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 Oggetto del messaggio: Re: IL MOSTRO DI FIRENZE E LE SETTE SATANICHE
MessaggioInviato: 16/01/2025, 11:32 
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https://www.open.online/2025/01/14/most ... -processo/


Gli avvocati del nipote di Mario Vanni chiedono la revisione del processo.

E portano alcune prove a supporto della richiesta



La locuzione “compagni di merende” nasce dalla testimonianza di Mario Vanni durante il primo processo nei confronti di Pietro Pacciani con l’accusa di essere il Mostro di Firenze. L’ex portalettere di Montefiridolfi la pronuncia all’esordio dell’interrogatorio del pubblico ministero Paolo Canessa: «Io sono stato a fa’ delle merende co’ i’ Pacciani, no?». Vanni e il reo confesso Giancarlo Lotti sono stati condannati in via definitiva per aver fatto parte della banda con Pacciani, nel frattempo deceduto. E quella sentenza compone la verità processuale sul serial killer responsabile dell’omicidio di otto coppie tra il 1968 e il 1986. Ma oggi gli avvocati del nipote di Vanni Valter Biscotti e Antonio Mazzeo hanno depositato una richiesta di revisione del processo che ha condannato Vanni all’ergastolo e Lotti a trent’anni. Vogliono dimostrare che Lotti era innocente. E così riscrivere tutta la storia del Mostro.



La richiesta


«È una battaglia di civiltà giuridica. Qualcuno si deve assumere il compito di eliminare i detriti che anche in un processo penale impediscono la ricerca della verità. Dopo 30 anni certi processi si vedono meglio, anche grazie alla scienza», dicono i legali al Fatto Quotidiano. Lotti, detto Katanga, all’epoca era disoccupato con una diagnosi di oligofrenia. Vanni, soprannominato Torsolo, aveva problemi di alcolismo e demenza. Il primo confessa di aver preso parte ad alcuni dei delitti e chiama in causa anche il secondo. Afferma di aver anche sparato in un’occasione, su richiesta di Pacciani. Il quale, secondo questa ricostruzione, avrebbe ucciso per prendere i feticci e in qualche modo venderli a qualcun altro. Le risultanze di quel processo hanno portato alle indagini sul Secondo Livello poi finite in un buco nell’acqua. Ma adesso, secondo i legali di Vanni, ci sono le prove per puntare sull’innocenza.



Le prove

Quali? Prima di tutto due consulenze, firmate da Fabiola Giusti e Stefano Vanin, che retrodatano uno dei delitti descritti in modo più dettagliato da Lotti. Ovvero quello di Jeanine Nadine Mauriot e Jean Kraveichvilj, avvenuto l’8 settembre del 1985 a San Casciano Val di Pesa, in località Scopeti. Lotti dice che i Compagni di Merende hanno ucciso di domenica.

Ma lo studio delle larve, effettuato con tecniche che allora non erano a disposizione della scienza, porta indietro le lancette almeno al venerdì sera.


Facendo venir meno tutto il racconto. Poi ci sono le testimonianze. La prima è quella del barista che disse di aver visto viva la vittima domenica mattina, ma per averla riconosciuta da una foto pubblicata due giorni dopo sulla Nazione. In quella foto Nadine Mauriot aveva quindici anni in meno e un taglio di capelli diverso. Altri due testimoni dicono che quella domenica Lotti non era agli Scopeti.



La pallottola


Poi c’è la pallottola trovata nel giardino di Pacciani. Nel 2019, secondo i giornali, la procura ha condotto alcune analisi e ha concluso che era stata in qualche modo artefatta. E in ogni caso non era compatibile con l’arma del delitto, la Beretta calibro 22 che ha “firmato” tutti gli omicidi a partire da quello di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, che per la giustizia italiana è stato fatto dal marito Stefano Mele. «Ho conosciuto mio zio come un uomo pacifico. Lo chiamavano in quel modo perché era ignorante, incapace di delitti efferati», dice il nipote Paolo. Secondo gli avvocati l’assassino è un killer solitario e calcolatore, come da profilo dell’Fbi dell’epoca. Un profilo che non combacia né con Pacciani né con Lotti e Vanni.



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 Oggetto del messaggio: Re: IL MOSTRO DI FIRENZE E LE SETTE SATANICHE
MessaggioInviato: 30/05/2025, 14:14 
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https://www.lacrunadellago.net/i-mister ... assoneria/


I misteri del mostro di Firenze:

l’ombra di Gladio,

dei servizi e della massoneria



Di Cesare Sacchetti

La Toscana è una terra che evoca cultura, storia, arte e genio.

Lì sono nati geni del calibro di Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti.

Lì, in altre parole, sono nati i geni più grandi non solo della storia d’Italia ma del mondo intero, tanta è la ricchezza custodita in Toscana.

Eppure tra queste amene terre ricche di storia, arte, cultura e stupendi paesaggi campestri, c’è un lato oscuro, uno di quelli che non ci si aspetterebbe di trovare proprio in mezzo a cotanta bellezza.

E’ la storia del mostro di Firenze e dei suoi efferati delitti che per 17 anni e oltre hanno terrorizzato i fiorentini e i toscani, in quella che all’epoca degli omicidi era ormai diventata una vera e propria psicosi da mostro.

I momenti di intimità delle coppiette toscane erano diventati d’un tratto dei momenti di paura e terrore, nei quali c’era da temere che all’improvviso sbucasse dai cespugli vicini lui, il mostro, con l’arma in mano e pronto a fare fuoco.

Il principio: il delitto di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco

La catena di omicidi inizia nel lontano 1968 e tocca inizialmente la cosiddetta pista dei sardi.

In Toscana, in quegli anni iniziano a migrare dalla Sardegna non pochi sardi che scelsero questa regione in cerca di fortuna.

Tra questi c’erano loro, c’erano i fratelli Vinci, Salvatore, Francesco e Giovanni.



Francesco Vinci

Il nome di Francesco sarà uno dei nomi più ricorrenti nella storia del mostro di Firenze, ma allora, negli anni’60, l’assassino seriale ancora non si era presentato alla Toscana, ancora non c’era il timore e la paura che una coppietta di fidanzati potesse essere uccisa a colpi di pistola senza una ragione apparente.

I tre Vinci avevano una relazione con un’altra donna sarda emigrata in Toscana, Barbara Locci, che era abbastanza nota nel paesino fuori Firenze dove viveva, Lastra a Signa, per essere estremamente libertina con gli uomini e per le sue numerose relazioni, tanto da guadagnarsi il soprannome di “ape regina”, vista la sua facilità di cambiare amanti con molta facilità.

