui suoi movimenti, e soltanto qualcuno con determinati accessi ai numeri privati delle persone poteva fare con facilità queste chiamate.

Enzo Spalletti: l’uomo dimenticato che vide il mostro in azione

Altre strane chiamate giungono a casa di Enzo Spalletti, un guardone che nel 1981 aveva assistito all’omicidio di Carmela De Nuccio e Giovanni Foggi.



Enzo Spalletti

Spalletti era anch’egli un infermiere, sposato con tre figli, ma aveva però il vizio del voyeurismo che praticava assieme ad un altro “collega”, Fosco Fabbri.

Una sera, quella del 6 giugno del 1981, decide di andare in appostamento nei pressi di Roveta sempre in compagnia di Fosco Fabbri.

Il suo amico verso la mezzanotte si stufa e decide di rincasare, ma Spalletti persevera e aspetta il momento più propizio che arriva quando giungono sulla piazzola di sosta i due giovani, Carmela e Giovanni.

Arriva però in quegli istanti il mostro che metodicamente e da manuale agisce come sempre.

Spara prima all’uomo seduto sul lato del guidatore, poi alla donna, che viene trascinata fuori dall’auto e dove, una volta distesa a terra, subisce la rituale escissione del pube.

Spalletti quando torna a casa confessa alla moglie di aver visto due cadaveri, e la mattina, in un bar, fa la stessa confessione a due clienti lì presenti.

Viene contattato dagli inquirenti Silvia Della Monica e Adolfo Izzo dopo che era giunta una segnalazione sulla sua auto avvistata nei pressi del delitto.

Spalletti ai magistrati dichiara di aver saputo degli omicidi dai giornali, ma ciò non era possibile perché la notizia verrà resa nota dalla stampa soltanto il giorno dopo.

Gli inquirenti allora sospettano di lui, ma Spalletti farà una dichiarazione molto pungente ai due giudici quando afferma che questi lo tenevano in galera soltanto per coprire qualcuno di molto più importante.

Nelle settimane successive, arriva a casa dell’infermiere una telefonata di un altro misterioso interlocutore che dice alla moglie e al fratello dell’uomo di stare zitto perché presto uscirà dal carcere, dando però dell’imbecille a Spalletti che aveva parlato troppo scoprendosi.

A ottobre, arriva puntualmente l’omicidio di Stefano Baldi e Susanna Cambi, e Spalletti viene scarcerato.

Ad oggi, quest’uomo è uno dei pochi che quasi certamente ha visto in azione il mostro di Firenze, ma gli inquirenti non lo hanno più cercato.

E’ come se Spalletti fosse sparito dalle cronache.

Anni dopo, quando inizia il processo contro Vanni e Pacciani per i delitti del mostro, venne raggiunto di nuovo da un collaboratore dell’avvocato Filastò al quale l’uomo fece questa confidenza.

“Non hanno capito nulla, sono fuori strada, è una vergogna!Ma se dietro a tutto quest’affare ci fosse qualcheduno grosso eh? Oppure qualche poliziotto di quelli con le palle grosse… Non è ne la prima ne l’ultima volta. Nessuno ci pensa?”

Spalletti quindi ha affermato che l’assassino poteva essere un uomo delle forze dell’ordine, uno con una certa dimestichezza con l’uso delle armi, e uno forse anche legato ai servizi, considerata la facilità con la quale riusciva ad avere determinate informazioni sulle vittime e sui testimoni, da lui minacciate attraverso diverse telefonate.

Le telefonate alle vittime fatte da uomini dei servizi?

Non erano stati soltanto i famigliari di Spalletti ad essere “avvertiti”.

Stessa sorte occorse al suo amico, Fosco, che è stato minacciato più volte da anonimi, e in una occasione persino speronato volontariamente da un’altra auto condotta da un misterioso pirata.

Fosca Fabbri aveva fatto delle interessanti dichiarazioni sul delitto del 6 giugno.

L’uomo aveva detto che una Ford blu aveva azionato la sirena nei pressi della zona la notte dell’omicidio di Carmela e Giovanni per allontanare i guardoni dalla zona e lasciare libero il “campo”.

