22/08/2013, 17:41
25/08/2013, 23:59
Questo ottimo articolo dell’amico giornalista Furio Stella, dimostra con dati alla mano, che il tanto pubblicizzato "femminicidio" rientra nelle armi di distrazione di massa usate dai media mainstream: notizie inventate o amplificate per distogliere l'attenzione dei sudditi dalle cose veramente serie e importanti.
---------------
Femminicidio: la nuova legge approva alla Camera ma i delitti non sono in aumento e in Europa si uccide più che in Italia
Il decreto legge sul femminicidio approda (oggi) alla Camera per la sua approvazione. Sul tavolo, il pacchetto di nuove norme varate d’urgenza dal governo che prevedono pene più severe (arresti in flagranza, querela irrevocabile, aggravanti per coniuge e compagno anche non conviventi, etc.) per contrastare l’ondata di delitti, praticamente uno ogni tre giorni, che dall’inizio dell’anno hanno una donna come vittima.
Sul fenomeno - omicidi efferati, dunque particolarmente odiosi e inaccettabili in un contesto civile - si sono mobilitati in tanti. Peccato che in tanta mobilitazione sia mancato l’elemento più importante sul piano dell’informazione, e cioè i dati.
Il ministero dell’Interno, che sarebbe il primo deputato a fornirne, non ne ha. Il chè è già un dato preoccupante. Quei pochi che ci sono provengono o da data-base giornalistici, o dall’Istat (ma sono fermi al 2009), o da qualche istituto di ricerca indipendente come l’Eures. Pochi ma buoni? Se sì, è sorprendente come i dati a disposizione dicano cose diverse da quella che è la percezione del fenomeno. Nel senso che, nonostante quello che possa far supporre l’amplificazione data dai media, non è assolutamente vero che il 2013 (81 le vittime dall’inizio dell’anno fino a oggi) sia una sorta di anno record per quanto riguarda i femminicidi.
Né che questi ultimi siano in qualche misura aumentati rispetto agli anni scorsi. Dai giornali, difatti, si apprende che nel 2012 le donne uccise in Italia (nel 75% dei casi dal partner o dall’ex partner, e al 63% fra le mura di casa) sono state 124, e 137 nel 2011. Secondo l’Istat, le cui statistiche coprono il periodo dal 1992 al 2009, i femminicidi sono passati da 186 (1992) a 131 (2009), il che farebbe pensare a un fenomeno addirittura in calo.
In realtà non è nemmeno così, perché nel periodo sono presenti oscillazioni che, secondo l’Eures, vanno da 98 (i minimi storici di delitti verificatisi nel 2005 e nel 2007) ai 199 del 2000, anno record in negativo dell’ultimo ventennio. Insomma, a spanne i dati indicano che si tratta di un fenomeno costante nel tempo, e con una media che si attesta più o meno sui 120 casi l’anno, dunque 10 al mese. Ossia circa dieci volte di meno delle donne suicide o dei morti sul lavoro, per arginare i quali non risultano provvedimenti legislativi in arrivo.
Detto della differenza fra i fatti e la loro percezione - fenomeno sociologicamente tutt’altro che nuovo quando si ha a che fare con il tam-tam di giornali e tv - dai dati reali arriva un’altra fragorosa smentita, e cioè l’analisi secondo cui alla base dell’ondata di femminicidi nel nostro paese ci sia il maschilismo degli italiani. Frutto, sempre secondo la vulgata, non solo di mamme iperprotettive o castranti, ma più in generale di una società maschilista (la pubblicità osèe, la donna oggetto, le discriminazioni sul lavoro) ancora imbevuta di quella non-cultura per la quale per esempio fino al 1981 era ancora valido nel nostro codice penale il delitto d’onore che di fatto “derubricava” l’uccisione del partner fedifrago con pene da 3 fino a un massimo di 7 anni (praticamente come dare fuoco a uno scooter…).
Oddio, il discorso in generale è vero, se è vero che sono un milione e mezzo le donne italiane che hanno denunciato violenze dei loro partner, e che secondo magistratura e forze dell’ordine rappresenterebbero solo la punta dell’iceberg (il 6-7%) delle violenze di genere. E’ anche vero però che se paragoniamo l’Italia con gli altri paesi europei, i dati dicono un’altra cosa. E cioè che si uccidono molte più donne in Francia, in Germania e anche nella Svezia culla dell’emancipazione femminile. Secondo l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, difatti in Germania negli anni Ottanta i femminicidi erano il doppio che in Italia. Mentre il paese europeo dove si ammazzano più donne è di gran lunga sapete chi? La Finlandia, in media 4-5 volte più che da noi. E dove, sempre in proporzione al numero degli abitanti, vantano anche il poco esaltante record europeo degli omicidi maschili. Dal che si deduce: o il maschio italiano non è affatto maschilista. O, se lo è, lo è meno dei suoi colleghi europei
27/08/2013, 10:06
[color=blue]Femminicidio e dintorni
Anna Mannucci
Lunedì, 26 Agosto 2013
Vorrei fare alcune considerazioni sulla parola femminicidio e sul recente decreto legge a proposito della “violenza di genere” (n.93/14 agosto 2013). La parola femminicidio compare nell’uso giornalistico da una decina d’anni (v. qui per una storia del termine) e più recentemente nei dizionari; potremmo considerare come ufficializzazione definitiva il libro di Barbara Spinelli del 2008 Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, Franco Angeli. Come spiega chiaramente Spinelli, questo neologismo arriva dal Centro America e più precisamente dal Messico, indica l’uccisione di una donna “in quanto donna”. Definizione alquanto controversa giuridicamente, anche se tutti capiamo che cosa si intenda.