Barbara era sposata con Stefano Mele, altro sardo emigrato in Toscana, che un po’ tutti conoscevano per essere tardo, passivo e senza nessun amor proprio nei confronti della moglie che lo tradiva in continuazione, una circostanza che non lo disturbava affatto, ma che sembrava anzi quasi divertirlo, tanto che pare portasse la colazione a letto a Barbara e ai suoi amanti.

La Locci prima del delitto aveva paura, come è capitato ad altre vittime del mostro di Firenze.

Aveva già confessato a Giuseppe Barranca, altro spasimante della donna, che temeva di essere uccisa in macchina a colpi di pistola, segno che Barbara era stata già molestata da qualche misterioso individuo che aveva probabilmente manifestato l’intenzione di ucciderla.

Ed è quello che avviene la notte del 22 agosto 1968.

Nonostante il timore precedente di volersi appartare in auto, Barbara dopo essere stata al cinema assieme a Lo Bianco e a suo figlio, il piccolo Natalino Mele di 8 anni, a vedere il film “Helga, il miracolo dell’amore” decide di recarsi con il suo amante in una stradina di campagna a via di Castelletti.



Barbara Locci e Antonio Lo Bianco

Lì entra in azione l’omicida che apre lo sportello del lato del guidatore, dove c’era Lo Bianco, e fa fuoco contro i due amanti.

Nel sedile posteriore giaceva il piccolo Natalino che svegliato dagli spari, vede quasi certamente l’assassino della madre e del suo spasimante.

Da questo momento in poi, inizia una fitta rete di misteri. Non si è ancora capito ad oggi come abbia fatto il piccolo di 6 anni a fare due chilometri di strada piedi fino ad una vicina cascina presso la quale suonerà il campanello e dirà questa frase.

“Apri, ho sonno, il mi’ babbo è malato e la mamma e lo zio sono morti”.

Si pensa che a portare lì il bambino sia stato probabilmente proprio lui, l’assassino, che non sapeva di trovare in macchina il figlio della donna, e allora ha deciso di caricarselo sulle spalle e di cantargli una canzone molto popolare all’epoca “La tramontana” per calmarlo mentre lo metteva al sicuro.

L’assassino del 1968 è lo stesso dei delitti successivi?

Ad oggi, ancora ci sono discussioni se questo delitto del 1968, per il quale fu condannato il marito della Locci nonostante le sue infinite contraddizioni possa essere attribuito al cosiddetto mostro di Firenze perché le modalità sono differenti da quelli dei sette successivi.

Difatti l’assassino dei successivi delitti agisce principalmente per condurre un macabro rito come l’escissione del pube sulla donna.

L’asportazione della vagina sembra essere ciò che muove questo maniaco che per soddisfare la sua perversa sete di feticci umani, si apposta nei luoghi dove si appartano i fidanzatini toscani in cerca di privacy, studia bene le zone dove colpire e quando entra in azione è semplicemente spietato, freddo, calcolatore e dimostra una assoluta padronanza delle proprie emozioni, tanto da saper agire di conseguenza anche quando le cose non vanno come da lui previsto.

L’assassino del 1968 non sembra invece che debba soddisfare questa sete di perversione.

Il suo movente è stato determinato probabilmente da gelosia o odio nei riguardi di una donna da lui giudicata troppo libertina, troppo discinta verso i suoi partner, e la sua azione di ricomporre le vesti della donna e di ritirarle su le mutandine sembra diametralmente opposta invece a come agisce l’assassino degli altri delitti dal 1974 al 1981.

A legare il primo delitto, quello del 1968 a quelli del 1974, sarebbe la pistola usata, una Beretta calibro 22 che avrebbe sparato sempre gli stessi colpi, ovvero proiettili Winchester serie H.

Il mostro ha depistato gli inquirenti?

Eppure negli ultimi tempi sembra aver preso una ipotesi che era stata già formulata nei primi anni’90 da un esperto del controspionaggio del SISDE come Aurelio Mattei, che, seppur sotto forma di romanzo, aveva scritto un racconto dal titolo “Coniglio il martedì..” nel quale un assassino seriale, chiaramente ispirato al mostro di Firenze, agiva per mettere in atto un depistaggio e sostituire nel fascicolo giudiziario di un vecchio procedimento dei proiettili con quelli da lui utilizzati nei delitti per stabilire il falso collegamento tra un delitto, in questo caso l’evidente riferimento nella realtà è a quello di Barbara Locci, e gli altri successivi.



Il romanzo di Aurelio Mattei

Quale interesse poteva avere il mostro a fare tale operazione se non quella di far pensare che l’autore originario del delitto della Locci e del suo amante, Lo Bianco, fosse da ricercarsi tra il giro di spasimanti della donna, e non invece piuttosto negli ambienti frequentati dal mostro stesso, che non sembrano affatto essere ordinari, come si vedrà meglio in seguito.

Secondo l’ipotesi formulata dal citato Mattei e sviluppata più recentemente dal giornalista Francesco Amicone, l’assassino dei delitti del 1974 avrebbe sparato dei colpi di pistola con la sua arma presso un poligono o un altro luogo all’aperto, avrebbe preso poi i proiettili e i bossoli sparati dall’arma sottoponendoli ad un processo di modifica attraverso della gelatina e del pentolame per deformare i proiettili e per renderli più simili a quelli sparati a Lastra a Signa, e inserirli così infine nel fascicolo giudiziario del delitto del 1968.

Il ritrovamento nel 1982 di queste prove in quel fascicolo ha suscitato lo scalpore di molti addetti ai lavori, semplicemente perché le prove vanno conservate altrove, nella stanza dei corpi di reato, e non devono finire tra le carte processuali.

L’ex magistrato della procura di Perugia, Giuliano Mignini, che si interessò al caso del mostro di Firenze, commentò così questo incredibile ritrovamento.

“Che nessuno, a Firenze, in Cassazione, a Perugia e, poi, ancora a Firenze, per altri otto anni circa, nessuno si sia accorto che al fascicolo processuale definito (sic) erano allegati i bossoli appartenenti ai proiettili utilizzati per un duplice omicidio, in aperta violazione delle disposizioni del codice, è un qualcosa che a menti critiche come quelle che si presumono in operatori del diritto non può non lasciare francamente increduli.”

Forse nessuno se n’è accorto per la semplice ragione che quei proiettili e bossoli originariamente non c’erano nel fascicolo, e sono stati messi lì dopo soltanto in un secondo momento, da un uomo che era riuscito ad accedere agli atti giudiziari, e da un uomo che era con ogni probabilità il mostro stesso che voleva depistare gli inquirenti attraverso tale falsa associazione.

