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 Oggetto del messaggio: LIBRO SCOTTANTE PER LA CHIESA SUI PRETI GAY?
MessaggioInviato: 17/04/2011, 14:10 
Cari amici (e nemici) del forum più uforum d’Italia.
Vi devo parlare di una questione che mi sta particolarmente a cuore. Il tema è politico-religioso e sicuramente susciterà un vivace dibattito fra gli utenti. Probabilmente si formeranno due opposti schieramenti molto accesi, e sarò responsabile di un bel kasino…. Ma devo assolutamente parlarne diffusamente ed esaustivamente, proprio perché tocca tasti difficili e delicati, che colpiranno forse la suscettibilità di qualcuno, e su cui mi aspetto commenti di ogni genere.
Il tema è un libro che forse in Italia non verrà mai pubblicato, proprio perché darebbe troppo fastidio a “qualcuno”. Il libro è “That Undeniable Longing”, che in inglese significa più o meno “Quell’Innegabile Mancanza”, e l’autore è un americano il cui nome d’arte è Mark Tedesco.
Vi racconto la storia dall’inizio: ho conosciuto Mark Tedesco su Facebook. Mark proviene da una famiglia di emigranti sloveni che vive in California, ma ha vissuto molti anni in Italia, a Roma.
Attualmente Mark vive e lavora a Los Angeles, e fa l’insegnante.
Incuriosito dal personaggio, gay anche lui come me, gli ho chiesto l’amicizia, e lui me l’ha accettata, così mi ha raccontato alcune cose di sé.
La prima era che aveva scritto e fatto pubblicare negli USA un libro autobiografico chiamato appunto “That Undeniable Longing”, che è poi stato pubblicato anche in altri paesi.
Il tema è particolarmente toccante, perché Mark, un tempo era…. un prete! E non un prete qualsiasi, ma un prete del Vaticano!
Il suo libro in pratica raccontava i difficili anni della sua gioventù: il desiderio di diventare prete, l’aver lasciato la California dove viveva con la sua famiglia che non lo amava, per andare a studiare in un seminario di Roma, la scoperta della propria omosessualità e tutti i problemi che gli ha procurato, fino alla decisione di abbandonare il sacerdozio per vivere liberamente e senza nascondimenti la propria sessualità….. dopo che mentre era studente in seminario e poi prete ordinato ne sono successe un po’ di tutti i colori…
Insomma…. Il libro racconta molti particolari interessanti sull’omosessualità non solo sua, ma anche degli altri preti, e anche di altre cose che certamente la Chiesa non avrebbe piacere che se ne parlasse….
A un certo punto Mark mi ha detto che aveva intenzione di pubblicare il libro in Italia, e io mi sono entusiasmato all’idea. Chiede il mio aiuto. Vuole tradurre per conto suo il libro in italiano, senza dover ricorrere a un traduttore, e siccome il suo italiano è ancora parecchio zoppicante, mi chiede di correggere tre dei capitoli del suo libro per poterli mandare alla casa editrice italiana che si è offerta di considerare la sua proposta letteraria.
Mi manda via e-mail i tre capitoli, e io comincio a correggerglieli…. Devo dire che non sono rimasto particolarmente allibito, perché io di preti e frati gay ne ho già conosciuti alcuni, e quindi di storie del genere ne conoscevo già, anche perché magari vi ero rimasto coinvolto…. Niente di nuovo sotto il sole, certo, ma per il pubblico italiano penso che sarebbe stato abbastanza scandaloso…. Il successo mi sembrava assicurato, dato che viviamo in un’epoca in cui gli scandali sessuali sono il pane quotidiano…. Ma mi sbagliavo: sono pane quotidiano fino a quando non vi vengono coinvolti appunto i preti… allora scatta la censura!
Lo dimostra il fatto che dello scandalo dei preti pedofili non si sente più parlare… tutto è tornato nel silenzio.
La casa editrice rifiuta la pubblicazione, e altre tre case editrici dicono che il libro di Mark “non avrebbe trovato nessun mercato in Italia”…. Come dire: inventiamoci la scusa che un libro del genere non sarebbe piaciuto agli italiani, mentre in realtà non vogliamo grane con il Vaticano.
Almeno, io ho interpretato così la cosa, e anche Mark conviene sul fatto che c’è qualcosa di strano… perché agli italiani non dovrebbe interessare l’autobiografia di un ex-prete gay? Tutto lascia credere il contrario, invece!
Mark stava per scoraggiarsi, ma io gli ho detto che non doveva, non dovevamo arrenderci. Gli ho detto: “se quelli non vogliono pubblicarlo per paura, io devo parlarne alla gente italiana, devo far capire che qui in Italia il Vaticano attua ancora metodi di censura sui suoi panni sporchi in pubblico!”.
Mark mi ha dato il permesso di pubblicare dove voglio i tre capitoli che mi ha dato da correggere, per far capire alla gente che “certe cose” in Italia non possono ancora essere dette, e che è ora di affrontare il problema.
Quindi mi permetto, se nessuno ha qualcosa in contrario, di pubblicare qui i brani di “Quell’Innegabile Mancanza”, per far capire di cosa sto parlando. Assicuro che il linguaggio e le descrizioni di Mark non travalicano mai il limite della decenza, anche se si fanno capire benissimo…..
Quello che Mark racconta però non è semplicemente la questione dell’omosessualità, ma anche tutti i maltrattamenti, le vessazioni, i ricatti psicologici, le ambiguità, le ingiustizie, le regole assurde a cui sono stati sottoposti lui e i suoi compagni di seminario, cose altrettanto scottanti di eventuali scandaletti a sfondo sessuale…. Inoltre ci sono parecchie note sui malcostumi dei cattolici italiani, che non ci fanno una buona figura, e le pratiche superstiziose che ricorrono addirittura a palesi inganni per far credere a interventi celesti…. La sconcertante figura di Don Gino, o Luigino, come a volte lo chiama Mark, è qualcosa da scompisciarsi dalle risate, ma anche da rimanerne inorriditi.
Vi lascio comunque alla lettura del secondo capitolo, giudicate voi…. Seguiranno poi gli altri due capitoli in altri post.

