Biologia e conoscenza secondo F.J.Vareladi Marina Praturlon
1. Premessa
Quando parliamo di scienza non dobbiamo mai dimenticare che l’operare scientifico presuppone sempre un quadro di riferimento teorico o filosofico all’interno del quale poi opera secondo le sue modalità specifiche. La scienza occidentale si muove nel contesto più generale del pensiero filosofico dominante in Occidente, cioè secondo la prospettiva di un’ontologia del fondamento che spazia fra i due limiti estremi (e speculari) del realismo/materialismo (secondo cui il fondamento è la materia, il mondo o l’ "oggetto") e dell’idealismo/spiritualismo (il fondamento è l’Io, l’anima, il Soggetto assoluto). La distinzione dualistica fra soggetto e oggetto, fra psiche e corpo/materia, fra organismo e ambiente, riflette questo quadro teorico generale, perennemente in tensione fra l’uno e l’altro polo di opposizione, pensati alternativamente:o come entità distinte che devono la loro indipendenza (il proprio "essere") ad un nucleo fondante, un sé che ne garantisce l’identità; oppure come entità in cui il fondamento dell’ uno può ridursi al fondamento dell’altro.
A partire dal Novecento, però, questo orizzonte metafisico si è incrinato in maniera irreversibile anche sotto la spinta delle riflessioni dell’operare scientifico, sempre più alle prese con paradossi logici e nuovi scenari cognitivi. Un punto particolarmente critico, dopo le criticità già emerse nella matematica, nella fisica e nella chimica, è emerso in quell’area del pensiero scientifico in cui la mente che pensa il mondo a un certo punto incontra se stessa: nelle scienze della vita e nelle scienze cognitive, innanzitutto, e in maniera collaterale nella tecnologia cognitiva e nella robotica (Artificial Life). E’ qui, infatti, che emerge, come in un quadro di Escher, quella circolarità paradossale fra l’essere e il conoscere, fra la natura e la mente, che rende nuovamente problematica la questione dell’ontologia. Se, infatti il mondo come appare non è mai il mondo "in sè" ma è sempre un mondo relativo al soggetto che emerge costantemente dalla sua attività interpretante, e il soggetto conoscente presuppone sempre un corpo e una vita bio-socio-ecologica che lo rende possibile, allora va riconosciuto che esiste una connessione originaria, una relazione circolare fra soggetto e oggetto all’interno della quale l’identità dell’uno sfuma in quella dell’altro, in cui l’uno si manifesta in dipendenza dell’altro. In altre parole, soggetto e oggetto sono entità interdipendenti prive di fondamento proprio. Questa interdipendenza (o origine co-dipendente) crea un corto circuito cognitivo che sfocia nei paradossi logici e nel collasso della logica classica basata sui principi di identità e di non-contraddizione, cioè sui pilastri del pensiero scientifico così come lo conosciamo. Se l’origine profonda di questa relazione di interdipendenza rimane in sè un mistero all’analisi intellettuale (perchè è qualcosa che precede sempre il pensiero essendo una sua pre-condizione), la natura di tale relazione (auto-referenziale, circolare, interdipendente) toglie però argomenti ad una ontologia "del fondamento", aprendo una prospettiva di "sfondamento" totalmente estranea alla nostra tradizione di pensiero. In questa nuova prospettiva, che si sta facendo strada in diverse discipline scientifiche e che va distinta da esiti nichilistici, i due poli della relazione Mente-Natura (nelle sue diverse forme) vengono concepiti come emergenti l’uno dall’altro, cioè come risultato di una dinamica complessa in cui ogni livello dipende e contemporaneamente vincola l’altro nella sua espressione, senza che sia possibile individuare un livello ultimo, "fondamentale".