Se gli inquirenti della procura di Firenze avessero esaminato la relazione originaria dei bossoli del 1968 fatta dal perito balistico dei Carabinieri, il colonnello Zuntini, sarebbero probabilmente giunti alla conclusione che non potevano essere gli stessi usati dal’74 al’85, perché i primi non avevano la caratteristica “unghiata” che presentavano quelli utilizzati dagli anni’70 in poi.



I bossoli trovati nel fasciscolo Mele presentano il segno distintivo assente invece su quelli trovati nel delitto del’68

Zuntini è molto lapidario al riguardo quando scrive che sui bossoli ci sono dei “segni quasi irrilevabili”.

Se tale pista è corretta, e francamente appare esserlo, allora sarebbe da riscrivere la storia dei delitti del mostro perché si avrebbe la relativa certezza, finalmente, che la pistola che ha sparato nel 1968 non è la stessa che ha sparato dal 1974 in poi, perché la seconda, come detto poco fa, lasciava sui bossoli quei segni distintivi che un perito esperto come il colonnello Zuntini difficilmente non poteva vedere.

Il profilo del mostro: l’assassino perfetto

Il profilo di questo assassino si conferma così come quello di un uomo addentro a determinati ambienti, uno che sembra che sappia dove andare a cercare determinati fascicoli, e che sembra estremamente edotto su conoscenze di tipo giuridico e militare che difficilmente lo associano ad un civile qualunque, tantomeno a degli alticci contadini e guardoni del fiorentino, come i famigerati compagni di merende, quali Pietro Pacciani, Mario Vanni, Giancarlo Lotti e Marco Pucci.

La dinamica stessa dei fatti suggerisce che quest’uomo sembrava avesse una estrema famigliarità con procedure d’attacco e modus operandi che non apparivano essere per nulla quelli di una persona qualunque.

Ad esempio, nel delitto del 1985 di Scopeti dei due francesi, Jean – Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot, l’assassino dimostra una forza fisica e una lucidità fuori dal comune.



Jean – Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot

I due ragazzi si erano accampati con una tenda nei pressi della campagna di San Casciano.

Il mostro spara contro la tenda nella quale c’erano i due giovani, uccidendo sul colpo Nadine e ferendo Jean – Michel.

Jean – Michel però riesce a scappare.

Il giovane era uno sportivo, un pugile in ottima forma fisica e allenato alla corsa, ma non appena inizia a fuggire l’assassino gli spara dei colpi da dietro mentre il ragazzo è in fuga, e riesce a colpirlo al gomito e all’omero, circostanza non affatto facile se si considera che il bersaglio era anche in movimento, fino a raggiungerlo per poi finirlo a coltellate.

Non sembrano nemmeno da lontano le caratteristiche dei compagni di merende, lenti e fuori forma.

E’ un uomo che in ogni momento ha idea di quello che deve fare.

Il delitto Mainardi – Migliorini e le bugie di Giancarlo Lotti

Lo si vede anche nel delitto di Paolo Mainardi e Antonella Migliorini.

I due giovani si erano appostati vicino la strada provinciale di Montespertoli perché lì passavano delle auto in un senso e nell’altro, e sarebbe stato più difficile per un eventuale aggressore sferrare il suo attacco.



Paolo Mainardi e Antonella Miglorini

Non per il mostro però, che li stava evidentemente seguendo da prima.

L’assassino inizia a sparare contro i due ragazzi, non uccidendoli subito.

Il suo obiettivo, lo si ricordi, è sempre e solo l’escissione del pube, è questo che in qualche modo lo “soddisfa” ed è questo il trofeo che lui vuole portare a casa.

L’impianto accusatorio del PM Canessa si fondava sulla “confessione” di Giancarlo Lotti, il quale sosteneva che a sparare all’auto era stato Pacciani e che era stato Mainardi a far finire l’auto nella cunetta nel tentativo di scappare all’aggressione.

La tesi dell’accusa però si sfalda completamente in aula quando vengono chiamati a deporre i portantini e gli infermieri dell’ospedale Misericordia, tra i quali c’era Lorenzo Allegranti, giunti sul posto dopo che due coppie allarmate dagli spari, erano giunte vicino all’auto di Mainardi e avevano chiamato i soccorsi.

Ognuno dei soccorritori testimonia che Mainardi si trovava nel sedile posteriore gravemente ferito assieme alla sua fidanzata, anch’elle nella parte posteriore della vettura, che nel frattempo era morta.

L’intera storia raccontata da Lotti che affermava che Pacciani avrebbe iniziato a sparare contro l’auto mentre Mainardi era seduto sul lato del guidatore era chiaramente una bugia.

I compagni di merende probabilmente nemmeno erano mai stati lì, e l’avvocato di Mario Vanni, Nino Filastò, riuscirà a dimostrare come si sono svolti effettivamente i fatti quella notte.



L’intervista all’avvocato Filastò. Dal minuto 38:00 circa descrive la dinamica dell’agguato a Mainardi e MIgliorini

Il mostro era entrato in azione come si dice prima sparando contro l’auto nella piazzola, e poi, dopo aver spostato i corpi nei sedili posteriori, si stava allontanando dal luogo dell’aggressione alla ricerca di un posto più tranquillo per poter fare la sua “operazione” contro la vittima femminile.

Antonella però non era ancora morta. Inizia a scalciare da dietro e sui suoi stinchi si trovano infatti ferite mortali.

L’assassino allora infastidito si gira di scatto, le spara e la prende in fronte, dimostrando ancora una volta una sicurezza e una famigliarità con le armi che non tutti hanno.

Nel fare però questa operazione, non guarda la strada e va a finire nella cunetta dove l’auto è bloccata.

L’uomo non perde la calma nemmeno in questi istanti.

Scende dall’auto, spara contro i fanalini sghembi per evitare di attirare l’attenzione, colpi sentiti dalle due coppie nelle vicinanze, e spara un altro colpo attraverso il parabrezza contro il povero Mainardi, che non è ancora morto.

Infine prende le chiavi della vettura e le getta lontano.

Soltanto allora, una volta compreso che ormai non poteva più agire sul corpo della donna perché aveva già fatto fuoco e c’era il rischio di essere scoperto, si dilegua nella notte dimostrando ancora una volta una conoscenza sicura e dettagliata dei luoghi da lui scelti dalle sue azioni, come se sapesse sempre dove dirigersi una volta finito il “lavoro”.