Qui c’è anche un link di recensione del libro in inglese, a titolo di informazione:

http://whitecrane.typepad.com/journal/2 ... iew-4.html


Capitolo 2: Segni lungo la strada

Mentre l’autobus partiva sparato da Stazione Termini verso San Vittorino, guardavo fisso dal finestrino il Bel Paese e il flusso stradale. Italia, il paese dei contrasti. A un certo punto, ci fu una prostituta cento metri davanti a noi, che si alzò il vestito; l’autista si fermò per spingerla a farlo di nuovo. Rimasero lì per cinque minuti o più, mentre noi passeggeri aspettavamo. Lei rifiutò, perciò ripartimmo. Roma sembrava essere l’unico luogo al mondo nel quale sensualità e fede non solo coesistevano, ma s’intrecciavano. Per un americano come me, questo sembrava folle; per me la pietà religiosa significava la rinuncia al piacere, specialmente il piacere dei sensi.
Più rimanevo in Italia, più mi chiedevo se forse l’umanità e la divinità, la carne e lo spirito potessero intrecciarsi e fiorire insieme. Forse la debolezza umana non era un ostacolo alla presenza di Dio. Infatti, forse queste stesse debolezze erano porte per le quali Lui entrava nella nostra vita, nella vita reale. Poteva essere che l’amore di Dio non dipendesse dalla nostra bontà, ma dall’essere noi stessi? Come una scossa, ritornai alla realtà, quando l’autista annunciò: «San Vittorino!».
Passai per il paese e la piccola strada verso il santuario. Era il 1979 ed ero al mio secondo anno a Roma. Quando girai l’angolo, vidi un gruppo di seminaristi. C’erano delle facce nuove: una quindicina d’americani, qualche canadese, e il doppio di italiani dell’anno prima.
Ogni estate Don Gino invitava degli italiani a stare alcune settimane con lui in campagna vicino al suo paese d’origine in Toscana. Usava questi inviti come delle opportunità per influenzare gli italiani a provare la vita del seminario. Quasi tutti gli italiani sono stati reclutati in questa maniera.
I nuovi italiani erano un gruppo svariato: due fratelli, Antonio e Mario, che erano stati fra i maggiori lottatori in Italia Sergio, un uomo semplice di scarsa educazione, dello stesso paese di Don Gino; Mario di Napoli, un uomo puzzolente con una grande pancia e un cuore ancora più grande, e altri così differenziati tra di loro, come lo è l’Italia stessa. Alcuni provenivano da famiglie religiose, ma la maggioranza di loro invece no. Per loro Don Gino era la scoperta della fede.
I nuovi americani del seminario erano tutti dei tipi molto pii. Rimasi là tutto il pomeriggio a chiacchierare con loro per conoscerli. A loro piaceva parlare della religione, ma non sembravano avere altri interessi. «Che razza di tipi sono questi?» chiesi a Chris del Michigan, uno della mia squadra. «Sono così pii che con loro non puoi parlare d’altro che della vita dei santi! Li trovo noiosi!» Chris rise.
«Com’è andata la tua estate, Larry?» chiesi con un po’ di rimorso per il modo in cui avevo trattato il Guastafeste l’anno precedente.
«Bene,» mi rispose, con un grandissimo sorriso.
«Che cosa hai fatto?»
«…. Ho aiutato mia madre, sono andato in chiesa, cose simili. Tu invece che hai fatto?» mi chiese.
«Ho lavorato, sono stato con gli amici; poi sono andato a Londra e a Firenze» dissi, fiero di me stesso. Mi ero proposto di andare più d’accordo con Larry quell’anno.
Steve arrivò da Los Angeles alcuni giorni dopo. Era alto, abbronzato e calvo; era intelligentissimo, ma mancava completamente di disciplina. Cercava di fare ordine nella sua vita dopo essere stato buttato fuori dall’università. Era stato nella mia classe l’anno prima. Non eravamo amici stretti, ma avevamo alcuni amici in comune in California.
Dopo pranzo siamo usciti per la solita passeggiata: facevo caldo, perciò cercavamo l’ombra. Quando vide Steve, Don Gino lo chiamò. Ci siamo messi a sedere sotto un alto pino a forma d’ombrello. «Ho ricevuto una telefonata su di te» disse Gino a Steve, che rideva, ma era nervoso. «Una telefonata che ha detto che eri nei guai, e mi è stato chiesto di pregare».
Quando disse la parola “telefonata” fece un segno al cielo come per dire che era qualche tipo di comunicazione divina. «Mi è stato chiesto di pregare per te, perciò l’ho fatto perché tu potessi essere salvato».
Steve non disse molto; di solito era un chiacchierone, però ora era in imbarazzo. La mia curiosità aumentò, quando vidi che Gino continuava a guardare e sorridere a Steve tutto il pomeriggio, come se sapessero qualcosa solo loro due. Alla prima occasione, chiesi a Steve cosa era successo.