Per esempio: se un rapinatore entra in una gioielleria e ammazza la commessa, si può parlare di femminicidio? Penso proprio di no. Oppure: un camionista per sbaglio travolge una ciclista e la uccide; di nuovo, direi che non è femminicidio. Citando ancora Barbara Spinelli, dal titolo di un suo dossier del 2011,Femmicidio e femminicidio in Europa. Gli omicidi di genere quale esito di violenza nelle relazioni di intimità. Dunque si tratta di “esito di violenza nelle relazioni di intimità”, schematizzando un po’: omicidi in famiglia o quasi (ci sono anche le fidanzate e le amanti). Non vorrei sembrare patriottica/campanilista, ma nella tradizione italiana c’è la parola uxoricidio (dal latino, uxor, moglie).
Interessante per almeno due motivi: perché mette in evidenza la relazione, indica chiaramente l’omicidio di una donna con cui l’uomo ha una relazione affettiva (e non la passante investita per sbaglio) e considera possibile soltanto l’uccisione della moglie, come se l’uccisione del marito da parte della moglie non fosse neanche pensabile! Proporrei dunque di usare questa parola molto significativa. Nei nostri codici penali, dallo Zanardelli al Rocco con tutte le successive modifiche, l’uxoricidio non compare e, inaspettatamente, non c’è neanche nel diritto romano (questo mi hanno confermato i miei amici che sono davvero giuristi), ma è presente da lungo tempo “in dottrina e giurisprudenza”, che significa nei testi di diritto e nelle sentenze. Una postilla: qualcuno ha trovato sgradevole definire le donne “femmine”, come se fossero “animali”. Io penso che esista anche l’animalicidio, ma qui si aprono prospettive e discussioni amplissime che ci porterebbero fuori strada.
Passo ora al decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e commissariamento delle province (GU n.191 del 16-8-2013). Tralasciamo ovviamente la protezione civile e le province e riflettiamo sul Capo I, “Prevenzione e contrasto della violenza di genere” (l’unica cosa buona in questo DL è che non si parla di femminicidio). Già si inizia male: «il susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale che ne è derivato rendono necessari interventi urgenti volti a inasprire, per finalità dissuasive, il trattamento punitivo degli autori di tali fatti, introducendo, in determinati casi, misure di prevenzione finalizzate alla anticipata tutela delle donne e di ogni vittima di violenza domestica».
Considerazione generale: si tratta di un ennesimo DL “emergenziale”, basato su un non ben definito allarme sociale, legislazione emergenziale che va di moda in Italia almeno dagli anni '70 del secolo scorso. Una prima, importante critica: c’è un continuo, ambiguo scivolamento da violenza di genere a violenza sulle donne. In questo modo si fa una grave confusione e nello stesso tempo si classificano ufficialmente le donne come soggetti deboli, e non è una bella cosa.
Nella prima pagina, si parla esplicitamente di soggetti deboli, i “minori”, e questo sembra chiaro, si tratta di chi ha meno di 18 anni, e gli “anziani”: ma chi saranno mai gli anziani? Quelli dopo i 60 anni, come per lo sconto nei cinema? O quelli dopo i 65, come per lo sconto nelle piscine private? Oppure si intendono gli over 75, che a Milano possono usufruire – ma solo d’estate – di alcuni servizi a domicilio? E le donne che sono anche minori o anziane, saranno difese al quadrato? Non voglio fare dell’ironia, ma voglio segnalare i molti punti confusi di questo DL, a partire dalle «misure di prevenzione finalizzate alla anticipata tutela delle donne» (e che significa?) e compresa la definizione di violenza domestica dell’articolo 3: «si intendono tutti gli atti, non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o persone legate da relazione affettiva in corso o progresso, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima». Dire che si resta perplessi è poco.
Da altri punti di vista, molti considerano sbagliata e persino incostituzionale l’irrevocabilità della querela, altri fanno notare come siano troppi i poteri repressivi dati alle Forze dell’ordine, senza fornire loro gli strumenti culturali e pratici per aiutare le vittime (i famosi centri contro la violenza o i vaghi servizi sociali). C’è anche il timore dell’intrusione dello Stato in fatti personali, in complesse e anche tortuose dinamiche psicologiche che non sono competenza del diritto e tantomeno del penale.
Secondo alcuni giornali, Letta in questo modo avrebbe voluto lanciare «un grande messaggio». Questo è un modo sbagliato di intendere la legge e di legiferare. Le leggi non devono “lanciare messaggi”, anche se poi, in alcuni casi, lo fanno. Un esempio fondamentale: l’articolo 1 della legge 442 del 5 agosto 1981 ha abolito il “delitto d’onore”. Con questo ha chiaramente lanciato un messaggio, ufficializzando un importante avanzamento culturale. Ma lo ha fatto abolendo un articolo del codice penale che considerava l’onore un’attenuante, non dichiarando “il delitto d’onore è una brutta cosa”! Altra critica: nel nostro codice penale già ci sono numerose norme contro i maltrattamenti in famiglia, l’articolo 572 tratta proprio di “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”, il 571 di “abuso di mezzi di correzione e disciplina”, l’art. 575 punisce l’omicidio e il 577 aumenta la pena “se il fatto è commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta”, e l'articolo 582 punisce le lesioni personali.
Non vado avanti in un elenco che potrebbe diventare noioso (anche perché si potrebbe aggiungere pure il codice civile), ma arrivo al punto centrale: era davvero necessario questo DL? E ancora: sarà utile? Il proliferare di leggi serve davvero alla società o si tratta di proclami con discutili fini cultural-pedagogici e/o autopubblicitari? Faccio una lunga citazione da Mario Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, 1860-1990, in Storia d’Italia Einaudi, Annali 14, p. 548: «Lo Stato sociale di diritto, per eccellenza legislatore, si vale spesso del penale come suggello, come segnalatore di importanza di questo o quel passaggio della normatività organizzativa, e svolge una sua rilevantissima parte. Gli si affiancano il penale accessorio, la sterminata “selva delle contravvenzioni” additata da Giacomo Delitala, e l’immenso territorio del penale ostativo […]
A tutto questo si aggiunge, in un certo senso sovrastandolo e fecondandolo di potenzialità perverse, il fattore mediatico, fierissimo concorrente, ormai, della scienza giuridica quanto alla capacità di influire sul ceto politico» (corsivo mio) […] e a p. 549: «È anche il dominio della mitridatizzazione, per un verso, e della degenerazione della pena per l’altro.