Le telefonate anonime contro vittime e testimoni

Dopo questo delitto, arrivano altre conferme che l’uomo, chiunque fosse stato, non poteva essere un maniaco comune.

A casa dell’infermiere Allegranti, a poca distanza dall’agguato di Montespertoli, arriva una telefonata da parte di un sconosciuto soggetto che si identifica come un uomo della procura e vuole subito sapere se Mainardi, non ancora morto al momento dei soccorsi, aveva detto qualcosa.

Allegranti denuncia il fatto, ma intanto le telefonate continuano, persino al lavoro.

Il soggetto che chiama non ha inflessioni dialettali, sembra essere subito riuscito a sapere dove vive e lavora l’infermiere toscano, e non sembra intenzionato a lasciarlo in pace nemmeno due anni dopo, nell’estate del 1984, quando si reca in vacanza a Rimini con la sua famiglia.

L’uomo lì riceve una telefonata ancora una volta dallo stesso anonimo soggetto che è riuscito a sapere non solo che Allegranti era in vacanza a Rimini, ma sapeva anche in quale luogo si trovava l’uomo.

Soltanto qualcuno che stava conducendo una operazione di sorveglianza nei confronti di Allegranti poteva essere informato sui suoi movimenti, e soltanto qualcuno con determinati accessi ai numeri privati delle persone poteva fare con facilità queste chiamate.

Enzo Spalletti: l’uomo dimenticato che vide il mostro in azione

Altre strane chiamate giungono a casa di Enzo Spalletti, un guardone che nel 1981 aveva assistito all’omicidio di Carmela De Nuccio e Giovanni Foggi.



Enzo Spalletti

Spalletti era anch’egli un infermiere, sposato con tre figli, ma aveva però il vizio del voyeurismo che praticava assieme ad un altro “collega”, Fosco Fabbri.

Una sera, quella del 6 giugno del 1981, decide di andare in appostamento nei pressi di Roveta sempre in compagnia di Fosco Fabbri.

Il suo amico verso la mezzanotte si stufa e decide di rincasare, ma Spalletti persevera e aspetta il momento più propizio che arriva quando giungono sulla piazzola di sosta i due giovani, Carmela e Giovanni.

Arriva però in quegli istanti il mostro che metodicamente e da manuale agisce come sempre.

Spara prima all’uomo seduto sul lato del guidatore, poi alla donna, che viene trascinata fuori dall’auto e dove, una volta distesa a terra, subisce la rituale escissione del pube.

Spalletti quando torna a casa confessa alla moglie di aver visto due cadaveri, e la mattina, in un bar, fa la stessa confessione a due clienti lì presenti.

Viene contattato dagli inquirenti Silvia Della Monica e Adolfo Izzo dopo che era giunta una segnalazione sulla sua auto avvistata nei pressi del delitto.

Spalletti ai magistrati dichiara di aver saputo degli omicidi dai giornali, ma ciò non era possibile perché la notizia verrà resa nota dalla stampa soltanto il giorno dopo.

Gli inquirenti allora sospettano di lui, ma Spalletti farà una dichiarazione molto pungente ai due giudici quando afferma che questi lo tenevano in galera soltanto per coprire qualcuno di molto più importante.

Nelle settimane successive, arriva a casa dell’infermiere una telefonata di un altro misterioso interlocutore che dice alla moglie e al fratello dell’uomo di stare zitto perché presto uscirà dal carcere, dando però dell’imbecille a Spalletti che aveva parlato troppo scoprendosi.

A ottobre, arriva puntualmente l’omicidio di Stefano Baldi e Susanna Cambi, e Spalletti viene scarcerato.

Ad oggi, quest’uomo è uno dei pochi che quasi certamente ha visto in azione il mostro di Firenze, ma gli inquirenti non lo hanno più cercato.

E’ come se Spalletti fosse sparito dalle cronache.

Anni dopo, quando inizia il processo contro Vanni e Pacciani per i delitti del mostro, venne raggiunto di nuovo da un collaboratore dell’avvocato Filastò al quale l’uomo fece questa confidenza.

“Non hanno capito nulla, sono fuori strada, è una vergogna!Ma se dietro a tutto quest’affare ci fosse qualcheduno grosso eh? Oppure qualche poliziotto di quelli con le palle grosse… Non è ne la prima ne l’ultima volta. Nessuno ci pensa?”

Spalletti quindi ha affermato che l’assassino poteva essere un uomo delle forze dell’ordine, uno con una certa dimestichezza con l’uso delle armi, e uno forse anche legato ai servizi, considerata la facilità con la quale riusciva ad avere determinate informazioni sulle vittime e sui testimoni, da lui minacciate attraverso diverse telefonate.

Le telefonate alle vittime fatte da uomini dei servizi?

Non erano stati soltanto i famigliari di Spalletti ad essere “avvertiti”.

Stessa sorte occorse al suo amico, Fosco, che è stato minacciato più volte da anonimi, e in una occasione persino speronato volontariamente da un’altra auto condotta da un misterioso pirata.

Fosca Fabbri aveva fatto delle interessanti dichiarazioni sul delitto del 6 giugno.

L’uomo aveva detto che una Ford blu aveva azionato la sirena nei pressi della zona la notte dell’omicidio di Carmela e Giovanni per allontanare i guardoni dalla zona e lasciare libero il “campo”.

Le considerazioni fatte in tal senso dal dottor Carlo Palego sulle dinamiche di attacco del mostro, prettamente simili a quelle di un militare, sono alquanto interessanti perché denotano dei metodi di azione e alcune circostanze assimilabili alla famigerata Gladio, l’esercito clandestino della NATO.

Ad esempio, Palego osserva come in almeno due occasioni, una nel citato delitto del 6 giugno del 1981 e un’altra, quella del 1985, del delitto dei francesi, a scoprire i corpi furono, per caso, e non chiamati, due agenti di polizia, rispettivamente Vittorio Sifone, in borghese quel giorno, ed Edoardo Iacovacci della alquanto controversa DIGOS.

Ancora più anomala appare la telefonata giunta a Maria Nencini, la zia di Susanna Cambi, il giorno dopo l’omicidio non ancora scoperto di Susanna, nella quale un misterioso interlocutore chiese di parlare più volte con la madre della giovane.



Stefano Baldi e Susanna Cambi

Nessuno, se non pochissime persone, sapevano che la madre della Cambi era lì, e questo denota ancora una volta un livello di conoscenze estremamente privilegiato, che soltanto degli addetti ai servizi potevano avere come nel caso della chiamata minatoria fatta a Rimini contro Allegranti.