Tutto questo riapre un’antica questione epistemologica che è tornata recentemente alla ribalta proprio in seguito allo sviluppo delle scienze e delle tecnologie cognitive e che chiama in causa direttamente la teoria della conoscenza come "rappresentazione" e il suo correlato ontologico: cioè l’ipotesi realista di un mondo "lì fuori" indipendente dal soggetto e predefinito. Il problema si può riassumere così: se non esiste alcun soggetto assoluto che possa autonomamente dar forma al mondo, nè alcuna realtà oggettiva indipendente che sia normativa per l’attività cognitiva, allora come è possibile la conoscenza? E soprattutto, come è possibile una conoscenza non-arbitraria (efficace, vitale) e più radicalmente, la stessa vita? Di fronte a questa sfida, il pensiero occidentale fa fatica a trovare una soluzione soddisfacente a causa delle premesse filosofiche su cui si fonda: l’alternativa all’essere continua ad essere il nulla, l’alternativa al principio di non-contraddizione è ancora il caos e l’impossibilità della conoscenza, l’alternativa all’ontologia rimane il nichilismo. Il Dharma, con la sua visione della vacuità, dell’impermanenza, dell’interdipendenza, dell’assenza di sé dei fenomeni e dell’Io, con la sua concezione del buddhadharma come qualcosa che è al di là di esistenza e non esistenza, come Via di Mezzo, offre all’Occidente una via d’uscita a questa impasse, e gli scienziati occidentali non hanno faticato molto a rendersene conto. I contatti fra la fisica occidentale e il Dharma sono a tutti noti, ma forse è meno noto il fatto che anche la biologia e le scienze cognitive stanno conoscendo in questi anni un interessante dialogo col Dharma. Una figura di spicco di queste ricerche è stato il biologo F.J.Varela (uno dei fondatori del progetto Mind and Life) il cui lavoro costituisce un esempio di come sia possibile fare scienza "senza fondamenti", ossia prendendo sul serio la consapevolezza dell’interdipendenza costitutiva fra mente e natura (fisico e psichico), la quale a sua volta mette in discussione sia la categoria dell’"oggettività" che una certa concezione spiritualista della mente ad essa speculare.
E’ interessante andare a vedere quali sono stati i risultati di un simile "esperimento culturale" che ha finito per scontrarsi sia con la concezione dominante in biologia - quella dell’adattazionismo neo -darwiniano -sia con la teoria dominante nelle scienze cognitive nota come Cognitivismo.
Il pensiero di Varela come biologo e come neuroscienziato, d’altronde, era, già racchiuso in nuce nella teoria che lo ha reso noto, insieme ad Humberto Maturana: cioè la teoria dell’ autopoiesi. Questa particolare concezione della vita costituisce infatti il ponte che unisce le scienze biologiche alle scienze cognitive, ovvero costituisce una risposta possibile alla domanda sulle radici biologiche della conoscenza.
2. Autopoiesi: una definizione sistemica del vivente
Per arrivare a una definizione soddisfacente dei sistemi viventi (biologici o artificiali) Varela ha utilizzato gli strumenti della teoria dei sistemi applicandoli alla biologia e in seguito alla neurofisiologia. Il modello adottato è quello del comportamento dei sistemi complessi, sia nella forma minimale degli automi modulari (o cellulari) sia nelle forme più complicate in cui più unità vengono messe in rete e lasciate interagire (come nei "sistemi senza input" di Ashby). La simulazione di questi sistemi ha rivelato delle proprietà comuni caratteristiche, fra cui il fatto che la dinamica del sistema, o della rete di sistemi, inizialmente caotica ed insignificante, genera stati di coerenza globale (forme, comportamenti collettivi, strutture ordinate) completamente imprevedibili a priori ed emergenti dalla sola dinamica interna del sistema. Da qui il termine auto-organizzazione, che esprime appunto la capacità di questi sistemi di generare spontaneamente mutamenti qualitativi, sia di tipo strutturale che di tipo funzionale (come il riconoscimento di forme), senza che il sistema sia "istruito" per farlo (come avviene invece per i più noti sistemi di Intelligenza Artificiale).