«Andiamo a fare due passi Mark, così ti spiego tutto…. sono tornato a Roma una settimana prima di venire a San Vittorino. Una notte, sono andato alla zona rossa, dove ci sono diverse prostitute. Beh, c’era una che non era bella, ma costava solo 20 dollari per una scopata, perciò: «Sì, - mi sono detto – lo facciamo». Mi ha portato in una piccola stanza sporca, siamo passati di fronte a un uomo che credo fosse il suo protettore. Arriviamo nella stanza e io sono pronto a far sesso, mentre lei va in bagno. Allora, mentre io sono spogliato sul letto e la guardo, quando lei esce non era più una lei…, era un LUI!»
«Lui voleva ancora far sesso, ma io ho detto: “no, no, NO!” Lui mi ha detto che si teneva lo stesso i miei soldi e se ne è andato. Allora io mi vesto e ho ancora le scarpe in mano, quando lo vedo sulla strada che stava parlando col suo protettore, e vedo nella sua mano i miei 20 dollari. Allora afferro al volo i soldi e faccio una corsa sulla strada a piedi nudi, mentre loro mi corrono dietro, maledicendomi. Però io ero più veloce. Alla fine, Dio mi ha fatto uno scherzo. Ma come facesse Don Gino a sapere questa storia, non ne ho idea».
Il suo racconto sembrava essere una conferma delle altre cose che avevo sentito su questo Don Gino. Sembrava che Dio agisse attraverso di lui.
Il gruppo più scatenato erano i siriani. Se ne stavano in gruppi nei corridoi, ridendo o giocando a ping-pong nel seminterrato. Il gruppo più rigido era quello chiamato i Legionari di Cristo, una congregazione spagnola con seminaristi spagnoli e americani. Rimanevano sempre in piedi finché il professore non era entrato e si era seduto, e non parlavano con nessuno al di fuori del loro gruppo. Dopo le lezioni, andavano all’autobus in fila, dove si sedevano in silenzio.
Noi di San Vittorino venivamo chiamati gli Oblati, perché il nostro seminario faceva parte della congregazione degli Oblati di Maria Vergine. L’ambiente del nostro seminario era molto rigoroso, ma il nostro atteggiamento era più rilassato. Alcuni di noi si trovavano insieme nella cappella a pregare, nella biblioteca, o scappavamo dall’università “per girare la città”. Col passar delle settimane, siamo entrati nella solita routine scolastica: scrivere gli appunti, ripassare la materia a casa, svolgendo anche altre letture sulla storia della filosofia, o dei lavori scritti, e poi la vita di seminario.
Era saltato fuori un conflitto tra due gruppi nel seminario, riguardo la preghiera. Era usanza che si recitasse il rosario nei pulmini andando e tornando da scuola. Alcuni americani si erano opposti a questa usanza perché volevano impiegare quel tempo per studiare. I “rosaristi” chiamavano gli altri “atei”, perciò il conflitto era tra “credenti” e “atei”. Per quanto riguardava me, non m’importava né degli uni né degli altri. Di solito,nel pulmino tornando da scuola, io dormivo. All’andata invece a volte partecipavo, a volte dormivo. C’era anche la pratica di aggiungere delle preghiere alla fine del rosario. Bob di Oakland, un uomo basso, con una gamba più corta dell’altra, si trovava nella cappella ogni giorno, compiendo la Via Crucis. La sua vita era piena di devozioni e pratiche pie.
Alla conclusione di ogni rosario, lui diceva: «Offriamo un Padre Nostro, un’Ave Maria e un Gloria per il Santo Padre» dopo del quale «Offriamo un’Ave Maria per le anime in purgatorio». Sembrava allungare ogni volta sempre di più le preghiere. Dopo aver passato tutta la mattina a lezione, volevamo un po’ di silenzio. Un giorno nel pulmino Armando, uno spiritoso seminarista romano, alla fine del rosario, annunciò: «Diciamo un’Ave Maria affinché nessun altro aggiunga altre Ave Marie». Tutti abbiamo riso. Ma non Bob.
«D’ora in poi, - annunciò Don Malacelli ad una conferenza, - ci sarà un pulmino che viaggia in silenzio, affinché quelli che vogliono studiare, possano farlo lì. E non si deve più chiamare “atei” quelli che ci viaggiano».
Malacelli era un uomo pratico, con capelli corti e grigi e una faccia sempre rossa. Era sempre teso, spesso gridando prima dalla rabbia e un attimo dopo ridendo di qualche barzelletta. Aveva creato un’atmosfera di tensione; nessuno osava trasgredire le sue regole o sfidarlo. Usava di più il suo senso pratico che l’abilità intellettuale per guidare gli allievi. Lo temevo, lo rispettavo e lo detestavo.
Il santuario attirava diversi pullman di pellegrini ogni giorno; partecipavano a una messa in una chiesa che aveva la forma di una turbina di lavatrice. Trovavo che avesse un brutto interno. Marmo nero dappertutto, c’era un tabernacolo enorme con la forma di un sole nel mezzo, una grandissima statua della Madonna di Fatima sulla sinistra, e un Gesù immenso sull’altro lato. Era una mescolanza di arte moderna e religiosa, senza armonia o bellezza. Poi l’altare stava al centro dell’edificio, con la gente tutta intorno, così che se guardavi in direzione dell’altare durante la messa, c’era sempre qualche persona che ti guardava dall’altro lato.