Altre telefonate minatorie, come quelle all’estetista Dorotea Falso che fece emergere il ruolo della massoneria nel caso, sono state fatte con schede telefoniche assegnate a numeri inesistenti, a conferma ancora una volta che nel caso del mostro di Firenze c’era in azione un livello riservato dei servizi, probabilmente molto vicino alla NATO e alla citata Gladio.

Filastò ha sostenuto la teoria di un assassino poliziotto perché non c’era praticamente mai reazione da parte delle vittime, non affatto allarmate da qualcuno che si avvicinava all’auto come avrebbero dovuto essere, senza dimenticare che in una occasione è stato ritrovato un libretto di circolazione sul tappetino del passeggero, come se fosse stato tirato fuori per essere esibito, e in un’altra la vittima maschile è stata trovata in mano con il portafoglio bucato, come se anch’esso fosse stato estratto per esibire il documento su richiesta di un presunto uomo delle forze dell’ordine

L’avvocato di Vanni non sembrava essere affatto lontano dalla verità, nonostante scartasse la pista esoterica e massonica che in realtà non appariva affatto in contraddizione con la sua teoria, ma piuttosto complementare.

L’inchiesta condotta da Giuliano Mignini, ex magistrato della procura di Perugia, indica la presenza di un livello massonico nei delitti del mostro per via del coinvolgimento del medico massone del Grande Oriente d’Italia, Francesco Narducci, dichiarato affogato nel 1985 sul lago Trasimeno, mentre in realtà il corpo rinvenuto non era suo, e il medico era stato ucciso strangolato da un misterioso sicario.


Francesco Narducci



Viene ipotizzato che Narducci avesse a disposizione i feticci del mostro, utilizzati nei vari rituali massonici ed esoterici praticati dalla libera muratoria.

La storia dei delitti del mostro di Firenze appare quindi concatenata ad una serie di piani superiori che vede certamente un freddo professionista in azione, ma su mandato di poteri molto più in alto del singolo esecutore e nell’ambito di una strategia della tensione che ha colpito la Toscana attraverso i delitti fino al 1985, mentre due anni dopo, nel 1987, ad essere colpita da altri uomini legati ai servizi tramite la famigerata banda della Uno Bianca era l’altra regione rossa, l’Emilia Romagna.

Alcuni organi di stampa affermano che la riapertura del caso Garlasco è una sorta di effetto domino per gli altri casi del passato.

Probabilmente è vero, non tanto per il singolo caso di Garlasco ma perché i vari poteri che tenevano in mano questa insanguinata repubblica sono in via di disfacimento e ora si aprono i cassetti un tempo rigorosamente chiusi.

Forse è giunto davvero il tempo della verità su questa lunga scia di delitti.







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https://www.lacrunadellago.net/il-vero- ... evilacqua/




Il vero volto del mostro di Firenze

è quello dell’ufficiale dell’esercito americano Joe Bevilacqua?




di Cesare Sacchetti

Dal caso del mostro di Firenze sono passati quasi 40 anni, da quando quel maledetto giorno del 7 settembre del 1985, il mostro ancora una volta entrava in azione, e colpiva con la sua metodica e brutale sistematicità le coppie di giovani che decidevano di appartarsi o sostare nella sua zona di azione privilegiata.

Il mostro aveva una sua peculiarità.

La sua mente malata provava apparentemente una grande soddisfazione, probabilmente di carattere sessuale, nell’asportare il pube delle vittima femminile che diventava così’ il suo trofeo, da utilizzarsi poi con ogni probabilità sia in deviati atti sessuali o peggio in riti di carattere esoterico, considerati soprattutto i personaggi che fanno parte di questa macabra vicenda.

Nel contributo della volta passata, si era passato in esame la catena di delitti del mostro che secondo la casistica ufficiale sarebbe iniziata a Castelletti di Signa, nel 1968, quando una misteriosa mano uccise Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, due amanti appartatisi in macchina per consumare un amplesso, qualcosa alla quale la Locci era molto abituata, data la sua nota promiscuità sessuale, tollerata dal tardo marito, Stefano Mele.

Le carte di quel processo affermano che il colpevole sarebbe proprio il marito della donna che avrebbe agito per motivi di gelosia, nonostante l’oligofrenico Mele non avesse alcuna gelosia nei confronti della sua consorte, alla quale non solo consentiva di avere tutte le scappatelle che voleva, ma sembrava quasi compiaciuto dall’essere un marito becco, tanto che serviva e riveriva anche gli amanti di sua moglie.

Quel delitto però non è con ogni probabilità stato compiuto dalla mano del mostro.

Quel fatto di sangue è nato probabilmente in ambienti della criminalità sarda che avevano deciso di intervenire contro i due amanti, diventati apparentemente d’intralcio o pericolosi per gli interessi dell’Anonima che si era stabilita da qualche tempo in Toscana.

Stefano Mele era appunto il colpevole perfetto.

Il suo ritardo mentale lo rendeva perfetto per essere manovrato da una macchina ben più potente di lui, e metterlo così dietro le sbarre, nonostante il pover’uomo quando aveva dovuto mostrare agli inquirenti come avesse ucciso sua moglie con una pistola Beretta calibro 22, non riuscisse nemmeno a tenere in mano l’arma.

C’era dunque una volontà chiaramente sia da parte dell’Anonima sarda di utilizzare Mele come capro espiatorio sul quale far ricadere la colpa del delitto, ma al contempo c’era anche una volontà da parte delle autorità investigative dell’epoca di lasciare che al marito della Locci venisse addossata la responsabilità del delitto.

Uno dei ricercatori più attenti e documentati sul caso del mostro di Firenze, il dottor Carlo Palego, ipotizza che già all’epoca possa esserci stato uno scambio di favori tra la delinquenza sarda e gli uomini di Gladio, l’esercito clandestino della NATO, per permettere poi agli apparati atlantici che governavano l’Italia di servirsi in un secondo momento della malavita sarda.

Non è affatto una pagina nuova della storia d’Italia del dopoguerra.

I rapporti tra mafia, massoneria e servizi costituiscono quella triade che ha avuto in mano le redini del potere in questo Paese da quando le chiavi della sovranità sono state consegnate ad altri padroni che si trovano al di fuori dei confini nazionali, in particolar modo la cosiddetta anglosfera, la quale non esitava e non esita a servirsi delle mafie per preservare il suo potere.

Un esempio di tale sodalizio è quello dello sbarco in Sicilia degli alleati, che per mettere in atto il loro piano militare hanno pensato di rivolgersi ai capi della mafia siciliana che sotto il fascismo avevano vita alquanto dura per via della loro deportazione forzata attraverso l’uso del confino.

