Via anche l'insegna dalla sede Malaguti

Ci sono quelle aziende che chiudono ma che non lo fanno veramente, quelle che dopo lo stop ufficiale mutano forma e rinascono sotto una nuova luce (vedi Buell). Ma c’è anche chi non ce la fa, chi in poco tempo vede tutto sparire come in un brutto sogno, ed è il caso della Malaguti. 170 dipendenti a casa in pochi giorni con una buonuscita di 30 mila Euro, un incoraggiamento che serve, ma la fabbrica romagnola non riaprirà più.
In questi giorni si stanno smantellando le aree interne, portando via i macchinari e sgombrando gli uffici, il 19 dicembre invece è sparita come per magia l’insegna che campeggiava sopra il grande capannone. Il motivo? secondo il Fatto Quotidiano non sono state pagate le tasse su quell’insegna che è stata prontamente rimossa. Un ultimo simbolo di un’azienda di orgoglio nazionale, che sparisce come tutto il resto.
“Per noi è un colpo al cuore, una cosa che ci ha fatto molto male, non ci aspettavamo che anche l’insegna venisse portata giù in così poco tempo”, racconta Sabrina Franchini, ex operaia della Malaguti. “È come se con quella scritta avessero portato via una parte di noi, come se avessimo capito che davvero non c’è più nulla da fare”.
http://www.motoblog.it/post/34453/via-a ... e-malaguti
La svedese Ditec lascia il Veneto. Nordest in rivolta: boicottare Ikea
Venerdì, 30 dicembre 2011 - 12:19:17
Sale di tono la polemica in Veneto per il "boicottaggio" che gli amministratori locali hanno deciso di varare contro il colosso svedese del mobile, Ikea, che proprio dai distretti di Treviso, di Udine e di Pordenone vede arrivare il 5% dei mobili acquistati in tutto il mondo, dopo che un'altra azienda svedese, Ditec, ha annunciato di voler licenziare 90 dipendenti e chiudere lo stabilimento di Quarto d'Altino (ma la stessa sorte toccherà allo stabilimento di Treviolo, a Bergamo, e di Leiria, in Portogallo) per trasferire la produzione in Cina e in Repubblica Ceca alla ricerca di costi di produzione più bassi.
Una crisi che altre parti d'Italia come la Puglia col distretto di Matera (celebre fino a pochi anni fa in tutto i mondo per la produzione di divani e mobili d'arredo) conoscono già da tempo ma che aveva finora solo lambito il Nord Est. Ora invece a chiudere i battenti sono, da inizio anno, oltre 700 aziende (con 13 mila posti di lavoro persi) e gli amministratori locali, spalleggiati dai sindacati, provano a fare muro minacciando neanche troppo velatamente di non concedere le autorizzazioni necessarie a Ikea per poter aprire due nuovi centri commerciali nella regione (a Casale sul Sile e a Verona).
Un "do ut des" che si spera possa sortire effetti e indurre le autorità svedesi a fare pressioni sulle proprie aziende perché oltre a vendere continuino anche a produrre e dunque distribuire ricchezza sul territorio e non solo drenarla. Scuotono tuttavia la testa gli economisti: la perdita di competitività del Nord Est non è risolvibile a colpi di boicottaggi, derivando non solo da motivi di costo ma anche dalla progressiva acquisizione di competenze da parte di aziende delle economie emergenti dell'Est Europa e dell'Asia. Chi ieri faceva solo lacci per scarpe o fiori di carta, insomma, è ormai in grado di produrre capi d'abbigliamento, semiconduttori, automobili e a poco serve minacciare di non comprare i prodotti della nazione a cui fanno capo aziende che preferiscono spostare le proprie attività in tali paesi.
Come si può sopravvivere alla crisi? Se ridurre il costo di produzione è impossibile sotto certi livelli salvo violare sistematicamente ogni norma e regolamento sia fiscale sia sulla sicurezza e sui diritti dei lavoratori (come pure fanno fin troppe aziende anche in Italia senza che i controlli riescano a stroncare il fenomeno), l'unica salvezza è varare politiche industriali nazionali e locali che favoriscano lo spostamento di aziende e lavoratori verso nuovi settori dove contano maggiori competenze. Studiare e innovare, insomma, è l'unica ricetta per garantirsi la sopravvivenza economica in un mondo che è sempre più globalizzato e che non tornerà più ad essere quello in cui hanno vissuto e lavorato i nostri padri e i nostri nonni.