I visitatori italiani, affascinati dai seminaristi, ci guardavano a bocca aperta dall’altro lato della chiesa. Gli italiani avevano uno sguardo fisso che metteva a disagio un americano. I pellegrini sembravano vederci come un gruppo di privilegiati intorno a Don Gino, il Santo. Noi, pensavano, eravamo quelli che conoscevano tutti i segreti e vedevano tutti i miracoli. Ma non tutti i pellegrini erano pii. Una sera, mentre dalla chiesa usciva un seminarista del Michigan, una donna italiana lo afferrò in mezzo alle gambe. «Quando mi ha afferrato, sono rimasto scioccato, ma dopo c’ho pensato a lungo, e credo che voleva solo controllare se ce l’avevo ancora», mi disse con un sorriso cattivo.
Una volta al mese c’era una processione religiosa: qualche centinaio di persone venivano a San Vittorino e Don Gino conduceva il gruppo attorno al santuario, per il paese e poi di nuovo alla chiesa, recitando il rosario e cantando inni. C’era tanta attenzione alla sua persona però, che mi chiedevo se i pellegrini venivano a pregare o solo per vedere lui. Si inginocchiavano per terra quando si recitava il “Gloria”. Padre Malacelli ci aveva proibito di inginocchiarci per evitare di apparire dei fanatici. Io ero contento, perché così non sporcavo i miei pantaloni.
Nella processione, Gino andava avanti, circondato dai seminaristi, che erano come una guardia del corpo. Quando qualche visitatore provava ad avvicinarsi, Maurizio li cacciava via. Ma quel giorno non c’era questo problema: le preghiere salivano urlando dalla porta verso il tetto della chiesa. Passando in giardino, notai fra i cespugli uno piantato là, che cercava di vedere passare il Santo. Chi è quel fanatico, mi sono chiesto, e cosa aspettava di vedere? Avvicinandomi, vidi che era lo stesso padre francescano che avevo visto nella stanza di Gino, il venerdì santo precedente, il prete che era il suo confessore. Com’è strano, pensavo tra di me, che lui stesso sembra essere più fissato degli altri, mentre guarda dai cespugli come fosse un animale. Se è veramente il suo confessore, perché si comporta più fanaticamente dei pellegrini stessi?
Più tardi, quella sera stessa, dopo una cena di minestrina, frittata e pane, uscii con gli altri e il mio stomaco cominciò a farmi male, come capitava di frequente. Ma quella volta proprio non ne potei più, perciò lasciai gli altri sulla terrazza e rientrai. La regola era che non potevamo salire in camera fino alle 21:30 ma erano solo le 20:45. Non sapevo che fare. Aspettai vicino alle scale, tenendomi lo stomaco. «Che cosa ho?» Continuavo a chiedermi. Finalmente decisi che ne avevo abbastanza e sono andato in stanza in segreto a sdraiarmi. Lo stomaco si calmò un po’. Dopo le 22 sentii che gli altri stavano venendo su e tornando in camera. Dopo alcune ore il dolore passò, come le altre volte, e quando mi sono svegliato la mattina dopo, era sparito.
Le foglie erano sparite e apparivano i nudi rami nell’aria fredda, mentre la routine del seminario ormai ci aveva assorbiti. Non ci bastavano le ore del giorno, ogni momento libero era dedicato allo studio, ma eravamo sempre indietro. Gli americani si dedicavano allo studio con impegno, ma gli italiani di meno. All’Angelicum si studiava l’opera di Tommaso d’Aquino nella maggioranza dei corsi. Il suo sistema di filosofia e teologia si basava sul pensiero di Aristotele. Quando d’Aquino ebbe quasi finito il suo capolavoro, la “Summa Teologica”, ebbe una visione mistica nella quale comprese qualcosa di Dio così grande, così al di sopra dell’intelletto umano, che non scrisse più, dicendo che «a paragone di quello che ho visto, tutto quello che ho scritto è solo paglia».
I seminaristi italiani avevano interpretato questa frase come una giustificazione per non studiare. C’era uno infatti, di nome Sergio, che era quasi analfabeta. Nei pomeriggi dedicati allo studio, lui non era mai in camera sua. Se scendevo le scale, eccolo lì. Se andavo in terrazza, era lì fuori. Se andavo in bagno, lo vedevo uscirne. Stava dappertutto solo per passare il tempo ed evitare i libri. Mi dava fastidio questo atteggiamento dei seminaristi italiani, e forse questo spiega anche perché nelle istituzioni italiane ci sono alcuni professionisti incompetenti. La maggioranza degli americani invece aveva capito che lo studio è importante quanto la spiritualità, e per questo ci dedicavamo a tutti e due.