Altro esempio di come l’anglosfera avesse già iniziato a servirsi della criminalità mafiosa risale già al secolo XIX, quando il primo ministro britannico, Lord Palmerston, potente massone, decise di servirsi della mafia siciliana, all’epoca ancora fenomeno prettamente rurale, per favorire non tanto l’Unità d’Italia, ma per liberarsi della Chiesa Cattolica, vera e propria bestia nera della libera muratoria.

Gli elementi presenti nella storia del mostro sono, in altre parole, gli stessi che si trovano nelle dinamiche che hanno portato alla colonizzazione dell’Italia e alla fenomenologia nota come strategia della tensione.

Allora per comprendere appieno cosa è accaduto in questo sanguinario e macabro capitolo della storia d’Italia, bisogna ripartire da tutti quegli elementi che gli inquirenti per incompetenza o complicità, come si vedrà a breve, hanno trascurato.

1982: gli uomini dei servizi corrono in soccorso del mostro

L’elemento in particolar modo che aiuta a comprendere quali siano i poteri dietro la triste vicenda del mostro di Firenze è quello relativo al depistaggio del 1982.

Firenze e la Toscana all’epoca erano già in preda alla cosiddetta “mostrofobia”.

Il mostro aveva ucciso dall’74 in poi otto persone, ma nell’ultimo assalto, quello ai danni di Paolo Mainardi e Antonella Migliorini, le cose non erano andate come previsto e il mostro era stato costretto a fuggire senza compiere il suo macabro rituale di escissione del pube.

E’ in quei momenti che arriva sul tavolo del giudice istruttore, Vincenzo Tricomi, una lettera anonima che invita a guardare il fascicolo del processo di Stefano Mele relativo al citato omicidio del 1968 ai danni di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco.

Tricomi è su tale pista che si indirizza dopo che il tenente colonnello dei Carabinieri e uomo del SISMI in Toscana, Olinto dell’Amico, gli aveva suggerito di guardare in tale direzione, e una volta che si apre quel fascicolo saltano fuori, magicamente, i bossoli e i proiettili che il mostro di Firenze avrebbe sparato nel 1968 contro Barbara Locci.



Olinto Dell’Amico

Tale pista però, come si è visto in precedenza, è da scartarsi perché i bossoli trovati in quel fascicolo non potevano essere quelli usati nel delitto del 1968 per la semplice ragione che i secondi avevano delle caratteristiche diverse dai primi.

Si è visto in precedenza come i bossoli utilizzati dal mostro presentassero un segno distintivo su di essi, impossibile da non vedere per un perito balistico, mentre quelli del delitto Locci-Lo Bianco, non mostravano alcun segno del genere.

C’era stato molto semplicemente un machiavellico e raffinato depistaggio da parte del mostro stesso che aveva sparato proiettili e bossoli con la sua pistola, e poi li aveva inseriti nel fascicolo Mele, segno che questo personaggio aveva anche una certa facilità di accesso agli uffici giudiziari, una circostanza che chiaramente associa il suo profilo a quello di un uomo di apparato, un uomo vicini a certi ambienti istituzionali.

Sono però proprio questi ambienti che si muovono in quell’anno per tirarlo fuori dai pasticci nei quali si stava mettendo, visto il fallimento dell’ultima azione.

Nella sua analisi su quell’episodio, Palego spiega come gli uomini chiave che si mossero per depistare le indagini furono proprio quelli appartenenti ai servizi segreti militari e alla rete clandestina della Gladio che avevano tutto l’interesse a far sì che l’autore di quegli efferati crimini restasse incolpevole e continuasse a uccidere indisturbato.

Sono i nomi del citato Dell’Amico, ma anche quelli del colonnello Spampinato e del colonnello Federigo Mannucci Benincasa, capocentro del SISMI a Firenze.

Sono loro che portano gli inquirenti su un binario morto ingenerando l’apertura di una falsa pista, quella sarda appunto, che creerà non pochi problemi anche ai vari ricercatori che si sono interessati al caso del mostro, alla caccia di un uomo, l’autore del delitto del’68, che non è il mostro, o almeno non è il capo di quella che era a tutti gli effetti una banda o una organizzazione.

Si può parlare senza timore di smentita di banda o organizzazione perché se Gladio e i servizi segreti militari italiani si sono mossi per correre in soccorso del mostro, allora è del tutto evidente che l’assassino agiva indisturbato perché un tale apparato glielo consentiva.

Il volto del mostro è quello di Joe Bevilacqua?

Il profilo dell’assassino del resto non è chiaramente quello di uno sbandato maniaco.

Il mostro aveva una abilità molto elevata nello sparare, mostrava forza, lucidità e sicurezza nei suoi agguati, oltre ad una conoscenza del territorio e delle varie via di fuga che non era da tutti.

Negli anni passati, già diversi ricercatori avevano ipotizzato che il mostro potesse essere un appartenente alle forze dell’ordine o un militare, e difatti ci erano andati vicinissimi, soprattutto alla luce di quanto emerso negli anni più recenti.

Il giornalista Francesco Amicone nella sua inchiesta sul mostro è riuscito con ogni probabilità a identificare l’uomo in questione, questo freddo assassino che agiva indisturbato nelle campagne nei pressi di Firenze.

Si tratterebbe di Joe Bevilacqua, un militare dell’esercito americano di stanza in Italia negli anni’60 presso la base di Camp Darby, a Pisa, per poi essere assegnato ad un incarico amministrativo presso il cimitero americano di Falciani, vicino Firenze, nel 1971.



Joe Bevilacqua negli anni 2010

Amicone inizia la sua indagine e scopre nel 2017 che il profilo di quest’uomo assomiglia molto a quello dell’ipotetico mostro.

Ha inizio così una sorta di partita a scacchi tra i due, perché una volta che Amicone avvicina Bevilacqua per condurre una presunta ricerca storica sul Vietnam, l’uomo sembra avere subito paura, come se sapesse sin dal principio qual era la vera ragione per la quale il giornalista italiano lo stava avvicinando.

Dopo aver terminato il suo incarico al cimitero americano presso Firenze, a Bevilacqua viene assegnato un altro incarico come direttore del cimitero militare americano nei pressi di Nettuno, sul litorale romano, ed è non molto distante da qui che l’ex militare americano abita.

