martedì 8 luglio 2014 Yara Gambirasio. L'orwelliano Bel Paese: l'addestramento al pregiudizio e alle voci che corrono... 
Vignetta di Vanni Garattini
Il caso Bossetti è l’esatta trascrizione della disinformazione che regna nel bel Paese ormai da tempo immemorabile. Un caso emblematico per il quale giornali e televisioni hanno costruito dal niente un processo mediatico gonfiando le notizie più insulse, creando nessi inesistenti tra fatti o addirittura inventando di sana pianta fatti e situazioni mai accaduti o accaduti in modo del tutto diverso da come sono stati poi raccontati. Perfino la vita normale di tutti i giorni, andare in trattoria o trascorrere qualche serata al discopub, navigare in internet, curiosare nei fatti di cronaca nera, andare in vacanza… cose che fanno un po’ più o meno tutti, che facciamo anche noi, diventano cose da doppia vita: da dottor dottor Jekyll e mister Hyde. Qualunque cosa, anche la più banale e insignificante, alla luce di un assunto di colpevolezza è diventata per la stampa e i soliti programmi tv un inquietante elemento indiziario, uno straordinario copione per un thrilling dal gusto gotico. Si è continuato per giorni a dare una notizia destituita di qualsiasi fondamento, cioè che era stato fatta l’analisi del
Dna di Giacomo Bossetti dimostrando che quello non era il padre genetico di Massimo Bossetti. Una notizia pubblicata e strombazzata ai quattro venti diventa vera anche se priva di fondamento; smentite e segnalazioni che si tratta di un falso non servono a niente se la grancassa mediatica l’ha ormai metabolizzata e è entrata a far parte del repertorio del panorama informativo.
Cancellare un falso è praticamente impossibile non tanto perché non esista l’opzione di rettifica, quanto perché una volta entrato a far parte del sistema mediatico esso sviluppa tutta una serie di concatenazioni emotive e simboliche, crea un algoritmo interpretativo che innesca a sua volta effetti a cascata che si rendono autonomi dalla causa che li ha prodotti. L’eventuale smentita non ottunde né annulla le conseguenze che a loro volta ne hanno già prodotte altre, rendendo ormai irrilevante il fatto scatenante. In una opinione pubblica che vive alla giornata tutto viene archiviato, in modo permanente, più come pulsione emotiva che come elemento cognitivo, più come stato d’animo che come dato formale.
Quello che appare di maggior interesse è dunque la reazione del vasto pubblico che si forma idee colpevoliste su base emozionale (così come in molti altri casi) con una netta propensione a non cogliere le contraddizioni, le omissioni e le deformazioni di quello che gli viene raccontato, ma anzi contribuendo a fare da megafono e a proliferare con i commenti sui giornali e sui siti tutta una serie di pregiudizi e di dicerie sulla base di presupposti fantasiosi o del tutto inesistenti. Si formano gruppi di ‘linciaggio’ on-line e si va alla ricerca del capro espiatorio (il che ricorda le pratiche della caccia alle streghe). Le notizie si rincorrono insieme a informazioni più o meno taroccate, offerte a un pubblico di bocca buona, variamente imboccato e sapientemente orientato a cogliere la ‘corretta’ interpretazione della vicenda secondo il copione ‘sbatti il mostro in prima pagina’. Trasmissioni televisive dove, riguardo all’assassino, da un lato si usa l’aggettivo ‘presunto’ e dall’altro si infierisce con allusioni e nessi di natura del tutto arbitraria in una ricerca spasmodica di congetture capziose e suggestive, frullando banalità e vaghezze come se si trattasse di scoop e notizie eclatanti. Per certi versi la vicenda ricorda quella narrata dall’illustre milanese nella Storia della Colonna Infame, con tutte le suggestioni e le scorciatoie mediatiche e i paralogismi giuridici. E di quell’opera ricorda le sostanze sospette, l’untore come metafora della moderna diceria trasformata in sostanze biologiche, in campione istologico (con tutta la teatralità dei camici bianchi sul luogo del delitto) come quintessenza del colpevole.
