24/04/2014, 19:51
17/05/2014, 01:13
Dieci verità contro la retorica del declino italiano
Italia grande malata? Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison raccontano una storia diversa
Lo scrittore e poeta scozzese Andrew Lang sosteneva che le statistiche siano sovente usate come un ubriaco usa i lampioni: per sostenersi e non per esserne illuminati. Forse ha ragione, e forse noi italiani, in questi anni di crisi, siamo un po’ come degli ubriachi di ottimismo che hanno bisogno di appigli per evitare di cadere a terra e farsi prendere dallo sconforto. D’altra parte se il Washington Post, il Financial Times e tutte le agenzie di rating internazionali dicono che sei il «grande malato d’Europa» come fai a non credergli?
Eppure, ci sono dati che raccontano storie diverse. Dati come quelli presentati ieri da Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison nel loro evento intitolato, non a caso, “10 verità sulla competitività italiana”. Secondo loro, tanto per dirne quattro, l’Italia in questi anni di crisi ha fatto i compiti a casa, ha guadagnato posizioni nei mercati internazionali, ha uno dei debiti più sostenibili del mondo, o perlomeno dell’Europa, e soprattutto, ha una classe imprenditoriale tra le più competitive al mondo. Destinatari della missiva, non a caso, i giornalisti della stampa estera, nella cui «casa» si è tenuto l’evento. Ubriachi noi o distratti (se non peggio) loro? Giudicate voi.
La prima verità: esportiamo tanto
La prima verità è già di per sé un bel biglietto da visita. Nel 2012, nonostante cinque anni spaventosi, l’Italia era – ed è tuttora - uno dei cinque Paesi al mondo che vantava un surplus commerciale di prodotti manifatturieri superiori ai cento miliardi di dollari. Per dire, non lo sono né la Francia, né il Regno Unito, né tantomeno gli Stati Uniti d’America, Paesi che da tempo hanno abdicato la loro vocazione manifatturiera (salvo poi pentirsene, soprattutto dalle parti di Washington). Non solo: tra i Paesi della cinquina di testa, l’Italia rappresenta una singolare eccezione, non annoverando realtà come Volkswagen, Toyota o Samsung in grado da sole di trainare una fetta consistente di esportazioni manifatturiere verso l’estero. In altre parole, abbiamo una ricetta originale per stare dove siamo. Ricetta dei cui ingredienti dice molto la seconda verità.
La seconda verità: sappiamo fare tutto
In una parola: specializzazione. Nessun Paese al mondo, infatti, può vantare ben 935 differenti specializzazioni (su circa cinquemila complessive) in cui il surplus commerciale è tra i primi tre al mondo. Non è roba da poco: vuol dire essere l’eccellenza assoluta in poco meno del 20% tra tutti i settori economici presenti nell’economia globale. Merito, questo, dell’iperspecializzazione delle nostre imprese. Frutto, a sua volta, della nostra peculiare – e spesso inguistamente vituperata – struttura capitalistica, fatta di realtà medie, piccole e microbiche capaci di produrre saperi specialistici che non hanno uguali al mondo e di contaminarli vicendevolmente. Una biodiversità, questa, che fa del nostro Paese, peraltro, anche uno di quelli che sono in grado di cambiare pelle più velocemente al mutare delle condizioni di mercato, ricombinando saperi, specializzazioni e inventando cose nuove.
La terza verità: le tigri crescono l’Italia tiene
I più scettici, di fronte all’ultima affermazione, avranno storto il naso di fronte alle saracinesche abbassate, ai numeri vertiginosi della cassa integrazione in deroga, all’impennarsi della disoccupazione, soprattutto di quella giovanile: «Aggrappatevi a tutto – avranno pensato – ma non raccontateci storie». Cari i miei scettici, avete ragione, ma non su tutto: l’Italia, dal 1999 al 2012 è uno dei Paesi industrializzati che ha tenuto meglio sul mercato manifatturiero mondiale. Più precisamente, nonostante l’emergere di Cina, Russia, India, Brasile e tigrotti vari, è riuscita a tenersi stretta il 71% della sua quota di export, laddove il Giappone si è sceso al 67%, la Francia al 61%, il Regno Unito al 55 per cento. A sopravanzarci, c’è solo la Germania. Che tiene meglio di chiunque altro grazie alla forza della sua manifattura, certo, ma anche grazie alla sua forza politica nel imporre all’Unione Europea politiche di austerità, i cui effetti non collaterali sono la crescita della competitività estera e il crollo della domanda interna.
La quarta verità: la domanda interna è il problema
Non me ne vorranno gli amici di Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison se cambio l’ordine delle «verità», ma è qui che casca l’asino tricolore. La nostra crisi è infatti figlia, come già si era scritto in altre occasioni, di politiche che hanno depresso oltre ogni misura la nostra domanda interna. Rimanendo in ambito manifatturiero, il confronto con Germania e Francia è impietoso. Tra il 2008 e il 2013 il nostro fatturato estero è cresciuto di quasi cinque punti percentuali più di quello tedesco e di oltre dieci rispetto a quello francese. Tuttavia, la domanda interna francese e tedesca, come si può chiaramente evincere dal grafico, hanno retto molto meglio della nostra l’urto della crisi.