Questi "significati" emergenti corrispondono a determinati autovalori, o attrattori, che possono essere immaginati come l’espressione del raggiungimento di uno stato di congruenza fra i diversi elementi (sottosistemi) del sistema, derivante esclusivamente dalla sua dinamica interna. Questo è il motivo per cui questa proprietà è stata chiamata "autonomia" e questi sistemi sono stati definiti "autonomi". Questa classe di sistemi, per la prima volta individuati e descritti da Norbert Wiener, identificano dunque quei sistemi che si mostrano chiusi per ciò che riguarda la propria organizzazione: ovvero tutti i cambiamenti strutturali (fisici) sono subordinati al vincolo prioritario del mantenimento dell’organizzazione interna. Ciò vuol dire che questi sistemi selezionano fra tutte le possibili interazioni con l’ambiente solo quelle "ammissibili", cioè quelle compatibili con la conservazione della propria autonomia. Lo schema input-output o stimolo-risposta, è dunque improprio per descrivere il comportamento di questi sistemi, perchè la risposta del sistema è sempre determinata dalla propria organizzazione operazionalmente chiusa, e mai dall’ambiente, nei confronti del quale il sistema rimane "cieco". In altre parole all’interno di questo modello l’ambiente non ha alcun potere istruttivo o in-formativo: laddove uno di questi sistemi artificiali viene lasciato interagire con un "ambiente", quest’ultimo non trasmette alcuna informazione (quindi non agisce come input), ma si limita ad avere un’azione perturbante che può o meno innescare una trasformazione, ma una trasformazione che rimane totalmente dipendente e subordinata all’organizzazione interna di quel sistema. Questo è ciò che viene chiamato "chiusura operativa". Il concetto fondamentale è che due o più sistemi autonomi in interazione reciproca sviluppano sempre una dinamica che tende a stabilizzare i sistemi coinvolti su determinati autovalori: il sistema nel suo insieme raggiunge così uno stato di coerenza interna più o meno stabile nel tempo che esprime l’adattamento dei diversi sotto-sistemi l’uno all’altro.
Partendo dal presupposto che il sistema vivente è un sistema autonomo che si realizza fisicamente grazie alla sua apertura termodinamica, Varela fa osservare che tale realizzazione è possibile perchè l’organizzazione autopoietica del vivente, selezionando il campo di interazioni in cui può entrare senza perdita di identità, implica la specificazione di un dominio cognitivo entro i cui confini vive e opera: la sua "nicchia". Questo dominio è ciò che permette e, allo stesso tempo, ciò che delimita, l’orizzonte materiale e cognitivo di ogni essere vivente, la condizione necessaria perchè il sistema vivente possa aprirsi al mondo senza esserne disciolto, assorbito o trasformato in qualcos’altro: solo se e fino a quando conserva la sua identità, infatti, un sistema può differenziarsi dal "mondo" e quindi "conoscerlo".
Gli organismi viventi sono certamente sistemi autonomi, ma l’autonomia, secondo Varela, non basta a definirli: perchè un sistema sia "vivente", esso deve realizzare la propria organizzazione nello spazio fisico, cioè deve auto-prodursi materialmente attraverso scambi energetici con il suo "ambiente". Questo "accoppiamento strutturale" con la nicchia è una condizione necessaria, insieme all’autonomia, per la realizzazione di un sistema autopoietico, e ciò che fonda e giustifica il processo di reciproco adattamento, o co-adattamento, dei due sistemi accoppiati (organismo e ambiente, soggetto e oggetto). Questo processo però, a causa della chiusura operativa, è inteso come il raggiungimento di una condizione di mutua compatibilità e non come l’adattamento del vivente ad un ambiente indipendente predefinito. L’autopoiesi quindi è il processo biologico, l’architettuta sistemica, attraverso la quale si forma la visione dualistica che distingue il sé dal non-sé , il dentro dal fuori, l’organismo e l’ambiente, creando la temporanea esistenza separata dei "fenomeni" oggettivi e soggettivi da un’originaria condizione di indistinzione.
Prendendo la cellula come unità biologica fondamentale, Varela fa osservare che l’organizzazione cellulare è tipicamente circolare (ricorsiva) e reticolare: ogni elemento all’interno di essa è interdipendente dagli altri e forma una rete di processi di produzione di componenti che costantemente rigenerano questa rete, col risultato che il prodotto dell’attività del sistema è lo stesso sistema, in un completo autoriferimento. La ricorsività dell’organizzazione cellulare, a causa della sua natura circolare autoreferente, implica la specificazione di un ambito topologico chiuso, separato dal contesto, il quale a sua volta prende forma come "ambiente". Nella sua realizzazione fisica, ciò si traduce nella specificazione di una rete ricorsiva di processi metabolici che si svolgono entro lo spazio finito della cellula, di cui la membrana non è che il limite estremo: non esiste all’interno di questa rete chiusa un luogo privilegiato che possa sottrarsi al vincolo costituito dall’appartenere a questa rete (ad esempio il genoma), nè un sottosistema che possa essere considerato propriamente causa o effetto del funzionamento di un altro.