La pena cessa di essere presa sul serio, rifugiandosi nell’unica funzione che mai, tra mille, le era stata seriamente attribuita: quella di essere sbandierata come un mero segnalatore di pericolo (corsivo mio), o quella di dare in mano a settori burocratici un mezzo di pressione per ottenere dai cittadini questo o quel comportamento, non altrimenti atteso.»[/color]
27/08/2013, 10:31
rmnd ha scritto:
http://www.lsblog.it/index.php/interni/archivio-interni/690-femminicidio-e-dintorni[color=blue]Femminicidio e dintorni
Anna Mannucci
Lunedì, 26 Agosto 2013
Vorrei fare alcune considerazioni sulla parola femminicidio e sul recente decreto legge a proposito della “violenza di genere” (n.93/14 agosto 2013). La parola femminicidio compare nell’uso giornalistico da una decina d’anni (v. qui per una storia del termine) e più recentemente nei dizionari; potremmo considerare come ufficializzazione definitiva il libro di Barbara Spinelli del 2008 Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, Franco Angeli. Come spiega chiaramente Spinelli, questo neologismo arriva dal Centro America e più precisamente dal Messico, indica l’uccisione di una donna “in quanto donna”. Definizione alquanto controversa giuridicamente, anche se tutti capiamo che cosa si intenda.
Per esempio: se un rapinatore entra in una gioielleria e ammazza la commessa, si può parlare di femminicidio? Penso proprio di no. Oppure: un camionista per sbaglio travolge una ciclista e la uccide; di nuovo, direi che non è femminicidio. Citando ancora Barbara Spinelli, dal titolo di un suo dossier del 2011,Femmicidio e femminicidio in Europa. Gli omicidi di genere quale esito di violenza nelle relazioni di intimità. Dunque si tratta di “esito di violenza nelle relazioni di intimità”, schematizzando un po’: omicidi in famiglia o quasi (ci sono anche le fidanzate e le amanti). Non vorrei sembrare patriottica/campanilista, ma nella tradizione italiana c’è la parola uxoricidio (dal latino, uxor, moglie).
Interessante per almeno due motivi: perché mette in evidenza la relazione, indica chiaramente l’omicidio di una donna con cui l’uomo ha una relazione affettiva (e non la passante investita per sbaglio) e considera possibile soltanto l’uccisione della moglie, come se l’uccisione del marito da parte della moglie non fosse neanche pensabile! Proporrei dunque di usare questa parola molto significativa. Nei nostri codici penali, dallo Zanardelli al Rocco con tutte le successive modifiche, l’uxoricidio non compare e, inaspettatamente, non c’è neanche nel diritto romano (questo mi hanno confermato i miei amici che sono davvero giuristi), ma è presente da lungo tempo “in dottrina e giurisprudenza”, che significa nei testi di diritto e nelle sentenze. Una postilla: qualcuno ha trovato sgradevole definire le donne “femmine”, come se fossero “animali”. Io penso che esista anche l’animalicidio, ma qui si aprono prospettive e discussioni amplissime che ci porterebbero fuori strada.
Passo ora al decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e commissariamento delle province (GU n.191 del 16-8-2013). Tralasciamo ovviamente la protezione civile e le province e riflettiamo sul Capo I, “Prevenzione e contrasto della violenza di genere” (l’unica cosa buona in questo DL è che non si parla di femminicidio). Già si inizia male: «il susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale che ne è derivato rendono necessari interventi urgenti volti a inasprire, per finalità dissuasive, il trattamento punitivo degli autori di tali fatti, introducendo, in determinati casi, misure di prevenzione finalizzate alla anticipata tutela delle donne e di ogni vittima di violenza domestica».
Considerazione generale: si tratta di un ennesimo DL “emergenziale”, basato su un non ben definito allarme sociale, legislazione emergenziale che va di moda in Italia almeno dagli anni '70 del secolo scorso. Una prima, importante critica: c’è un continuo, ambiguo scivolamento da violenza di genere a violenza sulle donne. In questo modo si fa una grave confusione e nello stesso tempo si classificano ufficialmente le donne come soggetti deboli, e non è una bella cosa.
Nella prima pagina, si parla esplicitamente di soggetti deboli, i “minori”, e questo sembra chiaro, si tratta di chi ha meno di 18 anni, e gli “anziani”: ma chi saranno mai gli anziani? Quelli dopo i 60 anni, come per lo sconto nei cinema? O quelli dopo i 65, come per lo sconto nelle piscine private? Oppure si intendono gli over 75, che a Milano possono usufruire – ma solo d’estate – di alcuni servizi a domicilio? E le donne che sono anche minori o anziane, saranno difese al quadrato? Non voglio fare dell’ironia, ma voglio segnalare i molti punti confusi di questo DL, a partire dalle «misure di prevenzione finalizzate alla anticipata tutela delle donne» (e che significa?) e compresa la definizione di violenza domestica dell’articolo 3: «si intendono tutti gli atti, non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o persone legate da relazione affettiva in corso o progresso, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima». Dire che si resta perplessi è poco.
Da altri punti di vista, molti considerano sbagliata e persino incostituzionale l’irrevocabilità della querela, altri fanno notare come siano troppi i poteri repressivi dati alle Forze dell’ordine, senza fornire loro gli strumenti culturali e pratici per aiutare le vittime (i famosi centri contro la violenza o i vaghi servizi sociali). C’è anche il timore dell’intrusione dello Stato in fatti personali, in complesse e anche tortuose dinamiche psicologiche che non sono competenza del diritto e tantomeno del penale.