Il programma giornaliero si interruppe un giorno quando Jeff, un seminarista del Michigan, fece un annuncio: «Alla festa dell’Immacolata, la Madonna apparirà a Don Gino e lei benedirà gli oggetti che ha nella sua stanza. Perciò, se avete qualcosa da benedire, datemelo e li metterò in camera sua». Jeff aveva delle mani gigantesche, le lenti degli occhiali più spesse che avessi mai visto, e si dedicava sempre a recitare rosari. Misi il mio rosario e dei santini dentro una borsa e li detti a Jeff.
Sentii un odore nuovo, quando scesi per le scale la mattina dopo, l’8 di dicembre, festa dell’Immacolata. C’era un odore di fiori che emanava sempre da Gino, ma questo era qualcosa di nuovo: l’intensità e il tipo di odore erano diversi. La gente lo chiamava “odore di santità”. Sembrava infatti più forte sul lato destro degli scalini e scendeva come un fiume invisibile al piano terra.
Era giorno di scuola, ma quando tornammo al seminario, non vedevamo l’ora di ascoltare le esperienze di Gino e di ottenere un resoconto della sua “visione” della notte precedente. Dopo pranzo, mi intrufolai dentro un gruppo attorno al Santo. C’era un odore fortissimo di rose che veniva dalla sua persona. «Che cosa ha detto la Madonna?» chiese Maurizio.
Don Gino sorrise; esitava a raccontarlo. Però alla fine disse che aveva visto una donna fatta di luce, una luce che copriva anche i nostri oggetti religiosi. Per me, era una cosa straordinaria pensare che il nostro seminario aveva avuto un tale visitatore mentre noi dormivamo. Quando mi dettero il mio rosario e i santini qualche giorno dopo, avevano quello stesso odore che durò poi qualche settimana.
Le settimane trascorrevano e la gente continuava ad arrivare a San Vittorino per pregare e vedere il Santo. Un giorno una vecchietta si avvicinò, vestita tutta di nero, come tante altre vedove italiane (A me sembrava strano che una si vestisse di nero per tutta la vita dopo aver perso il marito). Camminava curva, piena di rughe, sembrava uno scheletro. A tre metri di distanza da noi, si mise a cantare un inno alla Madonna. Mi veniva da ridere, perché era così stonata e l’intera situazione era buffa. Guardai verso Gino e vidi che sorrideva anche lui, però ci rendevamo conto che per la vecchietta questa era una cosa seria, perché così esprimeva la sua fede. Ci mettemmo ad ascoltarla con rispetto.
Quando finì di cantare, Gino la ringraziò e ci ritirammo. Poi Gino si girò e ci disse: «Se vi sposerete, vostra moglie diventerà così. La bellezza passa. Meglio non sposarsi, meglio rimanere celibi come noi. Potete immaginare di svegliarvi ogni mattina vedendo quella roba là?». Fece, con la mano, riferimento alla vecchietta.
Marcus ed io ci allontanammo dal gruppo di Gino e andammo verso il seminario. Marcus era arrabbiatissimo: «Quella lì è la nonna di qualcuno! Potrebbe essere mia nonna! Come si permette di dire queste cose??? Di tutte le ragioni per rimanere celibi, questa è la peggiore che abbia mai sentito!».
Mi trovai d’accordo. In più di un’occasione infatti Gino aveva ripetuto il suo punto di vista sul matrimonio: per lui era qualcosa di sporco e malvagio. Quando faceva riferimento alla sessualità, usava dei termini con una connotazione di malvagità. Questo fatto mi colpì in particolare un giorno in cui Maurizio ci raccontò l’incontro notturno di Don Gino con un terribile mostro al centro di Roma. Aveva la forma di una gigantesca vongola con due gambe, che gli correva dietro cercando di prenderlo. Una volta catturato, la sua vita sarebbe finita. L’orribile creatura lo seguiva per le oscure strade di Roma. Preso dal panico, Gino bussava alle porte delle case, ma nessuno gli rispondeva.
Nella descrizione del mostro, Maurizio usava dei termini italiani di cui non avevo conoscenza. Gli chiesi di spiegarmi nell’italiano più semplice. Mi disse: «La creatura era alta circa tre metri ed aveva la forma dell’organo sessuale femminile». Quando mi disse questo, non seppi se rimanerne scosso o ridere, così sono rimasto con una faccia neutra. Si trattava di una vagina gigante che lo aveva inseguito per le vie di Roma! Quando ritornai nella mia stanza, la scena descritta in quel modo mi fece fare una forte risata. Ma in seguito, cominciai a domandarmi come uno che dovrebbe essere così vicino al divino, potesse avere ancora idee così errate.
Qualche giorno dopo, una sera Luigino stava parlando della sua gioventù e del tempo trascorso in seminario. Cominciò a raccontare un episodio: «C’era un collega tedesco in seminario; una sera entrai nella stanza del bagno comune e lui era là, completamente nudo! Ciò non andava bene e mi disturbò molto. Infatti, mi turbò tanto che ho dovuto andare fuori e camminare e camminare per ore, prima che potessi riuscire a dormire….».
