Erdogan chiede agli Usa una no fly zone sulla SiriaLe dichiarazioni di Obama ed Erdogan a Washington vanno all'unisono: «Vogliamo una Siria libera dalla tirannia di Assad, siamo in pieno accordo. Bisogna porre fine a questa sanguinosa crisi ed istituire un nuovo Governo». Ma il vertice tra il presidente americano e il premier turco sulla Siria, anzi sarebbe meglio dire sulla "ex Siria", ha dato risultati più ambigui di quanto emerga dall'ufficialità perché questa nazione disintegrata difficilmente verrà ricomposta, come è già accaduto all'Iraq dopo l'invasione del 2003 quando i turchi si opposero strenuamente all'attacco Usa contro Saddam.
Erdogan, che portava le prove dell'uso di armi chimiche da parte del regime, ha tentato di convincere l'America a intervenire nel cuore del Levante arabo, magari istituendo una "no fly zone" con la Nato. Una sorta di paradosso, accompagnato dalle memorie dell'occupazione dell'Iraq e dai timori americani che in Siria si costituisca una sorta di emirato islamico guidato dalla guerriglia jihadista.
Barack Obama, prima di fare il gran passo, intende esaurire le labili chance affidate al vertice di Ginevra concordato, a fatica, con la Russia. Aumenteremo le pressioni su Assad ha promesso il presidente, ma «non abbiamo formule magiche».
È questo un incontro che trova due protagonisti al bivio di una scelta, in mezzo a un guado. Erdogan è alle strette dopo l'attentato nella città di confine di Reyhanli che ha ucciso oltre 50 persone: Ankara ha accusato il regime di Damasco mentre la popolazione turca ha protestato contro il Governo che ha accolto 200mila profughi (non ufficiali sono 400mila) e ora si sente un bersaglio della guerra. Erdogan ha puntato gran parte del suo prestigio appoggiando le primavere arabe e la caduta di Bashar Assad. In questa chiave si è giocato la carta dell'accordo di pace con il Pkk curdo di Abdullah Ocalan, raggiunto grazie a un'intesa con il Kurdistan iracheno di Massud Barzani, in una partita da cui spera di uscire vincitore con l'obiettivo di insediarsi nel 2015 sulla poltrona presidenziale.
L'amministrazione Obama, a sua volta, è costretta a decidere se la tattica americana di contenimento dell'instabilità regionale sia sostenibile. In realtà gli americani hanno delegato questo conflitto ai loro alleati mediorientali come la Turchia che insieme agli arabi qatarini e sauditi ha alimentato una guerriglia sfuggente, al punto che il gruppo dominante sul campo è quello islamico di Jabat al Nusra, affiliata di al-Qaida. È stato il risultato di un clamoroso errore di calcolo: dopo l'inizio della rivolta nel marzo 2011 si pensava che il regime, con qualche spallata, sarebbe crollato in pochi mesi. Non è andata così: e ora non si sa né come fermare il massacro né come avviare una transizione che eviti un crollo disastroso ai confini di Israele, del Libano, dell'Iraq e della Giordania.
Ma sul tavolo dell'incontro di Washington c'è anche una posta economica strategica. Erdogan ha chiesto a Obama che la Turchia non resti fuori dalla Translatlantic Trade and Investment Partnership, il progetto di zona di libero scambio tra Europa e Stati Uniti. La sua esclusione potrebbe portare a una contrazione del 2,5% del Pil turco. Ci sono due strade: un accordo parallelo con gli Usa o pressioni sull'Unione per includere la Turchia nei negoziati. Ma Bruxelles esita perché con Ankara si è aperto un duro contenzioso sugli accordi doganali del'96. Se la guerra siriana turba i sonni di Erdogan, un fiasco su questo dossier potrebbe essere in prospettiva ancora più fatale: le sue vittorie travolgenti e quelle del partito islamico conservatore Akp si sono fondate in questo decennio sui successi economici (una crescita media dal 2002 a oggi del 5,2% annuo), non sulla religione o sui progetti di ricostituire una sfera di influenza neo-ottomana. Anche per lui vale lo slogan clintoniano: It's the economy stupid!
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