Secondo alcuni giornali, Letta in questo modo avrebbe voluto lanciare «un grande messaggio». Questo è un modo sbagliato di intendere la legge e di legiferare. Le leggi non devono “lanciare messaggi”, anche se poi, in alcuni casi, lo fanno. Un esempio fondamentale: l’articolo 1 della legge 442 del 5 agosto 1981 ha abolito il “delitto d’onore”. Con questo ha chiaramente lanciato un messaggio, ufficializzando un importante avanzamento culturale. Ma lo ha fatto abolendo un articolo del codice penale che considerava l’onore un’attenuante, non dichiarando “il delitto d’onore è una brutta cosa”! Altra critica: nel nostro codice penale già ci sono numerose norme contro i maltrattamenti in famiglia, l’articolo 572 tratta proprio di “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”, il 571 di “abuso di mezzi di correzione e disciplina”, l’art. 575 punisce l’omicidio e il 577 aumenta la pena “se il fatto è commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta”, e l'articolo 582 punisce le lesioni personali.
Non vado avanti in un elenco che potrebbe diventare noioso (anche perché si potrebbe aggiungere pure il codice civile), ma arrivo al punto centrale: era davvero necessario questo DL? E ancora: sarà utile? Il proliferare di leggi serve davvero alla società o si tratta di proclami con discutili fini cultural-pedagogici e/o autopubblicitari? Faccio una lunga citazione da Mario Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, 1860-1990, in Storia d’Italia Einaudi, Annali 14, p. 548: «Lo Stato sociale di diritto, per eccellenza legislatore, si vale spesso del penale come suggello, come segnalatore di importanza di questo o quel passaggio della normatività organizzativa, e svolge una sua rilevantissima parte. Gli si affiancano il penale accessorio, la sterminata “selva delle contravvenzioni” additata da Giacomo Delitala, e l’immenso territorio del penale ostativo […]
A tutto questo si aggiunge, in un certo senso sovrastandolo e fecondandolo di potenzialità perverse, il fattore mediatico, fierissimo concorrente, ormai, della scienza giuridica quanto alla capacità di influire sul ceto politico» (corsivo mio) […] e a p. 549: «È anche il dominio della mitridatizzazione, per un verso, e della degenerazione della pena per l’altro.
La pena cessa di essere presa sul serio, rifugiandosi nell’unica funzione che mai, tra mille, le era stata seriamente attribuita: quella di essere sbandierata come un mero segnalatore di pericolo (corsivo mio), o quella di dare in mano a settori burocratici un mezzo di pressione per ottenere dai cittadini questo o quel comportamento, non altrimenti atteso.»[/color]
27/08/2013, 12:01
27/08/2013, 13:15
Atlanticus81 ha scritto:
E prima ci si lamenta del fatto che se si va in caserma a sporgere denuncia contro il marito violento, ubriaco o il molestatore, il persecutore, la risposta che riceviamo dai carabinieri spesso è "purtroppo non possiamo fare nulla" e poi piangiamo se ci sono andati di mezzo i bambini.
Gli articoli del codice penale proposti nell'articolo:
- 572 “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”,
- 571 “abuso di mezzi di correzione e disciplina”
- 575 punisce l’omicidio e il 577 aumenta la pena “se il fatto è commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi
- 582 punisce le lesioni personali
si applicano solo a fatto compiuto! E quante volte abbiamo detto assistendo ai fatti di cronaca o anche a casi personali: "possibile che non si poteva fare qualcosa prima?!"
Adesso che magari si può fare qualcosa PREVENTIVAMENTE, magari attraverso una verifica da parte delle forze dell'ordine della pericolosità del soggetto dietro presentazione di una querela, ci lamentiamo attraverso sofismi lessicali (femminicidio, uxoricidio, etc.etc.) o perchè sono stati dati troppi poteri e discrezionalità alle forze dell'ordine relativamente a questo difficile aspetto.
E non siamo mai contenti però!!!! Si può sapere cosa vogliamo???
27/08/2013, 13:19
mik.300 ha scritto:
passata la moda..
questa legge non la ricorderà nessuno..
27/08/2013, 14:22
Thethirdeye ha scritto:mik.300 ha scritto:
passata la moda..
questa legge non la ricorderà nessuno..
Apprendiamo con estremo stupore che... la morte di molte povere donne,
è qualcosa che riguarda solo una moda del momento... e che molto
probabilmente, stiamo solo parlando di un fenomeno che è destinato a
scomparire....
[color=blue]IL FEMMINICIDIO NON ESISTE
Quando si nota una cosa nuova, ci si inventa una parola nuova, anche quando la cosa nuova è in realtà una cosa vecchia che ha già la sua parola vecchia. Più la cosa sembra nuova, più la parola si diffonde, e a poco a poco tutti la usano: giornali, televisioni, salumifici. Se poi è una di quelle cose che indignano, infervorano o anche solo stuzzicano, la parola nuova smette di essere una semplice parola e diventa un simbolo, non più un nome che nomina una cosa, ma la manifestazione sonora di un ideale e di tutte le persone che in quell’ideale si riconoscono. Quando questo succede, pronunciare quella parola diventa rischioso, non è più come dire “matita”, “stoppino” o “autolavaggio”, cioè parole qualsiasi per cose qualsiasi, ma è come avere in bocca un popolo, il Popolo della Parola. Il semplice pronunciare la Parola ti qualifica subito come amico o nemico del Popolo: amico è chi sbandiera la Parola, nemico è chi la usa come se fosse una qualsiasi parola. Parlare diventa tifare. Dico questo perché ho l’impressione che la parola “femminicidio” sia già arrivata a questo stadio simbolico, e siccome io non voglio tifare ma solo esprimere un concetto, ci tengo a precisare che se nego l’esistenza del cosiddetto femminicidio, non voglio con questo negare anche l’ideale annesso, che anzi ritengo nobile e degno di essere perseguito ora e sempre, cioè lo sterminio di tutti i maschilisti, né voglio sbeffeggiare le persone che pensano che la società sia maschilista, categoria di persone alla quale, forse immodestamente, mi pregio di appartenere.