Una volta che Amicone entra in contatto con lui, Bevilacqua si mostra subito diffidente, intimorito, fino a quando nel corso dei loro colloqui, l’ex militare avrebbe ammesso apertamente di essere lui l’assassino delle coppie, e avrebbe anche chiesto al giornalista se era il caso di portare l’arma dei delitti, la famigerata Beretta calibro 22, ai Carabinieri come prova della sue responsabilità.

Nel corso della loro conversazione telefonica durante la quale il presunto mostro avrebbe fatto tali rivelazioni accade un fatto irrituale, una sorta di “interferenza” esterna, come se qualcuno fosse lì all’ascolto per sentire cosa si stessero dicendo i due, nel timore forse che la confessione di Bevilacqua avrebbe potuto provocare un probabile effetto domino.

Difatti in seguito l’ex custode del cimitero militare di Firenze, cambierà la sua versione e dirà di non essere lui l’autore dei delitti.

Amicone intanto lo denuncia presso i carabinieri di Monza, si mette apparentemente in moto la macchina della giustizia, ma “singolarmente” la pista del giornalista non viene giudicata attendibile, nonostante ci fossero diversi elementi che facessero pensare ad un pesante coinvolgimento di Joe Bevilacqua nella vicenda, morto in seguito nel 2022.

L’ex militare, come detto, gestiva il cimitero americano di Falciani, a due passi dai luoghi nei quali sono avvenuti almeno due delitti, quali quelli ai danni dei tedeschi Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rüsch, e dei due francesi, Jean – Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot trucidati dal mostro nella piazzola degli Scopeti.



Il cimitero americano dove lavorava Bevilacqua si trova nella zona di azione preferenziale del mostro: Immagine presa dal blog Ostellovolante.com

Il personaggio Bevilacqua non era però del tutto sconosciuto al pubblico che seguì il caso del mostro.

Era già comparso infatti nel 1994, quando testimoniò al processo contro Pietro Pacciani, il contadino di Mercatale, accusato dalla procura di Firenze di essere lui l’autore dei delitto.

Bevilacqua afferma di aver visto Pacciani aggirarsi intorno agli Scopeti il pomeriggio del giorno nel quale sarebbe poi avvenuto l’omicidio, e quando gli viene chiesto se conosceva il contadino fiorentino accusato dei fatti rispose di no.

Eppure non è ciò che disse nel 1992 davanti ai Carabinieri, ai quali dichiarò che già conosceva Pietro Pacciani e non è ciò che riferirà la moglie Bevilacqua, Meri Torelli, la quale ha dichiarato che suo marito aveva dato a Pacciani il permesso di cacciare nella zona attorno al suo cimitero.



Al minuto 20 circa la falsa testimonianza di Bevilacqua

Bevilacqua aveva, in altre parole, reso falsa testimonianza in aula così come aveva detto il falso sul fatto che lui il giorno dopo il delitto degli Scopeti avrebbe sentito la mattina alla radio della notizia dell’assassinio dei due francesi, circostanza impossibile perché l’assassino dei due francesi verrà scoperto dalle autorità, soltanto il pomeriggio successivo del delitto.

Sarebbe stato opportuno indagare subito, già nel 1994 su Bevilacqua che aveva depistato gli inquirenti sul delitto degli Scopeti e sarebbe stato opportuno capire come faceva l’ex militare a sapere il giorno dopo che i due francesi erano stati uccisi, se in quel momento il fatto non era ancora noto all’opinione pubblica.

Sul luogo del delitto era stato avvistato effettivamente un uomo, e lo vide il testimone Giovanni Uras che fornì un identikit alle autorità.



Identikit dell’uomo avvistato prima del delitto degli Scopeti



Joe Bevilacqua

Se lo si guarda con attenzione, si nota una spiccata somiglianza con l’aspetto di Bevilacqua, ma le autorità né all’epoca né oggi mai hanno preso in considerazione il profilo di quest’uomo, nonostante sia un fatto accertato che abbia mentito in aula e depistato le indagini, e nonostante vivesse a due passi dai luoghi dei delitti.

Si spiegherebbe così la cosiddetta inafferrabilità del mostro, il fatto che egli riusciva sempre a dileguarsi senza lasciare alcuna traccia dietro di sé, e il fatto che diversi uomini dei servizi segreti italiani abbiano agito per proteggerlo.

Joe Bevilacqua era un intoccabile.

Il suo status di ex appartenente al Criminal Investigation Department delle forze armate americane, e la sua appartenenza alla rete clandestina di Gladio lo rendevano come un agente americano privilegiato sul territorio italiano.

Bevilacqua sarebbe stato uno dei leader di Gladio in Toscana e in Italia, e le sue efferate azioni vanno forse lette nel novero di una strategia più raffinata e criminale, che va al di là del “semplice maniaco” seppur ben infiltrato nelle istituzioni che si muove per deviati scopi sessuali.

L’ex membro del CID e veterano della guerra del Vietnam avrebbe fatto di un programma più esteso nel quadro della strategia della tensione.

In quegli anni, e ancora oggi, gli apparati atlantici non esitavano a servirsi di militari e paramilitari che avevano delle caratteristiche da psicopatici per attuare attentati terroristici sempre volti a destabilizzare la popolazione, a incuterle timore per farla vivere sotto la costante presenza di una minaccia esterna, necessaria per rinchiudere le persone comuni in uno stato di paura permanente e di arrendevolezza verso gli apparati politici e militari che all’epoca, come oggi, avevano in mano l’Italia.

Bevilacqua è il figlio di questa guerra psicologica scatenata ai toscani e agli italiani che inermi e inconsapevoli non sapevano che qualcuno in qualche base militare e nelle sedi dei servizi stavano giocando con la loro vita.

Si comprendono così alla perfezione sia il citato depistaggio del 1982 a favore dell’assassino, e si comprendono così tutte quelle strane chiamate minatorie contro i parenti delle vittime e i testimoni dei delitti, a dimostrazione che dietro questa vicenda c’erano poteri molto più forti e in alto dello stesso mostro, seppur dotato di coperture eccellenti.

Gli stessi Carabinieri del RIS scrivono di lui in un rapporto del 2018 sulla sua biografia che, a detta degli uomini dell’Arma, è “costellata da episodi potenzialmente rilevanti sotto tale profilo”, e per tale profilo si intendono gli episodi maniacali commessi dal mostro.

Le autorità, come ai vede, sanno perfettamente chi è il soggetto in questione.

I complici del mostro: Giampiero Vigilanti e Francesco Maria Narducci

Bevilacqua però, come si accennava in precedenza, non ha agito da solo.

Ha avuto certamente dei complici materiali in diversi delitti, tra i quali si pensa che tra questi ci fosse un ex membro della legione straniera francese quale Giampiero Vigilanti.