La quinta verità: il debito pubblico si è messo a dieta
Come mai? La risposta è tanto scontata da essere ovvia. L’Italia sconta il peso del pachiderma seduto nel suo soggiorno, altrimenti detto debito pubblico. Un debito che oggi rappresenta una tale fonte di instabilità finanziaria – la tempesta perfetta di agosto 2011 ne è la prova più lampante – da condizionare ogni potenziale investimento pubblico o privato e da fare di noi la santabarbara del Vecchio Continente. Vero? In parte. O meglio: in fotografia, il debito pubblico italiano è talmente voluminoso da fare impressione. Tuttavia, nel 1995 rappresentava il 28,7% del debito pubblico complessivo dell’Unione Europea, nel 2007 era sceso al 26,8% e nel 2013 è arrivato addirittura al 22,1 per cento. Delle due, una: o noi siamo dimagriti o gli altri sono ingrassati.
La sesta verità: non chiamateci Pigs
«La seconda che hai detto», risponderebbe Quelo, il mitico santone in accappatoio bianco interpretato da Corrado Guzzanti. Tra il 1995 e il 2012 il debito aggregato (pubblico e privato) è cresciuto, in percentuale al Pil, del 24% in Germania, dell’81% in Francia, del 93% nel Regno Unito, del 141% in Spagna e addirittura del 147% in Grecia. L’Italia - sorprendentemente, ma non troppo, ormai - ha avuto un andamento più teutonico che da Paese Pigs: il nostro debito è infatti cresciuto di «soli» 61 punti percentuali.
La settima verità: un avanzo da record
Buona parte del merito di questo risultato è senza dubbio da attribuire alla relativa (e storica) esiguità del debito privato italiano, rispetto soprattutto a quelli anglosassoni e a quello spagnolo post bolla immobiliare. Tuttavia non è solo con noi stessi, micragnosi risparmiatori avversi al rischio, che dobbiamo complimentarci. Tra il 1996 e il 2013, infatti, l’Italia ha realizzato un avanzo di bilancio che, cumulato di anno in anno, arriva a 591 miliardi di euro, laddove Francia e Inghilterra hanno invece realizzato, nel medesimo periodo di tempo, un disavanzo cumulato rispettivamente di 311 e 364 miliardi di euro. Tradotto per chi non ha alle spalle un esame di scienza delle finanze all’università: noi abbiamo sforbiciato - e parecchio - la nostra spesa pubblica, ben prima del fiscal compact e delle lettere minacciose della trojka. Nello stesso periodo di tempo, al contrario, francesi e inglesi hanno allargato i cordoni della borsa.
L’ottava verità: grande malato a chi?
Sommate il debito pubblico che cala e il debito privato che cresce meno che altrove e otterrete l’ottava verità: un debito aggregato che, in percentuale al Pil, pesa il 261%. Più di quello tedesco (195%), poco più di quello francese (255%), ma meno di quello americano, inglese, spagnolo, giapponese. Tradotto: se il problema dei problemi fosse il debito, la Spagna ha la polmonite, mentre l’Italia un brutto raffreddore. Però, vai a capire perché, il grande malato siamo noi.
La nona verità: l’erba del vicino è sempre meno verde
Dalla sostenibilità finanziaria a quella ambientale il passo è più breve di quel che sembra. Anche perché, pure in quest’ambito, l’Italia è in qualche modo vittima di una mistificazione o, perlomeno, di una scarsa capacità di comunicare l’innovazione. Prendete la Germania, il Paese delle case in legno, delle pale eoliche, di El Dorado dell’ecosostenibilità come Friburgo, delle pale eoliche nel Baltico. Ecco: quella Germania lì, la stessa, immette in atmosfera 143 tonnellate di anidride carbonica e 65 tonnellate di rifiuti ogni milione di euro prodotto dalla sua economia. L’Italia, quella dell’Ilva di Taranto e della «Terra dei fuochi», 104 e 41. Non solo: dei 163 milioni di tonnellate di rifiuti recuperati su scala europea, l’Italia ne ha recuperati 24,1 milioni di tonnellate, il valore assoluto più elevato tra tutti i Paesi europei.
La decima verità: nonostante tutto
Chiudiamo con l’ultima verità, la decima. Con 54 milioni di pernottamenti l’anno, siamo la meta preferita dei turisti extraeuropei, soprattutto per i giapponesi, gli australiani, gli statunitensi e i canadesi. E forse, in questo senso, la verità è che la distanza con gli altri Paesi è troppo poco marcata e che gran parte delle potenzialità paesaggistiche, storiche, culturali, gastronomiche sono ancora inespresse o scarsamente valorizzate e le infrastrutture - dagli aeroporti alle strade sino alle strutture ricettive - quantomeno migliorabili. A ben vedere, è proprio quest’ultima verità a dare il senso del lavoro di Symbola, Unioncamere e Fondazione Edisono: nonostante tutto, siamo ancora qui e siamo ancora competitivi, sembrano urlare tutte e dieci le loro verità.