In questa dialettica di chiusura ed apertura è racchiusa tutta la particolarità della vita: nel momento in cui una organizzazione chiusa si realizza fisicamente, acquista un senso la distinzione fra organismo e ambiente, i quali nascono propriamente insieme da questo medesimo atto di separazione. A causa della chiusura operativa, le trasformazioni fisiche dovute all’apertura strutturale vengono mantenute compatibili con l’organizzazione interna che rimane inalterata. Il grado di libertà all’interno di questi vincoli operativi consiste nel fatto che le trasformazione fisiche ammissibili modificano continuamente il sistema allargando o restringendo il campo delle interazioni possibili (ambiente, mondo), modificandone l’orizzonte cognitivo e di conseguenza il comportamento. Ma questo avviene sempre con conservazione dell’organizzazione interna: tutto ciò che non rientra in questo orizzonte cognitivo non è accessibile al sistema, o meglio, dal punto di vista del sistema non esiste affatto. L’aspetto cognitivo dell’autopoiesi consiste in questo: che la natura chiusa e circolare (autoreferenziale) della sua organizzazione circoscrive il campo delle possibili interazioni a quelle che sono compatibili con la propria conservazione, e quindi definisce il mondo nel quale può esistere.
A causa della particolarità dell’organizzazione vivente di possedere una chiusura operativa, il rapporto dell’organismo con la propria nicchia manifesta delle caratteristiche piuttosto singolari. Ad esempio, poichè in ogni momento lo stato interno del sistema vivente richiede che alcune specifiche interazioni con la propria nicchia si verifichino effettivamente, ogni passaggio di stato implica la predizione che queste condizioni vengano di nuovo soddisfatte: se la presenza di ossigeno è una condizione essenziale alla conservazione dell’autopoiesi, il sistema si comporterà come se si aspettasse che la nicchia conservi anche in futuro questa caratteristica. Dunque il comportamento dei sistemi autopoietici è tipicamente inferenziale o induttivo, nel senso che una condizione necessaria del suo operare è la predizione di quelle classi di interazioni che permettono al sistema di vivere conservando la propria identità, contribuendo, in questo modo, anche alla loro selezione o creazione. Il vivente, così, presuppone, predice e contribuisce a selezionare e modellare un ambiente con determinate caratteristiche tramandando con se stesso anche il suo "mondo".
3. Dalla cellula alle reti neurali : l’emergenza dei mondi percettivi.
Varela ha esteso questo modello al comportamento del sistema nervoso centrale (SNC), seguendo in sintesi questo ragionamento: se ogni cellula è un sistema autonomo, allora una rete di cellule come i neuroni è una rete di sistemi autonomi in interazione reciproca analoga alle reti artificiali, e ne condivide le proprietà essenziali. L’architettura reticolare, la chiusura operativa dei singoli componenti e l’accoppiamento strutturale con un ambiente perturbante sono appunto le condizioni necessarie e sufficienti a generare una dinamica complessa ed un comportamento cognitivo spontaneo (cioè emergente) della rete. La creazione di senso che ne deriva, e l’adattamento reciproco della rete con le classi di perturbazioni ricorrenti (cioè l’ "ambiente del sistema", o nicchia) generato dallo stabilizzarsi di autocomportamenti, saranno entrambi il prodotto della dinamica interna della rete (cioè del SNC) in interazione con eventi aleatori perturbanti.
In altre parole, la nozione di un mondo indipendente "lì fuori" diventa superflua, perchè ciò che si costituisce come "mondo" è un prodotto della rete neurale e non una rappresentazione interna o una simulazione di un ambiente indipendente esterno, per quanto parziale e specie-specifica.