Giampiero Vigilanti

Vigilanti risultava avere un profilo altrettanto deviato come quello dell’americano.

L’ex legionario toscano e combattente del Vietnam negli anni’50 era stato già schedato dalla questura di Firenze per la sua pederastia e non deve sorprendere affatto che abbia stabilito un sodalizio con un personaggio come Joe Bevilacqua.

La sua partecipazione ai vari delitti risulta certamente compatibile con la sua deviata personalità, ma ciò non spiega comunque la perizia riscontrata nelle escissioni del pube delle povere vittime femminili.

Nella perizia eseguita dal 1981 dal dottor Maurri, si nota che l’escissione del pube di Carmela De Nuccio è stata eseguita da una mano veramente esperta nell’ambito chirurgico, non di certo quella di un dilettante o di qualcuno che si cimentava, seppure bene, con il coltello.

Nella storia dei delitti del mostro ci sono, come si è visto, molteplici piani coinvolti quali quello di Gladio ma anche quello della immancabile massoneria il cui ruolo emerse pienamente alla luce durante l’inchiesta dell’ex magistrato di Perugia, Giuliano Mignini.

Mignini nel corso della sua inchiesta scoprì che in questa scia di delitti era coinvolto il massone e medico chirurgo, Francesco Maria Narducci, morto presumibilmente il 13 ottobre del 1985, anche se il corpo che venne trovato sul luogo della sua presunta morte, il lago Trasimeno, non era certamente il suo.

Non corrispondeva l’altezza, 1,62 quella del cadavere trovato sul lago e 1,82 quella di Narducci, così come non coincideva minimamente l’aspetto del medico con il corpo dello sconosciuto, apparentemente un messicano.

Soltanto anni dopo, nel 2002, grazie all’inchiesta di Mignini, si scoprirà che Narducci, il cui vero corpo era stato messo nella sua bara, e risultava essere, senza ombra di dubbio, stato ucciso attraverso uno strangolamento.


Francesco Maria Narducci

Tale sostituzione sarebbe stata impossibile se non ci fosse stata la partecipazione attiva delle autorità, e infatti il magistrato perugino nota come quel giorno sul lago Trasimeno c’erano uomini della Squadra Mobile di Perugia che non avevano alcun titolo ad essere lì, e nessuno, ancora oggi, ha approfondito su chi autorizzò la loro presenza come nessuno ha accertato le responsabilità della mancata autopsia sul cadavere che non era quello del medico di Perugia.

La messinscena del Trasimeno appare comunque chiaramente legata ai fatti del mostro, soprattutto se si guarda con attenzione a determinati elementi.

Quello della tempistica in particolar modo è particolarmente rivelatore.

Sono passati infatti soltanto 30 giorni dal brutale omicidio degli Scopeti, e arriva questa improvvisa falsa morte di Narducci, forse ucciso in un secondo momento, perché d’un tratto era sorta l’improvvisa necessità di fare uscire di scena un protagonista scomodo per questa inquietante storia.

Tale necessità forse era sia stata dovuta al fatto che un uomo delle forze dell’ordine, Emanuele Petri, risultava essere sulle tracce di Narducci per i crimini del mostro di Firenze.



Emanuele Petri

A rivelare che Petri stava indagando sui delitti del mostro sono stati almeno due testimoni quali Mariella Ciulli ed Enzo Ticchioni, sua conoscenza di vecchia data, e in particolare le indagini del poliziotto si stavano concentrando proprio su Narducci che, stando a quanto riferito dallo stesso Petri ai suoi interlocutori, aveva nella sua casa dei feticci umani femminili, probabilmente proprio quelli asportati alle povere donne vittime del mostro.

Anche la tempistica della morte del poliziotto Emanuele Petri, ucciso appena un anno dopo l’apertura dell’inchiesta di Mignini, da una sorta di nucleo delle nuove BR, andrebbe forse letta in un’altra ottica, più vicina magari ai potenti ambienti che hanno concepito e protetto gli autori materiali dei delitti nelle campagne fiorentine.

Il mostro è quindi evidentemente una complessa vicenda stratificata su più livelli, che vede, come si diceva in precedenza, il ruolo di Gladio e servizi segreti in questi efferati delitti, ma, al contempo, si riscontra la partecipazione della massoneria perché tali crimini hanno sempre un qualche sfondo esoterico e satanico, perché alla fine la natura ultima di tale sistema e di ogni suo compartimento è intrinsecamente questa.

I grotteschi compagni di merende visti nei processi degli anni’90 dunque chi erano?

Era quella squallida umanità che si aggirava intorno alle coppiette per spiare, guardoni, pervertiti di vario genere che conosceva il mostro e sapevano chi era, come lo stesso Mario Vanni, che in carcere aveva confidato a Lorenzo Nesi che l’assassino era proprio un americano, chiamato Ulisse, il nome in codice che veniva assegnato ai capi di Gladio.

Si comprende così mai sui conti correnti di Pacciani e Vanni ci fossero delle elevate cifre, nonostante i due facessero dei mestieri, rispettivamente il contadino e il postino, che non gli consentivano di avere delle ingenti somme a disposizione.

L’organizzazione che ha gestito il mostro ha pagato il loro silenzio, fino a quando ha deciso di utilizzarli come capri espiatori per coprire i crimini di personaggi molto più potenti e molto più pericolosi.

Alla fine la vicenda del mostro di Firenze esprime al meglio, o al peggio, la perfetta natura della repubblica nata a Cassibile.

C’è dentro la NATO, ci sono dentro i servizi segreti italiani, c’è dentro la massoneria e c’è dentro la magistratura e in ogni singolo capitolo di questa sanguinaria storia si vede come ognuno dei vari apparati del sistema abbia agito per proteggere l’altro, procedendo poi alla eliminazione di quei testimoni e personaggi ormai scomodi, a partire dallo stesso Pacciani, fino alle varie morti collaterali di Renato e Milva Malatesta, e di Francesco Vinci.

Il segreto sui mandanti e i protettori del mostro andava custodito ad ogni costo.

Adesso si parla di riaprire il caso su questi delitti sulla scia della riapertura del caso di Garlasco, a dimostrazione che i passati equilibri del silenzio oggi stanno venendo apparentemente meno perché la sommità del sistema, l’impero americano, si è oggi sfaldata.

Si spera che finalmente dopo tanti anni si possa fare luce su queste stragi e sul sangue versato da molte vittime innocenti per causa dei deviati poteri atlantici e delle solite criminali massonerie.



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