Quando lo sentii descrivere questo episodio, mi domandai se avessi compreso male. Stava dicendo che aveva provato un’attrazione sessuale per questo tedesco e che aveva lottato con questa tentazione prima di andare a letto? Se era così, effettivamente stava dicendo che lui era omosessuale. Ma perché non c’era nessuna reazione fra gli italiani? Ero perplesso. Anch’io avevo lottato con tali tendenze, ma le avevo sepolte in profondità dentro la mia vita emotiva, in modo che neppure io dovessi esaminarle o considerarle. Cosa stava dicendo Luigino adesso? Forse era la barriera linguistica che mi impediva di comprendere che cosa stava dicendo. Non osai chiedere a nessuno una spiegazione.
Era un freddo giorno di febbraio, quando arrivò un annuncio: «Don Luigino, telefono!» Era una cosa notevole, perché non riceveva mai telefonate; che cosa poteva essere? Dopo alcuni minuti ritornò. «Era Madre Teresa. Verrà qui in visita domani mattina».
«Ma come vi siete capiti, se tu non parli inglese e lei non parla italiano?» chiese Maurizio. «Quando ci siamo parlati, entrambi ci siamo capiti. Quando è stato detto tutto quello che doveva essere detto, abbiamo smesso di capirci l’un l’altro».
Avevo sentito parlare di Madre Teresa quando ero al liceo; il suo lavoro con i poveri in India aveva riempito i titoli dei giornali, ma era rimasta una donna semplice e umile. Avevo visto le sue suore a Roma in varie occasioni e sono sempre rimasto colpito dalla loro devozione e fede. E adesso Madre Teresa, lei stessa, stava venendo al mio seminario di sua propria iniziativa. Ma perché? Non vedevo l’ora di scoprirlo.
Padre Malacelli rifiutò di lasciarci saltare la scuola il giorno seguente solo per vedere Madre Teresa, perciò quando siamo tornati dalle lezioni, Madre Teresa e le sue consorelle erano già partite. «Maurizio, dì loro che cosa avete visto e sentito» lo incoraggiò Luigino.
«È venuta a visitare Don Luigino per chiedere preghiere per la sua missione. Inoltre ha detto che Dio vuole un’unione spirituale fra il suo ordine religioso e il nostro. Inoltre ha chiesto di mandare sacerdoti in India a lavorare con le sue suore».
Uno degli americani chiese: «E che cosa le ha risposto?».
Don Gino disse: «Le ho detto che andremo con Gary». Gary era un seminarista americano che studiava teologia a Roma e che aveva lavorato come medico con le suore di Madre Teresa in India.
«Perbacco!» mi dissi una volta dentro alla mia stanza «Un’unione spirituale».
Ero rimasto eccitato, vedendo di nuovo confermato il fatto che ero nel mezzo di eventi emozionanti, eventi in grado di essere abbastanza potenti da influenzare la storia. Avevo voluto che la mia vita diventasse qualche cosa di grande ed ero nel posto ideale affinché questo accadesse. Ero pieno di gratitudine per il fatto di essere là. Nonostante alcune delle mie difficoltà – dolori di stomaco, tristezza occasionale, desiderio di andare lontano – non ho mai dubitato che quello era il giusto percorso per me. Ero così sicuro di essere esattamente dove dovevo essere. La mia vita poteva trasformarsi in qualcosa di grande, se avessi vissuto per qualche cosa di grande, come Madre Teresa, come Luigino e molti prima di loro. Quel pomeriggio mi sentii felice, privilegiato ed emozionato.
I mesi passavano ed il mio italiano divenne fluente, in modo che potei seguire i corsi di filosofia senza alcuno sforzo. In seminario, la mia amicizia con Amedeo cresceva. Era un italiano di Belluno dalla voce stridula, poi c’erano Livinus e Jude, che provenivano dalla Nigeria. Sembrava che quell’anno si dovesse concludere in modo simile all’anno precedente: eccitazione crescente, Pasqua, esami finali e poi partenza per casa. Era l’inizio di maggio quando accadde il fatto, un evento che avrebbe messo completamente in agitazione me ed altri. Mentre si stavano facendo i programmi di viaggio, preparandoci per gli esami finali e le vacanze estive si avvicinavano, una chiamata al telefono arrivò da Modesto per Marcus durante il pranzo. Dopo non tornò più a tavola. Andai a cercarlo e lo trovai nella sua stanza, che stava facendo le valigie. Era turbato.
«Mio fratello è morto. Devo andarmene».
Benché io e Marcus ci fossimo allontanati l’uno dall’altro, io lo conoscevo meglio di chiunque altro. Avevo conosciuto la sua famiglia e avevo incontrato suo fratello.
«Che cosa farai?» chiesi.
«Cosa dovrei fare? Vado a casa. Ritornerò per fare gli esami».
Le quarantotto ore seguenti furono come un vortice: Marcus comunicò ai suoi professori, al rettore del seminario e a tutti coloro che facevano parte della sua vita a Roma, che doveva andare a casa immediatamente e tutti, compresa la linea aerea, furono disposti ad aiutarlo. Due giorni dopo era sull’aereo. Rimasi molto male per lui, ma specialmente per sua madre.