Peccato che i politici, non solo in Italia, preferiscano proporre soluzioni populistiche di più facile presa, specie in tempi di crisi, che non adoperarsi per adottare soluzioni efficaci che, purtroppo, avrebbero dovute essere varate già anni fa per potersi vedere oggi i primi effetti benefici. Ma ammettere di non aver saputo fare il proprio mestiere con sufficiente lungimiranza sembra difficile tanto ai politici quanto a sindacati e aziende, italiane e non.
Luca Spoldi
http://affaritaliani.libero.it/economia ... 22011.html
L’odissea Omsa: "La cassa è finita, tutte licenziate"
Faenza, allarme dei sindacati: 200 operaie senza lavoro
Lo stabilimento fu fondato negli anni Quaranta. Rabbia tra le dipendenti, da mesi in cassa integrazione: "Ci hanno abbandonato". La Golden Lady ha deciso di delocalizzare all’estero: produzione in Serbia
FAENZA (Ravenna), 30 dicembre 2011 - SEMBRA davvero finita per l’Omsa di Faenza, storico calzificio che il gruppo Golden Lady ha deciso da tempo di chiudere, per trasferire la produzione in Serbia. L’azienda ha comunicato ai sindacati che al termine del secondo anno di cassa integrazione speciale, il prossimo 14 marzo, scatterà il licenziamento collettivo per i dipendenti rimasti (quasi tutte donne). L’annuncio – diffuso dalla Filctem Cgil – arriva pochi giorni dopo l’ultimo incontro al ministero dello Sviluppo economico, concluso con scarse novità sul progetto di riconversione dello stabilimento da parte di un possibile acquirente, rimasto nell’ombra.
UN BRUTTO colpo di fine anno per le operaie, che si trovano protagoniste della fine di un’epoca (lo stabilimento fu fondato dalla famiglia forlivese Orsi Mangelli nei primi anni Quaranta). Erano 346, ora ne restano oltre 200, dopo che, in 80, hanno accettato l’incentivo di 23 mila euro per la mobilità, a febbraio.
Roberta, Fulvia, Angela, Emanuela, Marina, Cristina e Antonella, invece, hanno scelto di restare ‘in prima linea’. Guardano i cancelli della fabbrica, che negli ultimi mesi hanno varcato solo per turni di quattro ore, 15 giorni al mese. «All’inizio eravamo in tante a protestare — commentano, amare —. Ora siamo sempre le stesse dieci o quindici: dicono che siamo estremiste, in realtà vogliamo solo lavorare».
Non si sono mai fatte prendere dalla rassegnazione. Ma la rabbia, quella sì, è tanta. Contro le istituzioni che «non hanno fatto abbastanza», contro una parte del mondo sindacale (accusata di aver accettato con troppo accondiscendenza la chiusura, stabilita due anni fa). Anche contro parte delle colleghe, che hanno smesso di lottare. «Augurarsi un buon 2012 è difficile — dice Marina Francesconi —. Trascorreremo l’ultimo dell’anno pensando a quello che succederà a marzo. Più che al futuro, mi viene da pensare a tutto quello che abbiamo passato in questi anni. Cose che una volta potevamo permetterci ora sono un miraggio. E la serenità non c’è mai, neanche a casa».
Già, a casa, dove mariti e figli hanno vissuto con loro questi anni di incertezza. Cristina Bucci, per esempio, ha un figlio tredicenne. «Credo non si renda ancora conto fino in fondo di quello che sta succedendo: a volte mi dice ‘Mamma, perché non trovi un altro lavoro’? — sorride —. Quando ero una ragazzina, i miei mi hanno subito trovato da lavorare: di soldi ce n’erano pochi, ma almeno il lavoro si trovava».
Intanto la crisi colpisce anche altri membri della famiglia. «Mio figlio ha 22 anni, è disoccupato – racconta Antonella Valgimigli. – Ha lavorato nel negozio di un parrucchiere, lo pagavano 200 euro al mese». Ma la chiusura dell’Omsa – le operaie lo ribadiscono con forza – con la crisi economica c’entra ben poco. «L’Omsa non è mai stata in crisi. Se Grassi (presidente del gruppo Golden Lady, ndr) se ne va in Serbia è perché gli conviene».
Queste «ragazze dell’Omsa» giudicano insufficiente non solo l’appoggio delle istituzioni, ma anche quello della città. «I faentini ci sono stati vicini solo all’inizio – scuote la testa Fulvia Amadei. – poi, probabilmente, si sono stancati anche loro. E nonostante sia stato lanciato da tempo un boicottaggio dei prodotti, i negozi della città sono ancora pieni di calze Omsa: bella solidarietà».
http://qn.quotidiano.net/economia/2011/ ... iate.shtml
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