17/05/2014, 02:50
17/05/2014, 13:01
MaxpoweR ha scritto:
abbiamo bisogno di gente che si senta italiana ed abbia in se un sano spirito nazionalistico. Ormai il nazionalismo viene considerato un insulto ma è ciò che tiene legate le persone al proprio paese e gli impedisce di far qualcosa contro gli interessi del paese stesso. Quanti anni sono che non siam governati da gente così?
17/05/2014, 13:17
17/05/2014, 18:09
MaxpoweR ha scritto:
si ho sentito l'intervento ma bisognerà vedere come si comporteranno quando e se avranno loro le redini in manoParlare senza avere di fatto alcuna responsabilità diretta è facile.
17/05/2014, 20:28
23/05/2014, 09:25
04/08/2014, 09:10
09/11/2014, 14:08
06/01/2015, 12:21
Atlanticus81 ha scritto:
IL DECLINO (INEVITABILE?) DELLA COLONIA ITALIA
Non fu certo nell’incontro tra membri della classe dirigente italiana ed esponenti della finanza anglosassone a bordo del panfilo Britannia, il 2 giugno 1992, che si decisero le sorti del nostro Paese, benché non si debba sottovalutare il significato politico di quel gentlemen’s agreement, che è diventato simbolo della politica antinazionale che da allora avrebbe caratterizzato la storia del nostro Paese.
Peraltro, fu proprio nel 1992 che si sarebbero create le condizioni per dare l’Italia in pasto ai pescecani della finanza internazionale, sacrificando, per così dire, l’interesse nazionale sull’altare della “geopolitica occidentale”. Nonostante ciò, la gioiosa macchina da guerra che avrebbe fatto a pezzi l’Italia si era già messa in moto perlomeno dal 1981, ossia allorquando c’era stato il divorzio tra il Tesoro e Bankitalia.
Un divorzio che costrinse lo Stato italiano a finanziarsi sul mercato a tassi d’interesse salatissimi, tanto che il debito pubblico, che nel 1982 era il 64% del Pil, nel 1992 era diventato il 105,2% del Pil (1).
Scrive Domenico Moro: «Nel 1984 l’Italia spendeva – al netto degli interessi sul debito – il 42,1% del Pil, che nel 1994 era aumentato appena al 42,9%. Nello stesso periodo la media Ue (esclusa l’Italia) passò dal 45,5% al 46,6% e quella dell’eurozona passò dal 46,7% al 47,7%. Da dove derivava allora la maggiore crescita del debito italiano?
Dalla spesa per interessi sul debito pubblico, che fu sempre molto più alta di quella degli altri Paesi. La spesa per interessi crebbe in Italia dall’8% del Pil nel 1984 all’11,4%, livello di gran lunga maggiore del resto d’Europa. Sempre nello stesso periodo la media Ue passò dal 4,1% al 4,4% e quella dell’eurozona dal 3,5% al 4,4%» (2).
Ma gli anni Ottanta del secolo scorso furono pure gli anni che videro i vertici del Pci condurre il “popolo comunista” verso l’altra sponda dell’Atlantico. Una traversata lunga e difficile, anche perché vi era il rischio per i “vertici rossi” di arrivare con un numero esiguo di passeggeri, anziché con un esercito pronto a combattere “al soldo” della Casa Bianca.
A tale proposito, è interessante ricordare quanto ebbe a dichiarare nel 2008 al “Corsera” il generale Jean riguardo alla presa di posizione del Pci contro l’installazione dei missili Cruise a Comiso, avvenuta nel 1985, anche se i lavori nella base siciliana erano cominciati due anni prima (lavori di cui il generale Jean era ben informato dato che all’epoca dirigeva il reparto del ministero della Difesa che controllava le infrastrutture della Nato in Italia).
Jean ricordò ai lettori del “Corsera” che il Pci sui missili Cruise non aveva fatto “marcia indietro” rispetto alla celebre affermazione di Enrico Berlinguer, secondo cui si era più sicuri sotto l’ombrello della Nato anziché sotto quello del Patto di Varsavia, dato che, come precisò Jean, «il Pci fu sostanzialmente d’accordo, non poteva dichiararlo apertamente, la sua base non avrebbe capito, ma non creò problemi eccessivi» (3).
Nondimeno, non si deve neppure trascurare che il Psi di Craxi intralciò non poco i piani del Pci, di modo che, quando cadde il Muro di Berlino, i “vertici rossi” erano ancora alla prese con la questione del nome da dare alla “nuova cosa” che avevano in mente da parecchi anni. Un ritardo che avrebbe potuto costare assai caro ai dirigenti di quello che si definiva ancora il più forte partito comunista occidentale.
