Uscire dall'incubo dell'Euro Alberto Montero
Alberto MonteroTradotto da 
 Giuseppe Quaresima  I - Passano i mesi, diventano anni, e la possibilità che i paesi  periferici dell’Eurozona superino questa crisi attraverso un percorso  diverso da una soluzione di rottura si allontana sempre di più  all’orizzonte. Contro quanti insistono nel sostenere che esistano soluzioni  riformiste capaci di affrontare l’attuale situazione di deterioramento  economico e sociale, la realtà si sforza di dimostrare che la  fattibilità di queste proposte richiede una condizione previa  ineludibile: la modificazione radicale della struttura istituzionale,  delle regole di funzionamento e della linea ideologica che guida il  funzionamento dell’Eurozona.
Il problema di fondo è che questo contesto risulta funzionale ed  essenziale al processo di accumulazione del gran capitale europeo; ma è  anche funzionale, ed è qualcosa che dobbiamo avere sempre presente, al  consolidamento del ruolo egemonico della Germania in Europa, e del ruolo  al quale essa aspira nel nuovo ambito geopolitico 
multipolare in  costruzione. Per questo motivo possiamo avanzare almeno due argomenti  fondamentali per rafforzare la tesi della necessità della rottura del  contesto restrittivo imposto dall’euro, se si desidera aprire il  ventaglio di possibilità a percorsi di uscita da questa crisi che  consentano una minima possibilità di emancipazione per l’insieme dei  popoli europei.

Il primo argomento è che la soluzione alla crisi imposta da parte delle 
élite dominanti  a livello europeo è, di per sé, una soluzione di rottura, attuata da  queste in nome proprio e a proprio vantaggio. Le politiche di austerità  costituiscono l’espressione più evidente del fatto che queste 
élite  si trovano in una posizione di  forza tale, rispetto al mondo del  lavoro, da potersi permettere di rompere in maniera unilaterale e  definitiva il patto implicito in base al quale si erano creati,  rafforzati e mantenuti i 
welfare state europei. Queste 
élite  sanno perfettamente che una classe lavoratrice precarizzata,  de-ideologizzata, destrutturata e che ha perso ampiamente la sua  coscienza di classe, è una classe lavoratrice indifesa, priva della  capacità di resistenza necessaria per  preservare le strutture di  benessere che la proteggevano dall’inclemenza della mercantilizzazione  dei bisogni economici e sociali essenziali. Le concessioni fatte durante  il capitalismo fordista del dopoguerra sono a rischio di eliminazione  perché, tra le altre cose, la privatizzazione del 
welfare state offre opportunità di guadagno tali da consentire il recupero della caduta del saggio di profitto.
Il secondo argomento è che non si può dimenticare, come invece sembra  si faccia, la natura acquisita dal progetto di integrazione monetaria  europea da quando venne posto in essere e da quando si cominciarono ad  attuare le dinamiche economiche da esso promosse. Il problema essenziale  è che l’eurozona è un ibrido che non evolve verso una federazione (con  tutte le conseguenze che questo avrebbe in termini di cessione di  sovranità), e si mantiene esclusivamente in un ambito di unificazione  monetaria perché questa dimensione, insieme alla libertà di movimenti di  capitali e di beni e servizi, è sufficiente per plasmare un mercato di  grandi dimensioni che permetta un maggior livello di riproduzione del  capitale, che elimini i rischi delle svalutazioni monetarie competitive  da parte degli Stati, e che faciliti la dominazione di alcuni Stati su  altri sulla base dell’apparente neutralità attribuita ai mercati.
Proprio per questo, l’Europa – e con essa la sua espressione di  “integrazione” più avanzata che è l’euro – si è trasformata in un  progetto esclusivamente economico, messo a servizio delle oligarchie  industriali e finanziarie europee, con l’aggravante che in questo  processo le oligarchie hanno cooptato la classe politica nazionale e  sovranazionale, inibendo in questo modo i meccanismi di intervento  politico in ambito economico, e restringendo i margini per qualsiasi  tipo di riforma che non torni a vantaggio delle oligarchie stesse. Di  conseguenza, questo spazio difficilmente può essere identificato e  difeso da parte delle classi popolari europee come quella “Europa dei  Cittadini” alla quale, una volta, la sinistra aveva aspirato.