In questo la teoria di Varela si differenzia anche dall’ipotesi secondo la quale l’emergenza di significati che si osserva nei sistemi complessi è causata dall’effetto disorganizzante del "caso": dal punto di vista enattivo (parola coniata dallo stesso Varela), il fattore aleatorio che agisce come perturbazione non è mai assolutamente indipendente dal sistema (quindi mai assolutamente casuale), non perchè sia già noto, ma perchè, pur essendo privo di un significato a priori, rientra comunque nella classe delle interazioni ammesse dal sistema, e quindi rientra nel quadro delle possibilità specificate dalla sua organizzazione. Ciò che viene eliminato in questa nozione di casualità è ancora il riferimento ad un ambiente esterno completamente indipendente dal "soggetto": ciò che chiamiamo "perturbazione" non veicola alcun significato, nessuna informazione che non sia già in un certo senso anticipata dallo stesso sistema. Varela insiste su questo punto cruciale: se teniamo presente il carattere autonomo dei sistemi cognitivi naturali non è possibile sostenere una teoria della conoscenza come ricostruzione o rappresentazione internalizzata di caratteristiche del mondo esterno ottenuta attraverso una manipolazione delle informazioni provenienti da inputs ambientali selezionati. E questo anche se questa selezione avviene su criteri di adattamento e co-adattamento: anche se la struttura del sistema percettivo-cognitivo del SNC è il frutto di una storia di selezione naturale, e quindi è vincolata dal suo ambiente-contesto nelle sue trasformazioni fisiche e nelle sue effettive possibilità, rimane il fatto che il SNC opera come sistema chiuso, e quindi sia la percezione che la cognizione (la quale include il livello superiore della categorizzazione e le altre forme superiori di cognizione) sono prodotti di un’attività tutta interna al sistema nervoso e in quanto tali riflettono unicamente esigenze e logiche interne al SNC. Questo, a sua volta, è inglobato, e dunque subordinato, al sistema sopraordinato dell’intero organismo di cui deve rispettare i vincoli organizzativi: non è l’occhio e nemmeno la corteccia visiva a "vedere", ma l’intero organismo in quanto unità autonoma in accoppiamento strutturale con un ambiente perturbante da esso stesso specificato.
La ricerca connessionista ha permesso di immaginare come, cioè attraverso quali processi e con quale architettura materiale, sia possibile ottenere un comportamento cognitivo senza postulare un ambiente dalle caratteristiche pre-definite. Al contrario dei sistemi di IA tradizionale, costruiti a partire da regole generali in vista di obiettivi specifici da ottenere tramite la manipolazione ( cioè il calcolo) di simboli il cui significato è deciso a monte dal programmatore (da cui la definizione di approccio computazionale o di calcolo simbolico), nei sistemi connessionisti, date alcune regole locali o contestuali, un certo numero di componenti semplici vengono messi in rete (in parallelo) e lasciati interagire liberamente: dopo un certo tempo, lo stato caotico della rete lascia il posto a configurazioni coerenti, forme e funzioni emergenti che corrispondono agli attrattori della rete: è la stessa rete che produce i suoi significati, senza alcun intervento istruttivo esterno.
Il livello semantico-rappresentativo che per il cognitivista è racchiuso nel simbolo, per il connessionista è emergente dall’attività cooperativa di un vasto insieme di componenti semplici, sub-simboliche, di per sé insignificanti. Nei sistemi di riconoscimento delle immagini, ad esempio, che simulano l’apprendimento visivo dal punto di vista del connessionismo, una rete neurale artificiale viene messa in contatto con una serie di schemi lasciando che il sistema si riorganizzi autonomamente dopo l’esposizione ad ognuno di essi: dopo una prima fase di "apprendimento", il sistema impara a "riconoscere" immediatamente ogni schema, nel senso che in corrispondenza di ognuno di essi accede ad uno stato globale caratteristico, e questo anche in presenza di parziale mutilazione dello schema o in condizioni disturbate. Ognuno di questi stati globali identifica o "significa" un particolare schema che il sistema ha imparato a conoscere e riconoscere attraverso processi di auto-organizzazione completamente interni al sistema. Questa conoscenza, dunque, non consiste in una rappresentazione dell’oggetto resa possibile dall’elaborazione (computazionale) delle informazioni provenienti dall’esterno, ma piuttosto consiste in una autoproduzione di significati che non hanno un diretto riferimento con l’oggetto conosciuto, ma esprimono la reazione (cambiamento di stato) del sistema perturbato all’evento perturbante; reazione che un osservatore (e non il sistema in quanto tale) può interpretare come conoscenza dell’oggetto, mettendo i due elementi in una relazione causale.
In questo modo i sistemi connessionisti hanno rivelato molte capacità, che non esiteremmo a definire cognitive, prescindendo completamente dal tradizionale approccio computazionale-cognitivista.