Una volta crollato il Muro, il 9 novembre del 1989, però di tempo il Pci non ne perse più e solo tre giorni dopo ci fu la famosa “svolta della Bolognina”, che nel febbraio del 1991 portò allo scioglimento del “vecchio e glorioso” partito comunista italiano e alla nascita del Partito democratico della sinistra.
Qualche pezzo gli ex compagni lo persero, ma fu “roba” di poco conto. Sotto questo aspetto, fu davvero decisivo il lavoro di “MicroMega”, “L’Espresso “e “la Repubblica”, di fatto «i principali strumenti della rieducazione “liberalprogressista” e “antinazionalpopolare” del popolo comunista» (4).
D’altra parte, il Pci già negli anni Ottanta, più che il partito delle tute blu, era diventato il partito del ceto medio semicolto, formato in buona misura da colletti bianchi “nullafacenti”, da insegnanti senza nulla da insegnare e da “parassiti” vari, decisi a risolvere una volta per tutte la “questione morale” che affligge l’Italia da tempo immemorabile, benché in verità anch’essi “nati e cresciuti” nel ventre marcio della partitocrazia e indubbiamente non meno abili nell’appropriarsi del denaro pubblico dei tanto da loro detestati “ladri” socialisti e democristiani.
Non fu però ovviamente la “svolta della Bolognina” ad inaugurare il “nuovo corso storico” dell’Italia, bensì l’“intreccio” fra le vicende nazionali e i mutamenti degli equilibri internazionali successivi al crollo dell’Unione Sovietica. Gli eventi del 1992 non lasciano molti dubbi al riguardo. Nel mese di febbraio si firmarono gli accordi di Maastricht (entrati in vigore l’anno successivo).
Dei tre negoziatori italiani (Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, Gianni De Michelis, ministro degli Esteri, e Guido Carli, ministro del Tesoro) forse solo Carli si rese conto appieno delle conseguenze di questo trattato per la nostra economia, cogliendo pure i potenziali aspetti antiamericani della moneta unica europea, che allora sembrava destinata a porsi come alternativa al dollaro.
Non a caso, Carli scrisse: «Gli Stati Uniti hanno esercitato lungamente un diritto di “signoraggio” monetario sul resto del mondo [ragion per cui] negli Stati Uniti […] gli economisti sono scesi in campo per difendere gli interesse della comunità finanziaria americana nel tentativo di delegittimare il progetto di Unione Europea dal punto di vista teorico. La realizzazione del trattato di Maastricht significherebbe la sottrazione agli Stati Uniti di quasi metà del potere di signoraggio di cui dispongono» (5).
Lo stesso Mario Monti allora mise in evidenza che gli accordi di Maastricht comportavano non solo il risanamento della finanza pubblica, ma pure che “rivoltavano come un guanto” il modello di governo dell’economia italiana (6). Comunque, le conseguenze del trattato di Maastricht si capirono soltanto negli anni seguenti, quando sarebbe stato troppo tardi per porvi rimedio e non furono certo quelle previste da Carli.
Infatti, non furono solo gli economisti americani a scendere in campo per difendere gli interessi degli Usa. E i “circoli atlantisti” seppero lavorare così bene che l’euro si sarebbe rivelato ben altro che una moneta in grado di competere con il dollaro (7).
Ma, se i politici italiani non afferrarono immediatamente le possibili implicazioni del trattato di Maastricht né capirono quali “contromisure” i “circoli atlantisti” avrebbero preso, lo si deve pure al fatto che proprio nello stesso mese di febbraio di quell’anno ormai lontano veniva arrestato a Milano un “mariuolo”, ossia Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio ed esponente del Psi milanese. Era cominciata l’operazione “Mani Pulite”.
Il pool di “Mani Pulite”, come si sa, concentrò tutta la sua “potenza di fuoco” solo contro una parte della “vecchia classe politica”, tanto che si sarebbe “sbarazzato” di Tiziana Parenti, che voleva invece “andare a fondo” pure sulla questione delle “tangenti rosse” al Pci/Pds e alla quale non era nemmeno sfuggito che l’input dell’inchiesta su “Tangentopoli” aveva “radici americane” (8).
D’altronde, i giornali italiani – volgari portavoce degli interessi di quella che Gianfranco La Grassa definisce la Id&Gf (cioè “Industria decotta e Grande finanza), subalterna agli interessi d’oltreoceano fin da quando (nel 1942) Enrico Cuccia si era recato a Lisbona per trattare la resa del grande capitale privato italiano agli angloamericani, e garantire così alla famiglia Agnelli e ai suoi “compagni di merende” un “buon posto a tavola” una volta finita la guerra – facevano credere ai “semplici” che fosse in corso addirittura una sorta di “moto rivoluzionario”.