 IIDi fatto, esistono una serie di elementi che spiegano perché l’euro  sia stato, nella prospettiva dei popoli europei, un progetto fallito fin  dal principio: da un lato, tanto le politiche di aggiustamento  strutturale attuate durante il processo di convergenza precedente  all’introduzione dell’euro, quanto le politiche perseguite dalla sua  entrata in vigore, hanno ridotto i tassi di crescita economica, con il  conseguente impatto sulla creazione di posti di lavoro; dall’altro,  l’assenza di una struttura fiscale di ridistribuzione del reddito e  della ricchezza o di qualsiasi meccanismo di solidarietà che realmente  risponda a questo principio ha reso difficile la riduzione dei  disequilibri delle condizioni di benessere tra i cittadini degli Stati  membri; infine, va evidenziato che le asimmetrie strutturali esistenti  tra le diverse economie a partire dal periodo iniziale del progetto sono  andate via via aumentando durante questi anni, rafforzando la struttura  centro-periferia all’interno dell’Eurozona e  consolidando la  dimensione produttiva della crisi attuale.
Se a tutto questo aggiungiamo che le politiche messe in atto per  salvare l’euro sono politiche dirette a preservare gli interessi  dell’élite economica europea contro il benessere delle classi popolari,  si riafferma l’idea di un rapido allontanamento dalla possibilità di  identificare l’Eurozona con un processo di integrazione che i popoli  europei possano riconoscere come proprio e costruito in base alle  proprie aspirazioni.
Si può concludere, quindi, che l’euro – inteso non solo come una  moneta in quanto tale, quanto come un complesso sistema istituzionale e  una dinamica funzionale messa al servizio della riproduzione ampliata  del capitale su scala europea – è la sintesi più cruda e perfetta del  capitalismo neoliberista. Un capitalismo che si sviluppa nel contesto di  un mercato unico dominato dall’imperativo categorico della  competitività, e nel quale si è prodotto un vuoto delle sovranità  nazionali – per non dire delle sovranità popolari – a tutto vantaggio di  una tecnocrazia che agisce politicamente a favore delle élite europee,  senza il benché minimo interesse alle condizioni di benessere delle  classi popolari. E se siamo d’accordo sul fatto che per queste ultime la  creazione dell’euro va intesa come un progetto fallito, la questione  che sorge irrimediabilmente è che cosa le classi popolari possano fare –  almeno quelle dei paesi periferici sopra le quali si sta esercitando  con maggiore intensità il peso delle politiche di aggiustamento  economico – di fronte ad un futuro che sembra così privo di speranza e  nel quale le opzioni di riforma in senso solidale sono di fatto bloccate  da catene sempre più strette.
La risposta a questa domanda dipende da quale concezione si ha della  crisi attuale, delle dinamiche che la mantengono attiva, e delle  prospettive di evoluzione delle relazioni politiche ed economiche  all’interno dell’Eurozona che potrebbero invertire la situazione  attuale, o, al contrario, consolidarla.
IIIA mio avviso, la crisi presenta attualmente due dimensioni  difficilmente riconciliabili e che favoriscono il consolidamento dello  status quo presente.
La prima dimensione è finanziaria e si incentra sul problema  dell’indebitamento generalizzato che, nel caso della maggior parte dei  paesi periferici, ha avuto inizio come problema di debito privato,  convertitosi in debito pubblico quando è stato riscattato dallo Stato – e  in questo modo  socializzato – il debito del sistema finanziario. I  livelli che ha raggiunto l’indebitamento, tanto privato come pubblico,  sono così elevati che è impossibile che questo debito possa essere  rimborsato completamente, e di questo bisogna essere assolutamente  coscienti, date le conseguenze pratiche. Per questo, e per il fatto che,  privati di moneta nazionale, alcuni Stati membri sperimentano tassi di  crescita del debito molto superiori a quelli del Pil, il peso del debito  si fa insostenibile e si trasforma in una bomba ad orologeria che prima  o poi scoppierà senza possibilità di soluzione.
La seconda dimensione è reale e si concretizza nelle differenze di  competitività tra le economie centrali e le economie periferiche. Queste  differenze sono, con vari altri fattori, all’origine della crisi, e il  problema di fondo è che non solo non si stanno riducendo, ma addirittura  si stanno ampliando. Inoltre, l’interpretazione della riduzione degli  squilibri esterni delle economie periferiche all’interno dell’Eurozona  come un sintomo del fatto che siamo in una fase di transizione verso il  superamento della crisi è chiaramente distorta, perché non considera in  maniera adeguata la tremenda ripercussione del periodo di stagnazione  economica sulle importazioni.
Il legame tra entrambe le dimensioni della crisi è assicurato dalla  posizione dominante raggiunta dai paesi centrali rispetto a quelli  periferici e, concretamente, dalla posizione raggiunta dalla Germania  nello spazio dell’Eurozona, rilevante non solo per il suo peso  economico, ma anche per il suo controllo politico delle dinamiche di  riconfigurazione dell’Eurozona, sviluppate col pretesto di essere le  soluzioni  della crisi, ma che agiscono, di fatto, per rafforzare  l’egemonia tedesca.