Le considerazioni fatte in tal senso dal dottor Carlo Palego sulle dinamiche di attacco del mostro, prettamente simili a quelle di un militare, sono alquanto interessanti perché denotano dei metodi di azione e alcune circostanze assimilabili alla famigerata Gladio, l’esercito clandestino della NATO.

Ad esempio, Palego osserva come in almeno due occasioni, una nel citato delitto del 6 giugno del 1981 e un’altra, quella del 1985, del delitto dei francesi, a scoprire i corpi furono, per caso, e non chiamati, due agenti di polizia, rispettivamente Vittorio Sifone, in borghese quel giorno, ed Edoardo Iacovacci della alquanto controversa DIGOS.

Ancora più anomala appare la telefonata giunta a Maria Nencini, la zia di Susanna Cambi, il giorno dopo l’omicidio non ancora scoperto di Susanna, nella quale un misterioso interlocutore chiese di parlare più volte con la madre della giovane.



Stefano Baldi e Susanna Cambi

Nessuno, se non pochissime persone, sapevano che la madre della Cambi era lì, e questo denota ancora una volta un livello di conoscenze estremamente privilegiato, che soltanto degli addetti ai servizi potevano avere come nel caso della chiamata minatoria fatta a Rimini contro Allegranti.

Altre telefonate minatorie, come quelle all’estetista Dorotea Falso che fece emergere il ruolo della massoneria nel caso, sono state fatte con schede telefoniche assegnate a numeri inesistenti, a conferma ancora una volta che nel caso del mostro di Firenze c’era in azione un livello riservato dei servizi, probabilmente molto vicino alla NATO e alla citata Gladio.

Filastò ha sostenuto la teoria di un assassino poliziotto perché non c’era praticamente mai reazione da parte delle vittime, non affatto allarmate da qualcuno che si avvicinava all’auto come avrebbero dovuto essere, senza dimenticare che in una occasione è stato ritrovato un libretto di circolazione sul tappetino del passeggero, come se fosse stato tirato fuori per essere esibito, e in un’altra la vittima maschile è stata trovata in mano con il portafoglio bucato, come se anch’esso fosse stato estratto per esibire il documento su richiesta di un presunto uomo delle forze dell’ordine

L’avvocato di Vanni non sembrava essere affatto lontano dalla verità, nonostante scartasse la pista esoterica e massonica che in realtà non appariva affatto in contraddizione con la sua teoria, ma piuttosto complementare.

L’inchiesta condotta da Giuliano Mignini, ex magistrato della procura di Perugia, indica la presenza di un livello massonico nei delitti del mostro per via del coinvolgimento del medico massone del Grande Oriente d’Italia, Francesco Narducci, dichiarato affogato nel 1985 sul lago Trasimeno, mentre in realtà il corpo rinvenuto non era suo, e il medico era stato ucciso strangolato da un misterioso sicario.


Francesco Narducci



Viene ipotizzato che Narducci avesse a disposizione i feticci del mostro, utilizzati nei vari rituali massonici ed esoterici praticati dalla libera muratoria.

La storia dei delitti del mostro di Firenze appare quindi concatenata ad una serie di piani superiori che vede certamente un freddo professionista in azione, ma su mandato di poteri molto più in alto del singolo esecutore e nell’ambito di una strategia della tensione che ha colpito la Toscana attraverso i delitti fino al 1985, mentre due anni dopo, nel 1987, ad essere colpita da altri uomini legati ai servizi tramite la famigerata banda della Uno Bianca era l’altra regione rossa, l’Emilia Romagna.

Alcuni organi di stampa affermano che la riapertura del caso Garlasco è una sorta di effetto domino per gli altri casi del passato.

Probabilmente è vero, non tanto per il singolo caso di Garlasco ma perché i vari poteri che tenevano in mano questa insanguinata repubblica sono in via di disfacimento e ora si aprono i cassetti un tempo rigorosamente chiusi.

Forse è giunto davvero il tempo della verità su questa lunga scia di delitti.







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