Naturalmente questo vale per l’intera classe dei sistemi autonomi, ma ciò assume un carattere particolare quando il nostro oggetto diventa quella sotto-classe che abbiamo definito autopoietica o biologica: qui i sistemi autonomi (naturali o artificiali) hanno la caratteristica di possedere una apertura strutturale che li espone continuamente ad una fonte di perturbazioni "aggiuntiva" e li costringe ad operare in un contesto vincolante. Di conseguenza questi sistemi sono tipicamente instabili, nel senso che per mantenere la loro coerenza interna ed integrità fisica devono sottoporsi a continue trasformazioni, ovvero a continui passaggi da stati caotici a stati ordinati attraverso disorganizzazioni e riorganizzazioni interne. Il SNC opera secondo questa logica di chiusura operativa ed è quindi in costante trasformazione strutturale, il che si traduce in un continuo processo di disorganizzazioni innescate da perturbazioni aleatorie e di riorganizzazioni tendenti a ricostruire stati di coerenza e di equilibrio interno. Ma l’ambiente perturbante del SNC non è solo ciò che un osservatore potrebbe chiamare "ambiente esterno", ma è anche l’ "ambiente interno" all’organismo in cui è inglobato, quindi il SNC non discrimina fra perturbazioni provenienti dall’esterno e quelle provenienti dall’interno: dalla sua prospettiva operazionalmente chiusa esistono solo perturbazioni disorganizzanti a cui rispondere adeguatamente, e nel processo di riorganizzazione sarà coinvolta l’intera rete neurale e non solo una parte circoscritta o "area" collegata a questa o quell’altra funzione. Questo spiega tra l’altro la resilienza del SNC, cioè la capacità di ogni parte del sistema di assumersi le funzioni di un’altra parte che per qualsiasi motivo risulti deficitaria o compromessa. E spiega anche il perché in qualsiasi atto cognitivo siano coinvolte in maggiore o minore misura tutte le altre funzioni, e non esistano "compartimenti stagni" totalmente autonomi. I comportamenti del SNC sono dunque sempre auto-comportamenti perchè rispondono ad una logica autoreferenziale complessa che non ha come scopo quello di conoscere il mondo esterno, ma quello di conservare la propria organizzazione, o identità. Nonostante ciò non si può neanche affermare che il SNC sia un sistema indipendente, un soggetto assoluto che inventa il suo mondo. Infatti, a causa della sua apertura strutturale, l’emergenza di autovalori o di significati dalla rete neurale è vincolata (anche se non determinata) dalle fonti di perturbazioni ricorrenti (o ambiente) con cui il sistema è in accoppiamento strutturale.
Il "mondo", inteso come insieme relativamente stabile di configurazioni emergenti ricorrenti (insieme virtuale di micro-mondi), non è un’invenzione della mente, un mondo arbitrario, perchè questa mente (a sua volta insieme virtuale di micro-identità) è un fenomeno emergente dal corpo, è una mente incorpata, e quindi sottosta agli stessi vincoli cui il corpo è sottoposto nella sua storia di accoppiamento strutturale con un ambiente perturbante. Il punto sta nel comprendere che ciò che si costituisce come ambiente è a sua volta determinato dalla struttura del sistema e quindi non può essere considerato indipendente e normativo per l’attività cognitiva: mente e mondo sono inclusi l’uno nell’altra, si specificano l’un l’altra in una relazione circolare mai conclusa, impermanente.
In un’opera fondamentale, scritta in collaborazione con E.Rosch ed Evan Thompson, The embodied mind, Varela esamina in maniera approfondita il funzionamento del cervello ed alcune modalità percettive fondamentali come le funzioni visive e la percezione del colore, nel tentativo di dimostrare che il cervello non opera come un elaboratore di informazioni provenienti dal mondo esterno e non ha come scopo la conoscenza di questo mondo, ma piuttosto può essere descritto come quel sotto-sistema in grado di potenziare in maniera consistente la capacità dell’individuo di mantenere stabili le proprie condizioni di co-adattamento attraverso un comportamento "orientato". La particolarità del cervello animale, secondo questo punto di vista, consiste nel potenziamento di quel tipo di neuroni, gli interneuroni, che fanno opera di collegamento fra il sistema sensorio (con la sua rete di neuroni sensori) e quello motorio (con la sua rete di motoneuroni), permettendo quella dinamica reciprocamente retroattiva fra sensorio e motorio che permette all’azione di essere guidata percettivamente: l’attività sensoria si dirige (cioè si rende disponibile, si "apre") verso aspetti rilevanti del suo ambiente determinando l’azione motoria; questa, a sua volta, provoca una riorganizzazione del sistema motorio in seguito agli effetti perturbatori cui viene sottoposto, con la conseguenza che anche il sistema sensorio ne viene modificato a causa dell’accoppiamento dei due sistemi attraverso sotto-reti interconnesse. Ciò permette al sistema motorio di retroagire sulle sue stesse condizioni percettive, modificandole in funzione degli effetti dell’attività motoria. In ciò consiste quella relazione circolare fra sensorio e motorio che fa si che la percezione sia inscindibile dall’azione, e viceversa che l’azione sia guidata dalla percezione. Su questa ipotesi si basa anche un settore specifico della ricerca sulla vita artificiale, i cui risultati, come ad esempio le "creature" di R.Brooks create in un laboratorio del MIT, sembrano confermare questo modello di cognizione come attività emergente da sottoreti interconnesse di attività senso-motoria.