Se a questo aggiungiamo le peculiarità della sua struttura,  caratterizzata dalla debolezza cronica della sua domanda interna – e,  per questo, dall’esistenza ricorrente di un eccesso di risparmio  nazionale – e la potenza della domanda estera dei suoi beni – che è alla  base dei suoi continui surplus commerciali – avremo la prova del fatto  che quello che sembrava essere un circolo virtuoso di crescita per tutta  l’Eurozona ha finito per convertirsi in un giogo per le economie  periferiche, sbocco privilegiato dei flussi finanziari attraverso i  quali la Germania metteva a frutto l’eccesso di risparmio interno e il  surplus commerciale, riciclandoli sotto forma di debito estero collocato  nella periferia.
In questo modo,  la Germania ha riconvertito la sua posizione  creditoria in una posizione di dominazione quasi egemonica che le  permette di imporre le politiche necessarie ai suoi interessi. Questo  implica, in pratica, che qualsiasi soluzione di natura cooperativa per  risolvere la crisi è automaticamente rifiutata mentre si rafforzano, al  contrario, le soluzioni di natura competitiva tra economie le cui  diseguaglianze in termini di competitività già si sono dimostrate  insostenibili in un contesto così dissimile e asimmetrico come è quello  dell’Eurozona.
E così è tanto tragico quanto sconsolante assistere  all’accondiscendenza con la quale i governi dell’Eurozona periferica  assumono e applicano politiche che stanno aggravando le differenze  strutturali preesistenti e che, per questo, non fanno altro che  accentuare le differenze in termini  produttivi e di benessere tra il  centro e la periferia, senza che possa essere intravista nessuna  possibilità di soluzione: i processi di deflazione interna non solo  comprimono il potere d’acquisto ma aumentano il peso reale del debito a  livello interno, sia di quello privato (a causa della deflazione  salariale), sia di quello pubblico (a causa del differenziale tra i  tassi di crescita del Pil e del debito pubblico), con l’aggravante che  qualsiasi apprezzamento del tasso di cambio dell’euro si traduce in  un’erosione dei benefici di competitività spuri conseguiti attraverso la  deflazione salariale. Si tratta, proprio per questo, di un cammino  verso l’abisso del sottosviluppo.
È proprio per questo che, se non si producono cambiamenti strutturali  radicali (che passano tutti per meccanismi di trasferimento fiscale in  chiave redistributiva), l’Eurozona si consoliderà come uno spazio  asimmetrico di accumulazione di capitali, nel quale le economie  periferiche si vedranno condannate a districarsi in una soluzione di  equilibrio senza crescita – utilizzando  un eufemismo economicistico –  o, nel peggiore dei casi, l’Eurozona stessa finirà per saltare  totalmente o parzialmente in aria.
Il problema è che queste riforme radicali non solo non sono  all’ordine del giorno nell’agenda europea, ma sono anche  sistematicamente bloccate dal veto della Germania. Di fatto, credo sia  facilmente constatabile come in questi momenti, in seno all’Eurozona,  esistano tensioni tra gli interessi delle élite economiche e finanziarie  europee e quelli delle classi popolari dell’insieme dell’Eurozona, più  marcate rispetto alle classi popolari degli Stati periferici; tra gli  interessi della Germania e di altri Stati del centro e quelli degli  Stati della periferia; e tra le proposte di soluzione della crisi  imposta da dette élite e Stati e la logica economica più elementare,  quella che resta espressa nelle principali identità macroeconomiche che  riassumono le interrelazioni tra i saldi dei settori privato, pubblico e  estero di un’economia. Tutte queste tensioni, debitamente gestite da  coloro che detengono il potere nei differenti ambiti in cui esso si  esprime, sono funzionali al consolidamento di un’Eurozona asimmetrica  (con il significato già segnalato) e dominata dalla Germania.
 IVQueste tensioni, per concludere, riducono enormemente la possibilità  di un’uscita dalla crisi, guidata dalle classi popolari, che non sia di  rottura, così come è stato evidenziato all’inizio di questo testo. Il  problema politico che si presenta appare evidente quando si consideri  che gli unici che stanno immaginando questa possibilità di rottura  unilaterale (di uscita dall’euro, per l’appunto) sono i partiti  nazionalisti di estrema destra, che si appropriano così di un crescente  sentimento di insoddisfazione popolare nei confronti dell’euro stesso,  rispetto a una sinistra che continua ad invocare l’opzione di riforme  che si scontrano direttamente con gli interessi di coloro che hanno  posto a proprio servizio le potenzialità di dominio imperiale attraverso  l’economia facilitate dall’euro. Da questo punto di vista, sarebbe  opportuno smettere di visualizzare l’Euro semplicemente come una moneta,  per arrivare ad assimilarlo concettualmente ad un’arma di distruzione  di massa che sta distruggendo non solo il benessere dei popoli europei,  ma anche quel sentimento europeista basato sulla fratellanza tra questi  popoli che fu costruito con tanto sforzo.