La parola “femminicidio” non è usata semplicemente per indicare l’assassinio di donne, cosa che esiste e che è ovvio che esista, almeno fintanto che esisteranno gli omicidi, ma l’assassinio di donne in quanto donne ad opera di maschi maschilisti, un fenomeno unanimemente considerato un’emergenza (Corriere) e che qualcuno ha addirittura paragonato all’Olocausto (Treccani). Quello che invece io sostengo è che gli uomini non uccidono le donne perché sono donne, ma perché sono persone che frequentano, e che il grande numero di donne uccise nelle relazioni di coppia non è un segno del maschilismo della società, ma un segno della congenita violenza maschile, violenza che si manifesta contro tutti e tutto: donne, uomini, animali, cose e anche contro se stessa, come dimostra il fatto che circa i tre quarti di quelli che si suicidano sono uomini (Istat). Per questo dico che il femminicidio non esiste, e che il fenomeno che questa parola vorrebbe descrivere è in realtà un fenomeno già noto: l’omicidio, una specialità in cui gli uomini prevalgono da sempre su qualsiasi altro sesso. Tutto questo può essere dimostrato.
Chiamiamo pu la probabilità che un uomo, frequentando una persona per un certo periodo di tempo, la uccida. Ovviamente ognuno ha il suo carattere e quindi ha più o meno probabilità di uccidere chi lo sorpassa senza giusta causa, chi lo contraddice col sorriso sulle labbra o chi si rifiuta di rammendargli i calzini, qui però, per semplicità, considereremo solo quantità medie supposte uguali per tutti gli uomini o, quando verrà il loro turno, per tutte le donne, indipendentemente dall’età, dall’istruzione o dalla montatura degli occhiali. Chiamiamo inoltre nu il numero di persone, uomini e donne, che un uomo frequenta nel periodo di tempo considerato, allora il numero medio di persone che ucciderà in quel periodo è punu, e il numero di omicidi commessi da tutti gli uomini di una popolazione di N abitanti è circa punuN/2, dove si è supposto che gli uomini siano circa la metà dell’intera popolazione (N). Ora, siccome la probabilità che un uomo a caso commetta un omicidio è molto bassa (pu«1), si ha che il numero di uomini assassini (au) è in prima approssimazione uguale al numero di omicidi commessi dagli uomini
au ≅ punu N/2
Analogamente si trova che il numero di donne assassine è
ad ≅ pdnd N/2
dove pd e nd sono le quantità corrispondenti a pu e nu per le donne. Vediamo adesso come scrivere il numero di vittime uomini (vu) e il numero di vittime donne (vd) nello stesso periodo di tempo.
Siccome la quantità di gente che uno frequenta è sempre molto inferiore a N, la frazione di uomini frequentati è mediamente
fu ≅ nu/(nu+nd)
e la frazione di donne è
fd ≅ nd/(nu+nd)
Un uomo frequenta nu persone, quindi funu uomini e fdnu donne, e per ogni uomo che frequenta ha una probabilità pu di essere ucciso e per ogni donna una probabilità pd. Qual è la probabilità (p’u) che sia ucciso? Poiché la probabilità che nessuno lo uccida è
1 - p’u = (1-pu)funu (1-pd)^fdnu
la probabilità che sia ucciso almeno una volta è
p’u = 1 - (1-pu)funu (1-pd)^fdnu
che con ogni probabilità è anche l’unica, essendo pu«1 e pd«1. A causa di questa piccolezza di pu e pd è anche possibile trascurare tutte le loro potenze superiori alla prima e i loro prodotti, e quindi approssimare p’u come segue
p’u ≅ pufunu + pdfdnu
Quindi il numero di vittime uomini è circa p’uN/2, cioè
vu ≅ (pufu + pdfd) nu N/2
e analogamente il numero di vittime donne è
vd ≅ (pufu + pdfd) nd N/2
Abbiamo quindi espresso il numero di assassini uomini e donne (au e ad) e il numero di vittime uomini e donne (vu e vd) in funzione di quattro parametri: violenza degli uomini (pu), violenza delle donne (pd), inserimento sociale degli uomini (nu) e inserimento sociale delle donne (nd). Definiamo ora
v = pu/pd
e
m = nu/nd
v è un indice di quanto gli uomini sono più violenti delle donne, a prescindere da quale sia l’oggetto della loro violenza. Se v è maggiore di 1, allora frequentare un uomo è più pericoloso che frequentare una donna, e più v è grande più il pericolo aumenta, e a niente può servire travestirsi da non donna. m è invece un indice di quanto gli uomini sono più inseriti nella società rispetto alle donne, cioè è un indice del maschilismo: se è maggiore di 1 la società è maschilista, se è uguale a 1 la società non è maschilista, se è minore di 1 sei nel sogno di certe femministe: una società identica a questa, ma con uomini e donne scambiati di ruolo. Date queste definizioni si può scrivere
au/ad = vm
e
vu/vd = m
In base a queste due equazioni quello che ci si aspetta in una società maschilista (m>1) e con uomini più violenti delle donne (v>1) è che gli uomini assassini siano più numerosi delle donne assassine, cosa ovvia, ma anche che gli uomini assassinati siano più numerosi delle donne assassinate, m volte più numerosi, indipendentemente da quanto gli uomini siano più o meno violenti delle donne. Può sembrare paradossale, ma in una società maschilista vengono assassinati più uomini che donne, e questo solo perché gli uomini frequentano più persone delle donne, e quindi più potenziali assassini. Così succede che più una società progredisce verso comportamenti meno maschilisti (m#8594;1) più la proporzione di donne assassinate aumenta, che è l’esatto contrario di quello che quasi tutti danno per scontato.