Sicché, quando la politica cercò (con il “decreto Conso” del marzo 1993) di porre un freno ad una operazione giudiziaria che stava “liquidando” le uniche forze politiche che (pur corrotte quanto si vuole) erano contrarie a mettere il nostro Paese nelle mani dei “mercati”, i gazzettieri gridarono allo scandalo, il pool di “Mani Pulite” si ribellò e Luigi Scalfaro cestinò il “decreto Conso” ritenendolo incostituzionale. Ma l’Italia allora era già stata messa in ginocchio dalla finanza internazionale.
Com’è noto, poco dopo l’incontro a bordo del Britannia, ossia nella notte tra il 9 eil 10 luglio del 1992, Giuliano Amato penetrò come Diabolik nei forzieri delle banche italiane e prelevò il 6 per 1.000 da ogni deposito.
La manovra di luglio e una finanziaria “lacrime e sangue” di oltre 90.000 miliardi si giustificarono con la gravissima situazione del Paese, che rischiava di non riuscire a piazzare sul mercato i titoli di Stato, adesso che Bankitalia non era più obbligata ad acquistarli. Tanto è vero che il breve governo Amato va ricordato anche per le vicende che videro come protagonista la “vecchia lira”, dacché la nostra moneta, dall’estate all’autunno del 1992, fu oggetto di un durissimo attacco da parte di Soros, il famoso “filantropo” e sostenitore di rivoluzioni colorate in varie parti del mondo” (Ucraina compresa).
Azeglio Ciampi, allora governatore di Bankitalia, decise di difendere la lira bruciando circa 48 miliardi di dollari, ovverosia dissipando le nostre riserve valutarie senza ottenere alcun risultato. Tale ostinata e inutile difesa della lira fu motivata affermando che, se si svalutava, il Paese sarebbe andato in rovina. A settembre però Amato dovette gettare la spugna e annunciò la svalutazione della lira. Un anno dopo avrebbe dichiarato: «La svalutazione ci ha fatto bene» (9). Le esportazioni tiravano e il peggio pareva passato. Tutto bene allora? Certamente no.
Invero, la tempesta giudiziaria e quella finanziaria spazzarono via ogni ostacolo alla (s)vendita del nostro patrimonio pubblico (comprare “merce” italiana, adesso che le lirette erano svalutate, non era un problema per il grande capitale straniero).
In ogni caso, anche Berlusconi, “sceso in campo” per difendere le proprie aziende dall’attacco da parte del Pds (che volle “strafare” offrendo la testa del “cavaliere nero” alla Id&Gf e così si “giocò” la vittoria nelle elezioni politiche del 1994), si guardò bene dal cercare di cambiare questo “stato delle cose”, quando tornò al potere nel giugno del 2001, dopo la sua prima “non esaltante” esperienza di governo (dal maggio 1994 al gennaio del 1995).
Le cifre parlano chiaro: dal 1992 al 1995 le privatizzazioni fruttarono allo Stato italiano poco meno di 17.000 miliardi di lire; dal 1996 al 2000 si raggiunse la cifra di 79.209,95 miliardi di lire, mentre dal 2000 al 2005 lo Stato incassò dalla vendita delle nostre aziende pubbliche circa 50.000 miliardi di lire (10). Ma gran parte di questo “tesoretto” andò ad arricchire quella rendita finanziaria per la quale da diversi lustri non pochi italiani lavorano, senza che ancora se ne siano pienamente resi conto. D’altra parte, lo spettacolo offerto dal “teatrino della politica” non poteva non “distrarre” il Paese, al punto che tutto il resto pareva non contasse più nulla.
Non solo passarono così “in secondo piano” il gigantesco terremoto geopolitico causato dalla scomparsa dell’Unione Sovietica e le conseguenze del cosiddetto Anschluss, ossia l’annessione della Germania Est da parte della Germania federale (annessione che avrebbe portato alla quasi completa deindustrializzazione dell’ex Germania Est e alla perdita di milioni di posti lavoro – non certo un buon segno per la futura “unione” europea) (11), ma non venne preso nemmeno in considerazione il fatto che si stava mettendo “in liquidazione” quel modello di economia mista che dopo la Seconda guerra mondiale aveva consentito ad un Paese a sovranità limitata come l’Italia di diventare un Paese industriale avanzato, garantendo “bene o male” benessere e sviluppo ad alcune generazioni di italiani.
In pratica, ci si limitò a privatizzare, senza varare alcun “piano industriale”, senza preoccuparsi di ridefinire gli obiettivi strategici della nazione, stravolgendo addirittura il sistema educativo per adeguarlo ai “modelli internazionali” (una scelta i cui effetti nefasti, in verità non solo per l’Italia, si cominciano a vedere solo adesso). In questo contesto, venne pure “internazionalizzato” il debito pubblico.
E ciò, si badi, proprio quando gli Usa, ormai unica superpotenza, si lanciavano alla conquista dell’intero pianeta, rimuovendo ogni ostacolo al “libero” movimento dei capitali, lasciandosi definitivamente alle spalle gli accordi di Bretton Woods e autorizzando qualunque crimine finanziario, purché funzionale al successo della nuova strategia statunitense.