Il problema di credibilità diventa ancora più grave per la sinistra  quando, per promuovere le riforme necessarie, si appella all’attivazione  di un soggetto, la “classe lavoratrice europea”, che agisca come  avanguardia nella trasformazione della natura stessa dell’Eurozona. Il  problema è che mai come ora la condizione della classe lavoratrice in  Europa si è trovata così deteriorata quanto a coscienza e identità di  classe, senza dover aggiungere che quanto detto non mina in nessun caso  l’evidenza che la relazione salariale continua ad essere la pietra  angolare del sistema capitalistico. Come scriveva recentemente Ulrich  Beck, viviamo la tragedia di trovarci in momenti rivoluzionari senza  rivoluzione e senza soggetto rivoluzionario. Non c’è nulla.
Ciò nonostante, l’orizzonte sarebbe più chiaro se la sinistra fosse  capace di dare una risposta credibile ad una questione che si rifiuta di  considerare e che, tuttavia, può manifestarsi prima o poi nello  scenario europeo e, concretamente, in Grecia: cosa potrebbe fare un  governo di sinistra che raggiungesse il potere in un unico paese della  periferia? Dovrebbe sperare che nel resto dell’Eurozona si  manifestassero le condizioni obiettive per procedere alla sua riforma,  essendo cosciente che questo esige il voto unanime dei 27 Stati? O  dovrebbe approfittare del ventaglio di opportunità che la storia le ha  permesso di aprire e promuovere l’uscita del proprio paese dall’euro?
Come è ovvio dare una risposta a tale domanda non è facile: tuttavia,  eluderla non ha alcun senso. Per questo è necessario riconoscere – per  iniziare – che nel contesto dell’euro non c’è nessun margine per  politiche realmente trasformatrici che possano agire a vantaggio delle  classi popolari. Anzi, oserei affermare che in questo contesto non c’è  nessun margine per la politica, perché la politica è stata sequestrata  dal sistema istituzionale sviluppato per fornire una patente di  legittimità a una moneta dietro la quale manca qualsiasi progetto di  costruzione di una comunità politica che integri i popoli d’Europa.  Risulta, quindi, un controsenso reclamare processi costituenti, quando  la condizione preliminare affinché processi simili possano realizzarsi  pienamente è la rottura con il contesto istituzionale, politico,  economico e legale imposto dell’euro. Una comunità può rifondarsi   attraverso un processo costituente solo se lo fa senza vincoli  preliminari nelle condizioni di partenza, vincoli imposti da fuori e che  operano danneggiando gli interessi delle stesse classi popolari che  reclamano questo processo costituente.
Per dirlo in altri termini, la rottura con l’euro non è condizione  sufficiente ma necessaria  per qualsiasi progetto di trasformazione  sociale emancipatrice al quale la sinistra possa aspirare. Per questo,  rivendicare la rivoluzione in astratto e, contemporaneamente, cercare di  preservare la moneta unica e le istituzioni e le politiche che le sono  consustanziali in questa Europa del Capitale, fino a quando si diano le  condizioni europee per la loro riforma, costituisce una contraddizione  in termini, priva di credibilità agli occhi di quelle classi popolari  che sembrano aver identificato il nemico con maggiore chiarezza dei  dirigenti della sinistra stessa.
È proprio per questo che fino a quando questa contraddizione non  verrà compresa e superata, e i discorsi politici ed economici diventino  entrambi di rottura e vadano in parallelo; fino a quando l’uscita  dall’euro non sia percepita solo come un problema, ma anche come una  parte della soluzione alla situazione di dipendenza delle economie  periferiche, che offra loro la possibilità di ristrutturarsi e trovare  il proprio percorso di sviluppo nella produzione e nell’elargizione di  benessere in una forma più auto-centrata e meno dipendente dalle  relazioni con l’economia mondiale; fino a quando non smetterà di   incatenarci la paura di rompere le catene dell’euro, per la mancanza di  certezze assolute su come potrebbe essere la nostra vita futura fuori  dall’euro stesso (la stessa paura che ha incatenato coloro che negavano  la possibilità di rompere con il gold standard dopo la grande  depressione degli anni Trenta del secolo scorso); fino a quando tutto  questo non accadrà,  mi resta solo da pronosticare, ahimè, un lungo  periodo di sofferenza sociale e economica per i popoli e i lavoratori  della periferia europea.
[align=right]Source: 
TLAXCALA: Uscire dall'incubo dell'Euro [/align]