Se ora sostituiamo al posto di au/ad e vu/vd i valori che si ricavano dai dati sugli omicidi dal 1992 al 2006 forniti dal Ministero dell’Interno, siamo in grado di dare una stima degli indici v e m al variare del tempo. Se è vero che il femminicidio non esiste e che gli uomini uccidono le donne non perché sono maschilisti ma perché sono uomini, allora si devono trovare due cose: che v è maggiore di 1, e che il suo valore rimane costante al passare del tempo, indipendentemente da come varia m.
Ecco i dati del Ministero riguardanti le vittime
Ho riportato la tabella per intero, ma quello che qui interessa è solo la suddivisione delle vittime fra uomini e donne indicata nelle prime due righe. Dividendo le percentuali della riga “maschio” per le corrispondenti percentuali della riga “femmina”, si ottiene la stima dell’indice di maschilismo nei trienni considerati
1992-1994: 5.5 ± 0.3
1995-1997: 4.6 ± 0.3
1998-2000: 3.4 ± 0.2
2001-2003: 3.6 ± 0.2
2004-2006: 2.8 ± 0.2
Essendo l’omicidio un evento raro, gli errori nelle stime di m sono stati calcolati assumendo che il numero di vittime emerga da una distribuzione di probabilità poissoniana. Questi risultati dicono che la società italiana è maschilista, e parecchio, visto che ancora nel periodo 2004-2006 le frequentazioni di un uomo sono circa 2.8 volte di più di quelle di una donna, ma dicono anche che al passare del tempo questo maschilismo diminuisce. Lo si vede ancora meglio nella figura qui sotto
Consideriamo ora i dati riguardanti gli assassini
Dalle prime due righe della tabella è possibile ricavare v, l’indice della violenza maschile
v = (au/ad)/m
basta dividere la percentuale maschile per la percentuale femminile e per il corrispondente valore dell’indice di maschilismo in quel triennio.
1992-1994: 3.4 ± 0.5
1995-1997: 3.2 ± 0.4
1998-2000: 3.2 ± 0.4
2001-2003: 3.0 ± 0.4
2004-2006: 3.9 ± 0.5
Il risultato è che gli uomini sono molto più violenti delle donne, più del triplo, e, cosa importante, la loro violenza non varia in modo significativo al passare degli anni, cioè resta approssimativamente la stessa indipendentemente da come varia il maschilismo. Qualsiasi sia l’origine della violenza maschile (io un’idea ce l’avrei), non si può dire che abbia qualcosa a che fare col maschilismo.
Nonostante gli uomini e le donne diventino sempre meno maschilisti, gli uomini rimangono costantemente più violenti delle donne, sia gli uomini maschilisti che gli uomini non maschilisti, e la loro violenza è rivolta contro tutti, senza alcuna distinzione di sesso, etnia o credo. In questo gli uomini non fanno veramente nessuna discriminazione. Quindi bisogna concludere che il femminicidio, inteso come omicidio maschilista rivolto specificamente contro le donne, non esiste, e che frequentare un uomo è pericoloso tanto per una donna quanto per un uomo.
Però questo non significa che il maschilismo non esista. Il maschilismo esiste, solo che i suoi segni distintivi sono altri, per esempio la colonna a destra del Corriere.
Pubblicato da Smeriglia | 3.12.12
[/color]
27/08/2013, 14:49
27/08/2013, 15:10
Atlanticus81 ha scritto:
Con tutto il rispetto, ma queste sono seghe mentali statistiche che non dicono nulla.
27/08/2013, 15:12
Atlanticus81 ha scritto:
Quale è il problema? Dei numeri allineati su un grafico che mi vengono a dire che l'Uomo è una bestia?
Lo sapevamo già... e allora?!
27/08/2013, 15:29
rmnd ha scritto:Atlanticus81 ha scritto:
Quale è il problema? Dei numeri allineati su un grafico che mi vengono a dire che l'Uomo è una bestia?
Lo sapevamo già... e allora?!
no, dicono che l'uomo è tre volte più bestia di una donna ma non che le donne non lo siano a loro volta
27/08/2013, 17:43
rmnd ha scritto:Atlanticus81 ha scritto:
Con tutto il rispetto, ma queste sono seghe mentali statistiche che non dicono nulla.
dicono che la distizione tra omicidio e femminicidio è del tutto arbitraria ed ideologica. Il femminicidio come fenomeno a se stante non esiste.
27/08/2013, 18:24
mik.300 ha scritto:
se le forze dell'ordine
dovessero occuparsi dei litigi di moglie e mariti..
non basterebbero 100.000 unità..
idem x i giudici..
27/08/2013, 18:45
Così si ragiona.....fatti non pugnette!!! Il conto torna l'ho verificato....io non mi sono mai espresso su questo tema perché credo di non aver adeguate conoscenze al riguardo, ma adesso è palese che carta canta. Se si hanno abbastanza dati tramite un metodo scientifico si ottiene la verità.....altrimenti potremmo dire che la meccanica quantistica "son tutte balle finchè non ne noto gli effetti coi miei occhi". Quindi se è giusto proteggere adeguatamente le vittime femminili è altrettanto opportuno proteggere quelle maschili o quelle di qualsiasi natura. Di fatto il femminicidio esiste inteso come omicidio di soggetti umani femminili, ma non esiste quando è inteso ( è la massa è brava in questo) come omicidio prevalente su altri tipi di omicidi. Per cui a rigor di logica....perché salvare una sola categoria e non tutte? Quale parametro lo impone? E soprattutto è moralmente giusto farlo? Perché non salvare i bambini invece, che costituiscono il futuro della specie? In generale salvare solo una categoria è sbagliato, così si fa passare il messaggio che uccidere donne è sbagliatissimo (ci mancherebbe!), ma uccidere "il resto" non è più così grave...rmnd ha scritto:Thethirdeye ha scritto:mik.300 ha scritto:
passata la moda..
questa legge non la ricorderà nessuno..