Altri in seminario cominciarono a venire da me per avere informazioni: «Di che cosa è morto suo fratello?»
«Marcus ha detto che è stato ucciso».
«Assassinato?»
«Prima di andare, mi ha detto che suo fratello è stato avvelenato. Non conosco altri particolari».
Marcus non parlò mai delle circostanze della morte di suo fratello. Parecchi anni dopo, seppi che suo fratello era morto di un’overdose.
Con Marcus partito, mi domandai se lui sarebbe mai ritornato. Era così attaccato alla famiglia ed era meno preso dalla magia di vivere a Roma. Ma aveva ritenuto che fosse volontà di Dio che lui fosse in seminario. Per Marcus la “volontà di Dio” era qualcosa di esterno e rigido, distaccato dalle emozioni o dalla felicità umana. Marcus non sarebbe andato contro qualche cosa che percepiva come volontà di Dio, anche se lo rendeva più povero. Così le probabilità giocavano a favore del suo ritorno. L’avrei scoperto quando fossi arrivato a casa circa quattro settimane dopo. Nel frattempo, dovevo concentrarmi sui miei esami finali e su come tornare in California. Dave aveva trovato alcuni voli poco costosi da Roma alla California, attraverso un contatto che aveva stabilito nell’ufficio della Pan Am, in modo che non dovessimo fare il viaggio passando per Londra. Avevo progettato di andarmene subito dopo i miei esami e di rientrare in anticipo, per fare un viaggio per conto mio.
Dato che il momento di andarmene si era avvicinato, ero di nuovo desideroso di tornare in California, ma il mio eccitamento era stato attenuato dalla morte del fratello di Marcus e dalla mia propria situazione familiare. Non vedevo l’ora di tornare al mio paese e alla mia cultura, ma tornare nella casa dei miei genitori era meno desiderabile. Se soltanto ci fosse stato un altro posto dove avessi potuto andare. Ma non sapevo dove.
Un giorno, durante una conversazione, Steve di Los Angeles mi disse: «Perché non vieni con me a Los Angeles per alcuni giorni, ed io dopo ti porto fino a Modesto? Puoi rimanere nella casa dei miei genitori». Dopo un anno, non conoscevo ancora molto bene Steve, ma alcune cose erano evidenti: era franco, supponente, brillante, indisciplinato, insensibile ed interessante. Accettai.
Gli esami finali passarono senza problemi, stavolta. Ero meno nervoso, dato che mi sentivo preparato. Subito dopo gli esami, arrivò il giorno della partenza. Ero eccitato, mentre ci imbarcavamo sulla navetta per l’aeroporto e così senza sforzo arrivammo a Los Angeles, senza treni o deviazioni per Londra. Il viaggio fu lungo e quando arrivammo alla casa di Steve dall’aeroporto non potevo tenere aperti gli occhi dalla stanchezza. Non riuscivo mai a dormire sui voli e tutto lo sforzo del mese precedente sembrava essersi caricato sulle mie spalle. Benché fossi esaurito, ero felice di essere in California; il cielo mi sembrava più grande, le città più luminose, i colori della natura più vibranti.
La famiglia di Steve abitava in una casa suburbana con prato inglese anteriore e piscina. Dopo essere stato in Italia, mi rallegrai di trovarmi in un posto così. L’accordo era che stessi qualche giorno a casa sua e dopo Steve mi avrebbe portato in auto fino a Modesto. Ma non mi sentivo a mio agio; non era la mia casa, non conoscevo davvero quella gente ed il legame fra me e Steve era basato soltanto sul fatto che ci trovavamo entrambi in California. Mi svegliai la mattina seguente durante una conversazione rumorosa ed animata nella loro sala da pranzo. Erano tutti aggressivi e franchi, come era Steve; sembrava che tutti stessero parlando contemporaneamente e nessuno stesse ascoltando. Erano appassionati di politica e stavano discutendo dei candidati di un’imminente elezione. Non sentivo però la voce di Steve, e mi sentii a disagio nel lasciare la mia stanza. Dopo essermi alzato, rimani in camera e mi misi a leggere.
Mentre passavano le ore, nella tarda mattinata cominciai a rammaricarmi di essere venuto.
«Dov’è Mark?» sentii una voce femminile domandare. Poco dopo, sentii bussare alla porta. «Mark, Steve non è qui, è uscito. È con i suoi amici. Penso che tornerà presto» mi disse sua sorella. Così mi sono seduto in sala da pranzo con quegli sconosciuti. Alcune ore dopo arrivò un’automobile con dentro Steve. Entrato in casa, fece una corsa in camera sua, gettò alcuni dei suoi vestiti dentro un sacchetto, entrò in cucina, si mise il cibo in bocca, e poi corse veloce passandomi oltre. «Mark, mi spiace, non posso portarti fino a Modesto», mi disse mentre usciva di casa. Si unì ai suoi amici che lo stavano aspettando, e così se ne andò via.