Inutile dire che anche l’introduzione dell’euro non venne affrontata con la necessaria maturità politica e il senso di responsabilità che un tale passo richiedeva. Sotto questo profilo, si distinsero in particolare gli intellettuali per i quali contava solo “entrare in Europa”, quasi che l’Italia fosse un Paese africano. Non si tenne nemmeno conto che il Paese si teneva il proprio debito ma al tempo stesso cedeva la propria sovranità monetaria, non all’Europa, che politicamente non esisteva, ma ai tecnocrati di Bruxelles e agli “gnomi” della Bce.
Eppure quando i francesi e gli olandesi, nel 2005, bocciarono la costituzione europea, vi sarebbe stata la possibilità di rimettere in discussione l’intero progetto europeo, avendo presenti i gravi rischi che derivavano dalla “inconsistenza geopolitica” dell’Unione Europea e dalla dipendenza del vecchio continente da pericolose e perfino anacronistiche “logiche atlantiste”. Ma anche allora in Italia si prestò poca attenzione ai reali problemi posti da Eurolandia e dalla nuova architettura politica della Ue, anche perché i liberal-progressisti, secondo il solito schema concettuale assai caro alla nostra intellighenzia anglofila, addebitavano tutti i “guai” del nostro Paese al fatto che gli italiani anziché anglosassoni fossero latini (ossia fossero “brutti, sporchi e cattivi”), nonché al fatto che adesso in Italia oltre al papa ci fosse pure “Sua Emittenza”.
Ciò malgrado, anche per i liberal-progressisti era fuori discussione che la società italiana dovesse diventare una società di mercato sotto ogni punto di vista, ma a guidare questo processo di trasformazione avrebbero dovuto essere loro stessi (cioè i “ceti medi riflessivi”, come loro medesimi si autodefinivano), anziché i “cafoni della destra”, il cui americanismo era superficiale e non serio, ponderato e maturo come il loro.
I “destri”, autoproclamatisi difensori del “popolo delle partite Iva” (perlopiù commercianti, liberi professionisti e piccoli imprenditori) replicavano accusando i “sinistri” di essere ancora comunisti (una accusa che ancora spesso fanno, dimostrando di avere una capacità di comprendere la politica minore di quella degli avventori del “leggendario” bar dello sport). Entrambi gli schieramenti quindi si accusavano reciprocamente di non avere le competenze necessarie per modernizzare (leggi: “americanizzare”) il Paese: se per i “sinistri” i berlusconiani non erano altro che una massa di corrotti ed evasori fiscali, per i “destri” gli antiberlusconiani erano solo una massa di ipergarantiti e “mangiapane a tradimento”.
Inoltre, gli italiani si dividevano anche sulla questione del conflitto di interessi, che per i “sinistri”, finché non fosse stata risolta, non avrebbe dovuto consentire al “cavaliere nero” (accusato perfino di essere colluso con la mafia) di governare l’Italia (una questione che “stranamente” i governi di sinistra, che pure ci sono stati nell’era del berlusconismo, non hanno mai risolto). Berlusconismo e antiberlusconismo diventavano così la foglia di fico dietro la quale maturavano le condizioni perché l’Italia si facesse trovare nella peggiore situazione possibile allorché, nel 2007/8, si verificò la crisi finanziaria. Ma anche di questo ben pochi politici e analisti se ne accorsero in tempo, tanto che nel 2009 secondo l’Ocse la ripresa dell’economia italiana era già in atto e lo stesso Berlusconi ebbe a dichiarare al “Corsera” che l’Italia andava a gonfie vele (12).
In effetti, nonostante l’introduzione dell’euro (che di punto in bianco privò l’Italia della leva fiscale, della leva monetaria e della leva valutaria) l’economia italiana nei primi anni del terzo millennio pareva “cavarsela”, se perfino la quota italiana della manifattura mondiale dal 4,2% nel 2000 era passata al 4,5% nel 2007 (13).
D’altronde, è pure noto che la Germania nel 2003, muovendo da livelli di Welfare e di reddito molto alti, decise di comprimere i salari e di sfruttare l’“euro-marco” per diventare una grande potenza commerciale (14), infischiandosene degli squilibri che tale scelta avrebbe inevitabilmente generato, dacché la maggior parte degli altri Paesi di Eurolandia (Italia compresa) non potevano seguire i tedeschi su questa strada, sempre che non volessero far morire di fame un terzo della popolazione.
Ma con la crisi finanziaria, peraltro costata all’Italia ben 5 punti del Pil nel 2009, si avviava pure un processo di deindustrializzazione del Paese, che nel 2013 vedeva quasi dimezzata la propria quota della manifattura mondiale (2,6%), mentre i “mercati” potevano usare il debito pubblico italiano, ora pressoché totalmente fuori controllo, per imporre la politica più favorevole per i loro interessi.