Sul modello delle reti connessioniste, l’attività percettiva può essere descritta come una complessa dinamica in cui schemi senso-motori continuamente emergono e si selezionano reciprocamente rendendo possibile la stabilizzazione di regolarità che si sedimentano fino a formare un "know -how" incorpato, la cui apparente stabilità riflette la capacità del sistema nervoso di mantenere su valori relativamente stabili le condizioni di co-adattamento indispensabili alla sua conservazione, processo che crea l’illusione di una "visione del mondo" solida e "reale".
Questo processo di produzione continua di configurazioni neurali emergenti può essere visto come un’attività ermeneutica a carattere intenzionale: la forma fisica (corporea) dell’apparato percettivo, storicamente determinato, propone un’interpretazione del mondo attraverso la specificazione di un campo di interazioni possibili, non ancora attuali. Il soggetto entra nel dominio di interazioni permesso dal proprio stato interno usando e manipolando gli oggetti attraverso il suo corpo e le sue capacità percettive incorpate, e continua questa esplorazione entro i limiti del possibile, cambiando continuamente il proprio campo di azione in conseguenza delle trasformazioni interne al SNC. Questa anticipazione rispetto alla costituzione del mondo (percettivo) è sempre un riferirsi a qualcosa che ancora non c’è, è una predizione rispetto a ciò che può essere, e questa predizione ha la forma di modelli interpretativi emergenti che vengono costantemente confrontati e modificati attraverso azioni guidate percettivamente. Questo "confronto", va sottolineato, non ha nulla a che fare con la teoria della conoscenza per "prova ed errori": questa infatti viene intesa come un processo di ottimizzazione della conoscenza di un mondo "oggettivo" indipendente attraverso la tesaurizzazione dell’esperienza dell’errore, mentre invece l’ambiente verso il quale l’esplorazione percettiva si dirige si presenta come un orizzonte indefinito ed indeterminato di possibilità che prende una forma (significato) solo a posteriori, costruendosi in seguito a questa attività percetto-motoria. Il fine di questo processo cognitivo non è quello di raggiungere una visione sempre meno parziale di un’unica realtà, ma di produrre mondi che siano vitali, cioè che riflettano le condizioni di coadattamento che permettono la conservazione della vita. Poiché queste condizioni, per ogni essere vivente, dipendono da una storia evolutiva propria di ogni specie e di ogni singolo individuo, il "mondo" percepito che così viene ad emergere non è arbitrario, come abbiamo visto, ma non è neanche assoluto, dal momento che riflette solo una delle molte traiettorie evolutive possibili, né definitivo, perché dipendente da una struttura corporea "aperta" e in continua trasformazione. Ciò che emerge da questa attività costruttiva (o produttiva) che prende forma "strada facendo", non è, pertanto, la formazione di prospettive diverse sul mondo , ma veri e propri "mondi" differenti, condivisi in maggiore o minore misura a seconda del grado di condivisione di una storia di co-adattamento. Nel linguaggio del Dharma, potremmo tradurre questi mondi percettivi con le diverse visioni karmiche appartenenti alle varie classi di esseri senzienti.