Tornai a Modesto in aereo; mio padre mi incontrò all’aeroporto, tendendo la mano per la solita stretta di mano annuale. Trovai la situazione nel paese uguale all’anno prima, ma non ero deluso, poiché l’avevo previsto questa volta. La natura era la mia consolazione in California più della gente. Il fiume e il bosco vicino a casa dei miei genitori erano diventati il mio rifugio e l’unico posto in cui mi sentivo felice. In ogni momento libero andavo là da solo per guardare gli uccelli e il fiume.
Avevo lasciato parecchi messaggi per Marcus, ma non mi aveva risposto. Avevo bisogno di soldi per tornare in Italia, perciò tornai a lavorare nell’orto. Mentre zappavo, sognavo di Roma, volevo più dalla vita di quello che avevo trovato là.
«Papà, hai tutti i bolli?» chiamai dalla mia stanza una sera.
«Controllo lo studio» fu la risposta.
Lo studio era una stanza riservata a me, ma ora il letto era coperto di carte e di documenti, di parecchi armadietti, roba sparsa dappertutto sul pavimento e un armadio che traboccava dei vestiti della mia matrigna. Sullo scrittoio, sotto una montagna di carta e buste, spiai il contenitore dei bolli, ma nessun bollo dentro. Forse c’era un bollo in un cassetto o da qualche parte, così continuai a cercare. Poi una cosa attirò la mia attenzione; l’azzurro era il colore dei telegrammi che usavo per scrivere a casa. Ne trovai un cumulo vicino al portamatite; due o tre erano stati aperti, ma il resto di quelli che avevo scritto ai miei genitori durante l’anno non erano stati aperti, tanto meno letti. Ne rimasi rattristato ed irritato. Decisi sul momento di non scrivergli più niente. Mi domandai perché non avevo visto l’ora di arrivare a casa per scoprirmi sempre ugualmente infelice.
Durante il lavoro nell’orto, ebbi tempo di riflettere sull’anno passato e anche sulla mia situazione attuale. La mia città d’origine mi soffocava; gli orizzonti circostanti erano troppo stretti. «È sempre una città di mucche», mi dissi. Tuttavia a Roma avevo desiderato la California. Avevo soltanto due opzioni: Modesto o Roma. La scelta era semplice.
Qualche settimana dopo, Marcus mi telefonò. Non disse alcuna informazione sulla morte del fratello di sua sponte e pensai che sarebbe stato irriverente chiederlo. La principale preoccupazione di Marcus era sua madre, che ripeteva sempre che voleva morire. Chiesi come stava a suo padre.
«Non lo so, non dice nulla, sta sempre zitto».
«Come stai tu?»
«Sono intontito, non sento nulla».
Offrii tutto l’appoggio morale che potevo, sapendo che le mie parole apparivano vuote. La sua famiglia era stata colpita da una tragedia. Sua madre diceva: «Non sarò mai più felice».
Aveva ragione: non sarebbe mai più stata la stessa. Benché Marcus ed io ci fossimo ravvicinati ora, mi dispiaceva per lui. Le vite di lui e della sua famiglia erano state devastate.
Alcuni giorni dopo, riflettei sulla reazione della sua famiglia al lutto. Mi chiesi: «Se io morissi domani, questo avrebbe un impatto sulla vita di qualcuno?». La risposta era ovvia: no. Sapevo di essere sulla retta via, ma non ero amato. La mia vita non aveva davvero importanza per nessuno. A ventuno anni mi sentivo solo al mondo: non c’era nessuno “per me”. Tuttavia, non lasciai che questi sentimenti mi sopraffacessero. Questa era semplicemente la mia realtà. Quindi misi da parte questi pensieri ed emozioni e li tenni in un angolo della mia vita, sperando che mi lasciassero in pace.
Vidi Marcus poco quell’estate, ma mi rassicurò che sarebbe tornato a Roma dopo di me, e poi mi avrebbe raccontato tutto. Gli offrii di nuovo il mio appoggio morale; non sapevo che altro dire.
Presto avevo guadagnato i seicento dollari necessari per il mio biglietto d’aereo e mi preparai per il ritorno.

FINE DEL CAPITOLO:
L’orrore continua….


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MessaggioInviato: 17/04/2011, 14:28 
Caro Enk , ben fatto !

Benzina sul fuoco , cosa ne pensi di :

http://www.blogpolitica.it/2011/04/16/r ... infamante/

Voglio ricordare a tutti di cosa erano i Papi di " altri tempi " e sull' informazione :

http://it.wikipedia.org/wiki/Casi_di_pe ... _cattolica

http://laici.forumcommunity.net/?t=44545204

http://laici.forumcommunity.net/?t=42990383



zio ot [V]


Ultima modifica di barionu il 17/04/2011, 14:31, modificato 1 volta in totale.


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MessaggioInviato: 17/04/2011, 14:53 
Non deve arrendersi dopo solo tre tentativi, digli di continuare a contattare case editrici italiane. Male che vada, può rivolgersi a qualcuna amatoriale..



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