Naturalmente, i gazzettieri sostenevano che ai “mercati” interessava solo la testa del “clown tricolore”. Una sciocchezza colossale, come questi ultimi drammatici anni hanno dimostrato, al di là delle colpe della destra italiana, certo gravi e numerose ma non più gravi e numerose di quelle della sinistra.
Comunque sia, la situazione del Paese non la si può spiegare solo elencando i noti difetti del “sistema Italia”, quali la corruzione, l’inefficienza della pubblica amministrazione, la spesa pubblica “improduttiva” e l’evasione fiscale. (Non si dovrebbe però nemmeno “generalizzare”, dato che se da un lato vi sono non pochi impiegati pubblici onesti e capaci, dall’altro si sa che il “nero”, per una serie di ragioni dipendenti da “logiche partitocratiche” della cosiddetta “prima repubblica”, è ancora incorporato nel “ciclo economico”, ragion per cui è logico che con i metodi di Equitalia la “gallina dalle uova d’oro” non la si cura ma la si uccide).
Ma, proprio come negli anni Novanta non si trattava di mettere in questione la lotta contro la corruzione e le “logiche partitocratiche” (che indubbiamente erano un problema da risolvere), bensì la terapia adottata (giacché avrebbe ancor più indebolito un organismo che aveva bisogno di ben altre cure), così oggi l’accento deve essere messo sul fatto che dei “centri egemonici” stranieri, contando sulla presenza di numerose “quinte colonne”, possono sfruttare la debolezza del nostro Paese, non solo per evidenti scopi economici ma anche per scopi geopolitici (forse meno evidenti, ma non meno importanti). Al riguardo, la subalternità alla politica di potenza statunitense da parte del ceto politico italiano non è una novità e non ha bisogno di spiegazioni.
Ma oggi una tale condizione di “vassallaggio” rischia di essere disastrosa per un Paese la cui base produttiva è ormai “lesionata”, e che, oltre ad essere privo di materie prime, si trova a dipendere da altri Stati per il suo fabbisogno energetico e dai “mercati” per quanto concerne il finanziamento del debito (si tratta di un passivo di circa 150 miliardi di euro all’anno se ai 90 miliardi di euro per il servizio del debito si aggiunge il passivo della bilancia energetica – una “emorragia” che sottrae non poche risorse estremamente preziose per la ripresa e lo sviluppo della nostra economia). Tutto ciò difatti rafforza ancora di più il controllo del nostro Paese da parte dei “centri egemonici” atlantisti, le cui strategie non possono certo avere come scopo la difesa del nostro interesse nazionale. Non meraviglia allora che il “Belpaese” rischi di tornare ad essere un vaso di coccio tra vasi di ferro, grazie ad una classe dirigente che in gran parte è al servizio di potentati stranieri.
Di fatto, la stessa politica “suicida” dell’Italia prima nei confronti della Libia e ora verso la Russia non ha alcuna spiegazione valida se non quella secondo cui Roma in realtà “lavora” per tutelare gli interessi di Washington o, se si preferisce, quelli dell’Occidente, anche se ciò comporta un danno gravissimo per l’Italia.
Il sostegno di Roma alle guerre d’aggressione degli Usa e alle varie rivoluzioni colorate (dalla Siria all’Ucraina) “sponsorizzate” dai centri di potere atlantisti trova una sua logica spiegazione nella “tradizionale” politica della classe dirigente italiana, che consiste nell’anteporre il proprio “particulare” all’interesse generale, esercitando, al riparo da “brutte sorprese”, il “piccolo potere” che la potenza occidentale predominante concede ad un gruppo politico “subdominante” in una determinata area geopolitica.
L’Italia, che è un’ottima base per la “proiezione” della potenza statunitense nel Mediterraneo e nel continente africano, ha appunto il compito di seguire “ciecamente” le direttive della Nato. Anche la politica italiana nei confronti della Germania deve essere interpretata alla luce di questa “sostanziale” subordinazione del ceto politico italiano alle direttive strategiche dei centri di potere atlantisti. Non è un mistero che un euro politicamente debole, favorendo la speculazione internazionale e frenando l’economia europea nel suo complesso, non può che avvantaggiare l’America, per la quale la disintegrazione di Eurolandia sarebbe un “incubo” (15).
Non “afferrare” questo aspetto della pur complessa situazione europea, significa inibirsi del tutto la possibilità di comprendere i veri motivi che hanno spinto anche i politici italiani “meno sprovveduti” ad accettare una serie di misure che sapevano essere sicuramente nocive per il nostro Paese.
Si è venuta quindi a creare una situazione che potrebbe cambiare solo se vi fossero una “visione geopolitica” del mondo e una cultura politica del tutto diverse, ma di cui purtroppo al momento non si vede traccia. Né a tale mancanza si può rimediare con il qualunquismo e il pressappochismo, dato che con l’“antipolitica” (anche ammesso che si sia in buonafede) non si va da nessuna parte, ma si può solo sprecare un notevole patrimonio di consensi, lasciandosi sfuggire l’opportunità di “far voltare” pagina al Paese (come prova la storia del M5S).