Apprendiamo con estremo stupore che... la morte di molte povere donne,
è qualcosa che riguarda solo una moda del momento... e che molto
probabilmente, stiamo solo parlando di un fenomeno che è destinato a
scomparire....
ah se le leggi fossero scritte da persone dotate di senso logicoun con una formazione scientifica alle spalle e non da politicanti che nelle migliori delle ipotesi hanno una laurea in legge o in scienze politiche.
Questo è un grande"
http://incomaemeglio.blogspot.com/2012/12/il-femminicidio-non-esiste_3.html
e mo dimostrami il contrario[color=blue]IL FEMMINICIDIO NON ESISTE
Quando si nota una cosa nuova, ci si inventa una parola nuova, anche quando la cosa nuova è in realtà una cosa vecchia che ha già la sua parola vecchia. Più la cosa sembra nuova, più la parola si diffonde, e a poco a poco tutti la usano: giornali, televisioni, salumifici. Se poi è una di quelle cose che indignano, infervorano o anche solo stuzzicano, la parola nuova smette di essere una semplice parola e diventa un simbolo, non più un nome che nomina una cosa, ma la manifestazione sonora di un ideale e di tutte le persone che in quell’ideale si riconoscono. Quando questo succede, pronunciare quella parola diventa rischioso, non è più come dire “matita”, “stoppino” o “autolavaggio”, cioè parole qualsiasi per cose qualsiasi, ma è come avere in bocca un popolo, il Popolo della Parola. Il semplice pronunciare la Parola ti qualifica subito come amico o nemico del Popolo: amico è chi sbandiera la Parola, nemico è chi la usa come se fosse una qualsiasi parola. Parlare diventa tifare. Dico questo perché ho l’impressione che la parola “femminicidio” sia già arrivata a questo stadio simbolico, e siccome io non voglio tifare ma solo esprimere un concetto, ci tengo a precisare che se nego l’esistenza del cosiddetto femminicidio, non voglio con questo negare anche l’ideale annesso, che anzi ritengo nobile e degno di essere perseguito ora e sempre, cioè lo sterminio di tutti i maschilisti, né voglio sbeffeggiare le persone che pensano che la società sia maschilista, categoria di persone alla quale, forse immodestamente, mi pregio di appartenere.
La parola “femminicidio” non è usata semplicemente per indicare l’assassinio di donne, cosa che esiste e che è ovvio che esista, almeno fintanto che esisteranno gli omicidi, ma l’assassinio di donne in quanto donne ad opera di maschi maschilisti, un fenomeno unanimemente considerato un’emergenza (Corriere) e che qualcuno ha addirittura paragonato all’Olocausto (Treccani). Quello che invece io sostengo è che gli uomini non uccidono le donne perché sono donne, ma perché sono persone che frequentano, e che il grande numero di donne uccise nelle relazioni di coppia non è un segno del maschilismo della società, ma un segno della congenita violenza maschile, violenza che si manifesta contro tutti e tutto: donne, uomini, animali, cose e anche contro se stessa, come dimostra il fatto che circa i tre quarti di quelli che si suicidano sono uomini (Istat). Per questo dico che il femminicidio non esiste, e che il fenomeno che questa parola vorrebbe descrivere è in realtà un fenomeno già noto: l’omicidio, una specialità in cui gli uomini prevalgono da sempre su qualsiasi altro sesso. Tutto questo può essere dimostrato.
Chiamiamo pu la probabilità che un uomo, frequentando una persona per un certo periodo di tempo, la uccida. Ovviamente ognuno ha il suo carattere e quindi ha più o meno probabilità di uccidere chi lo sorpassa senza giusta causa, chi lo contraddice col sorriso sulle labbra o chi si rifiuta di rammendargli i calzini, qui però, per semplicità, considereremo solo quantità medie supposte uguali per tutti gli uomini o, quando verrà il loro turno, per tutte le donne, indipendentemente dall’età, dall’istruzione o dalla montatura degli occhiali. Chiamiamo inoltre nu il numero di persone, uomini e donne, che un uomo frequenta nel periodo di tempo considerato, allora il numero medio di persone che ucciderà in quel periodo è punu, e il numero di omicidi commessi da tutti gli uomini di una popolazione di N abitanti è circa punuN/2, dove si è supposto che gli uomini siano circa la metà dell’intera popolazione (N). Ora, siccome la probabilità che un uomo a caso commetta un omicidio è molto bassa (pu«1), si ha che il numero di uomini assassini (au) è in prima approssimazione uguale al numero di omicidi commessi dagli uomini
au #8773; punu N/2
Analogamente si trova che il numero di donne assassine è
ad #8773; pdnd N/2
dove pd e nd sono le quantità corrispondenti a pu e nu per le donne. Vediamo adesso come scrivere il numero di vittime uomini (vu) e il numero di vittime donne (vd) nello stesso periodo di tempo.