4. Micro-mondi e micro-identità: la genesi del reale virtuale.
A partire dai processi più elementari della percezione, Varela definisce la cognizione come un’attività ermeneutica e creativa resa possibile dal carattere intrinsecamente intenzionale (predittivo) dell’attività autonoma ed auto-organizzata delle sottoreti neurali senso-motorie interconnesse, la cui struttura, storicamente determinata da vincoli di accoppiamento (ontogenetico e filogenetico) con un ambiente eco-socio-culturale, specifica di volta in volta il dominio cognitivo del sistema, cioè il suo "mondo". Entrare in un particolare dominio di interazioni significa esporre l’attività senso-motoria a possibili perturbazioni che, innescando trasformazioni interne al sistema nervoso, possono provocare l’emergenza di nuove configurazioni relativamente stabili di attività neurale, corrispondenti alla produzione di nuovi "mondi", forme, concetti, significativi non-arbitrari. Ad ognuna di queste configurazioni neurali corrisponde allo stesso tempo una micro-identità" e un "micro-mondo" che, sebbene siano resi stabili da una storia di accoppiamento che produce regolarità, non hanno alcun fondamento oggettivo né in un Sé permanente né in una realtà esterna indipendente. Il mondo "oggettivo" che così si viene a formare, insieme al suo correlato soggettivo di "persona", sono in-fondati; la loro natura è virtuale, la loro emergenza non-necessaria: quello che nel Dharma viene chiamata la natura vacua del Sé e dei fenomeni, che non significa "non esistenza" ma piuttosto esistenza relativa, interdipendente e impermanente. La vera natura delle cose, infatti, secondo il Dharma, non rientra né nella categoria dell’essere né nella categoria del non-essere, né in quello di esistenza, né in quello di non-esistenza.
L’impressione di stabilità che il soggetto sperimenta rispetto a se stesso e al suo mondo di esperienza è solo apparente, anche se giustificata, e dipende dal fatto che ognuno di noi considera la propria condizione a partire da un certo punto, ignorando la strada percorsa nel suo sviluppo onto e filogenetico, lungo la quale una serie di regolarità ricorrenti si è stabilizzata ed incorpata nel tempo formando il cosiddetto "senso comune". Quest’ultimo non è altro che un bagaglio di micro-mondi e micro-identità che il sistema cognitivo ha memorizzato, seguendo un percorso analogo all’apprendimento dei modelli connessionisti di riconoscimento, e che emerge spontaneamente e prontamente ogniqualvolta il soggetto si trova in una situazione nota analoga a quelle che hanno innescato quel tipo di emergenza.
L’infondatezza che si cela dietro l’apparente stabilità del mondo e del Sé, non implica, dunque, che questi ultimi siano irreali: il mondo "oggettivo" ha una realtà relativa perché dietro la sua solida superficie cela una storia di accoppiamento non-necessaria che l’ha generato; allo stesso modo la forma di soggettività di cui abbiamo personalmente esperienza, l’Io coscienziale, è il risultato di un continuo farsi storico che non ha i caratteri della necessità, ma che tuttavia trova una sua ragion d’essere proprio per il fatto di essere il risultato di una storia possibile.
Ora, poiché, come abbiamo visto, conoscere significa agire in maniera pertinente ad un contesto rilevante (e non significa rappresentare un mondo predefinito), la cognizione si trova immancabilmente coinvolta nel processo di costruzione di un mondo significativo: la realtà "oggettiva", il mondo che a noi sembra avere una vita autonoma ed indipendente dalla mente, in realtà dipende strettamente dalla cognizione intesa come azione incarnata. Di qui il carattere intrinsecamente fattuale ed etico della cognizione.
In accordo con un insegnamento fondamentale della tradizione buddhista, Varela considera questa consapevolezza della natura virtuale del mondo come del Sé, il fondamento di ogni etica. Solo questa consapevolezza, infatti, può far apprezzare la natura interconnessa ed interdipendente di ciò che siamo e del mondo in cui viviamo: l’azione progressivamente cessa di essere diretta verso un Io sostanziale da proteggere ed alimentare, e si orienta spontaneamente verso l’ altro, non più inteso come un alter ego sostanziale, ma sentito come parte di sé, cioè come un elemento che partecipa della stessa realtà vacua ed interdipendente cui anche noi partecipiamo. La scoperta dell’infondatezza del Sé e del suo mondo di esperienza, della sua natura disunita e transitoria, storica e contestuale, non genera quindi una sensazione di vuoto e non prelude ad una deriva nichilistica de-responsabilizzante del comportamento, ma al contrario apre le porte ad un’esperienza di compartecipazione che rende l’agire più responsabile (perchè consapevole del proprio ruolo creativo nella generazione del reale) ed eticamente orientata (perché conscio della propria appartenenza ad un sistema transpersonale che l’ha generato e che contribuisce a conservare).
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http://www.buddhismo-occidente.it/varela.htm