Invero, si dovrebbe tener presente che i “guai” dell’Italia sono sempre derivati, in primo luogo, dalla mancanza di uno Stato forte ed efficiente, in grado di imporre l’interesse della collettività a scapito di interessi settoriali e pronto a premiare i meritevoli anziché i “furbi”, nonché dalla mancanza di una classe dirigente disposta a “pagare in prima persona”.
Sicché, come comprese Gramsci, i ripetuti fallimenti dello Stato italiano derivano proprio dall’incapacità della sua classe dirigente di inserire il popolo italiano nel quadro statale, facendo valere una autentica cultura nazional-popolare (16).
La stessa crisi di Eurolandia, che secondo non pochi analisti è destinata ad aggravarsi con il passare del tempo, dovrebbe essere perciò un’occasione per creare una coscienza nazionale all’altezza delle sfide del mondo contemporaneo.
Che l’Italia nei mesi che verranno possa far fronte con successo a tali sfide è lecito dubitarne, benché ciò non costituisca un valido motivo per rassegnarsi al peggio. Del resto, gli italiani non sono gli unici europei che cercano di uscire dal vicolo cieco in cui li ha condotti una classe dirigente inetta e corrotta.
Certo, anche questo potrebbe apparire un tentativo donchisciottesco, considerando la frammentazione sociale e il degrado culturale che caratterizzano da tempo non solo l’Italia ma l’intero continente europeo.
Tuttavia, è pur vero che finché tutto non è perduto, nulla è perduto. In quest’ottica, pertanto, dovrebbe avere ancora senso battersi contro l’Europa dei tecnocrati e dei “mercati”, al fine di costruire un polo geopolitico europeo, composto da nazioni libere e sovrane.
NOTE
1) L’autunno nero del ’92 tra tasse e svalutazioni, “Il Sole 24 Ore”, 23/4/2010. Vedi anche
2) Vedi http://keynesblog.com/2012/08/31/le-ver ... -italiano/.
3) M. Nese, Quando la crisi dei missili coinvolse l’ Italia. «Così il Pci decise di non creare problemi», “Corsera”, 18/8/2008.
4) V. Ilari, Guerra civile, Ideazione Editrice, Roma, 2001, p. 77.
5) G. Carli, Cinquant’anni di vita politica italiana, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 412-413.
6) M. Monti, Il governo dell’economia e della moneta, Longanesi, Milano, 1992.
7) Su questo tema mi permetto di rimandare ad un mio recente articolo: L’Europa nella morsa dell’euro (http://www.cese-m.eu/cesem/2014/12/leur ... -delleuro/).G. Marrazzo, Tiziana Parenti (ex Pm di Mani Pulite): Di Pietro riferiva dell’inchiesta all’America, “Avanti!”, 30/8/2012.
9) E. Polidori, La svalutazione ci ha fatto bene, “Repubblica”, 23/9/1993.
10) Obiettivi e risultati delle operazioni di privatizzazione di partecipazioni pubbliche, Corte dei Conti.
11) Vedi V. Giacché, Anschluss, Imprimatur, Milano, 2013.
12) Ocse c’è ripresa, Italia al top. «Noi il sesto Paese più ricco», “Corsera”, 6/11/2009.
13) Vedi “Scenari Industriali”, Confindustria centro studi, giugno 2014, n. 5, p. 15.
14) Nondimeno, buona parte dei lavoratori tedeschi non se la passano affatto bene. Vedi, ad esempio, L. Gallino, I debiti della Germania e l’austerità della Merkel, “Repubblica”, 26/8/2013, e Idem, Il Jobs Act? Una pericolosa riforma di destra, “Micromega”
15) Su tale importante questione vedi J. Sapir, Bisogna uscire dall’euro?, Ombre Corte, Verona, 2012.
16) A. Gramsci , Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino, 1975, p. 2054.
http://www.eurasia-rivista.org/il-decli ... lia/22044/
09/02/2015, 11:33
Thethirdeye ha scritto:1992-2012 - "Guerra Finanziaria" all'Italia (con commento di Paolo Barnard)Guarda su youtube.com
11/02/2015, 21:02
Thethirdeye ha scritto:
Ne vedremo delle belle, amici miei......
FITCH VS ITALIA: SCACCO AL RE IN DUE MOSSE
http://www.nocensura.com/2015/02/fitch- ... n-due.html
12/02/2015, 01:00
12/02/2015, 01:08
MaxpoweR ha scritto:Chi ha stipulato fisicamente quei contratti? Subito a processo per alto tradimento ed impiccagione in pubblica piazza. Senza pietà. così il prossimo ci penserebbe 2 volte...
dover togliere 37 miliardi dalle casse dello stato vuol dire impoverire e mandare in miserie ed istigare al suicidio chissà quante persone, meglio che ne muoia una sola, il responsabile!