Siccome la quantità di gente che uno frequenta è sempre molto inferiore a N, la frazione di uomini frequentati è mediamente
fu #8773; nu/(nu+nd)
e la frazione di donne è
fd #8773; nd/(nu+nd)
Un uomo frequenta nu persone, quindi funu uomini e fdnu donne, e per ogni uomo che frequenta ha una probabilità pu di essere ucciso e per ogni donna una probabilità pd. Qual è la probabilità (p’u) che sia ucciso? Poiché la probabilità che nessuno lo uccida è
1 - p’u = (1-pu)funu (1-pd)^fdnu
la probabilità che sia ucciso almeno una volta è
p’u = 1 - (1-pu)funu (1-pd)^fdnu
che con ogni probabilità è anche l’unica, essendo pu«1 e pd«1. A causa di questa piccolezza di pu e pd è anche possibile trascurare tutte le loro potenze superiori alla prima e i loro prodotti, e quindi approssimare p’u come segue
p’u #8773; pufunu + pdfdnu
Quindi il numero di vittime uomini è circa p’uN/2, cioè
vu #8773; (pufu + pdfd) nu N/2
e analogamente il numero di vittime donne è
vd #8773; (pufu + pdfd) nd N/2
Abbiamo quindi espresso il numero di assassini uomini e donne (au e ad) e il numero di vittime uomini e donne (vu e vd) in funzione di quattro parametri: violenza degli uomini (pu), violenza delle donne (pd), inserimento sociale degli uomini (nu) e inserimento sociale delle donne (nd). Definiamo ora
v = pu/pd
e
m = nu/nd
v è un indice di quanto gli uomini sono più violenti delle donne, a prescindere da quale sia l’oggetto della loro violenza. Se v è maggiore di 1, allora frequentare un uomo è più pericoloso che frequentare una donna, e più v è grande più il pericolo aumenta, e a niente può servire travestirsi da non donna. m è invece un indice di quanto gli uomini sono più inseriti nella società rispetto alle donne, cioè è un indice del maschilismo: se è maggiore di 1 la società è maschilista, se è uguale a 1 la società non è maschilista, se è minore di 1 sei nel sogno di certe femministe: una società identica a questa, ma con uomini e donne scambiati di ruolo. Date queste definizioni si può scrivere
au/ad = vm
e
vu/vd = m
In base a queste due equazioni quello che ci si aspetta in una società maschilista (m>1) e con uomini più violenti delle donne (v>1) è che gli uomini assassini siano più numerosi delle donne assassine, cosa ovvia, ma anche che gli uomini assassinati siano più numerosi delle donne assassinate, m volte più numerosi, indipendentemente da quanto gli uomini siano più o meno violenti delle donne. Può sembrare paradossale, ma in una società maschilista vengono assassinati più uomini che donne, e questo solo perché gli uomini frequentano più persone delle donne, e quindi più potenziali assassini. Così succede che più una società progredisce verso comportamenti meno maschilisti (m#8594;1) più la proporzione di donne assassinate aumenta, che è l’esatto contrario di quello che quasi tutti danno per scontato.
Se ora sostituiamo al posto di au/ad e vu/vd i valori che si ricavano dai dati sugli omicidi dal 1992 al 2006 forniti dal Ministero dell’Interno, siamo in grado di dare una stima degli indici v e m al variare del tempo. Se è vero che il femminicidio non esiste e che gli uomini uccidono le donne non perché sono maschilisti ma perché sono uomini, allora si devono trovare due cose: che v è maggiore di 1, e che il suo valore rimane costante al passare del tempo, indipendentemente da come varia m.
Ecco i dati del Ministero riguardanti le vittime
Ho riportato la tabella per intero, ma quello che qui interessa è solo la suddivisione delle vittime fra uomini e donne indicata nelle prime due righe. Dividendo le percentuali della riga “maschio” per le corrispondenti percentuali della riga “femmina”, si ottiene la stima dell’indice di maschilismo nei trienni considerati
1992-1994: 5.5 ± 0.3
1995-1997: 4.6 ± 0.3
1998-2000: 3.4 ± 0.2
2001-2003: 3.6 ± 0.2
2004-2006: 2.8 ± 0.2
Essendo l’omicidio un evento raro, gli errori nelle stime di m sono stati calcolati assumendo che il numero di vittime emerga da una distribuzione di probabilità poissoniana. Questi risultati dicono che la società italiana è maschilista, e parecchio, visto che ancora nel periodo 2004-2006 le frequentazioni di un uomo sono circa 2.8 volte di più di quelle di una donna, ma dicono anche che al passare del tempo questo maschilismo diminuisce. Lo si vede ancora meglio nella figura qui sotto
Consideriamo ora i dati riguardanti gli assassini
Dalle prime due righe della tabella è possibile ricavare v, l’indice della violenza maschile
v = (au/ad)/m
basta dividere la percentuale maschile per la percentuale femminile e per il corrispondente valore dell’indice di maschilismo in quel triennio.
1992-1994: 3.4 ± 0.5
1995-1997: 3.2 ± 0.4
1998-2000: 3.2 ± 0.4
2001-2003: 3.0 ± 0.4
2004-2006: 3.9 ± 0.5
Il risultato è che gli uomini sono molto più violenti delle donne, più del triplo, e, cosa importante, la loro violenza non varia in modo significativo al passare degli anni, cioè resta approssimativamente la stessa indipendentemente da come varia il maschilismo. Qualsiasi sia l’origine della violenza maschile (io un’idea ce l’avrei), non si può dire che abbia qualcosa a che fare col maschilismo.
Nonostante gli uomini e le donne diventino sempre meno maschilisti, gli uomini rimangono costantemente più violenti delle donne, sia gli uomini maschilisti che gli uomini non maschilisti, e la loro violenza è rivolta contro tutti, senza alcuna distinzione di sesso, etnia o credo. In questo gli uomini non fanno veramente nessuna discriminazione. Quindi bisogna concludere che il femminicidio, inteso come omicidio maschilista rivolto specificamente contro le donne, non esiste, e che frequentare un uomo è pericoloso tanto per una donna quanto per un uomo.
Però questo non significa che il maschilismo non esista. Il maschilismo esiste, solo che i suoi segni distintivi sono altri, per esempio la colonna a destra del Corriere.
Pubblicato da Smeriglia | 3.12.12
[/color]