Il Dna come traccia lasciata dall’assassino, la sua firma nella forma del moderno codice a barre, possiede tutta la carica suggestiva dell’unzione venefica, ma rappresenta anche la nuova forma mitica del sacro Graal, ipostasi di un delirio di onnipotenza del moderno Prometeo, lo scienziato come figura mitica, onnipotente e infallibile. C’è qualcosa nel Dna, così come i media ne hanno dato rappresentazione, che richiama l’impronta della strega, il sortilegio e la fattura, la macchia dall’origine incerta (Sangue? Sperma? Sudore? Lacrime?) che all’occhio del profano, addestratosi al Csi, evoca la potenza infernale dell’assassino, i suoi umori viscerali, anche quando nessun altro elemento deponga in un organico sistema indiziario. Forse il rilievo biometrico potrebbe risultare davvero importante in un quadro investigativo, ma potrebbe anche trattarsi di un elemento del tutto casuale, insignificante, solo un refuso, un errore, forse un tentativo di depistaggio del vero assassino. Al di fuori di un sistema indiziario organico, un dato di laboratorio non è prova di niente, è solo un dato amorfo. L’occhio armato del moderno Spallanzani può scrutare nell’infinitamente piccolo, in quelle omeomerie (i semi di Anassagora dove tutto è in tutto), figuriamoci poi in un sistema di relazioni quotidiane, non i laboratori asettici dove si fanno prelievi controllati, ma il mondo della quotidianità dove il caso e la necessità si mescolano talvolta nei modi più imprevedibili e rocamboleschi, dove può esserci sì il marchio dell’assassino, ma forse solo una sovrapposizione accidentale, la firma di un maldestro operatore a far rilievi sul luogo del delitto, qualche tecnica di laboratorio non comprovata o qualche altro imponderabile fatto fortuito. La pretesa di aver sempre e comunque tutto sotto controllo fa parte di quella hybris di una scienza che si crede onnipotente e che ritiene di possedere le chiavi di tutto e che di fronte ai propri errori utilizza i classici stratagemmi convenzionalistici per appianare le (sue) contraddizioni.
Il caso Bossetti può essere ascritto come un gigantesco e involontario esperimento di Psicologia sociale, quello che comunemente viene chiamato
le voci che corrono, ma anche una riconsiderazione del famoso
esperimento Milgram sul ruolo dell’autorità nell’influenza sociale. Per quanto riguarda invece la
filosofia della scienza, dimostra come il Bel Paese poco o nulla sia aggiornato in tema di epistemologia. Molti operatori dell’apparato scientifico tecnico-pratico e del sistema divulgativo, appaiono ancora nell’ottica di quella
comtiana scienza ottocentesca, un po’ religione e un po’ dogma, senza nessun riguardo alla critica, al principio di induzione e al verificazionismo, oltre che alle concezioni convenzionalistiche che rifiutano il realismo della scienza.
L’operazione mediatica è la caratteristica di una società dove i processi di influenza sociale sono in parte pianificati dall’alto attraverso vere e proprie strategie comunicative che nulla hanno da invidiare al 1984 orwelliano. Un pubblico praticamente disarmato di fronte alla grancassa mediatica, non solo per un impressionante difetto culturale, una società con un forte analfabetismo di ritorno, permeabile a tutte le suggestioni, soprattutto quando confezionate con l’intervento dei soliti esperti o presunti tali (che il più delle volte ripetono la cacofonia e riproducono una serie di luoghi comuni resi autorevoli mediante il consueto linguaggio paludato e fumoso, e la tracotanza di certo scientismo che confonde le prove di laboratorio in situazioni controllate con il mondo reale dove la scienza, contrariamente al credo determinista, possiede conoscenze solo provvisorie ed incerte). Per non parlare poi della confusione che spesso viene fatta tra l’uomo di scienza e il semplice tecnico che padroneggia una professione, fosse anche quella del biologo o del genetista.
Fin qui parrebbe tutto nel normale iter mediatico, si fa per dire, un processo che vende notizie in cambio di visibilità, consenso, pubblicità, contratti… insomma, tutti quegli interessi finanziari che gravitano attorno all’informazione e che ne fanno un affare su più fronti. In realtà l’aspetto finanziario è forse quello meno importante ed è comunque, indirettamente, in relazione con un sistema informativo che è soprattutto l’indottrinamento sistematico dell’utenza e il suo controllo attraverso un vero e proprio condizionamento legato a un consenso che ha obiettivi ben più rilevanti sul piano politico e dell’assetto economico-produttivo dell’intera società, che ne prepara gli abiti mentali e la predispone al consenso disinformato. Sarebbe comunque ingenuo considerare il flusso informativo come un processo a senso unico. L’idea dell’
ago ipodermico con il quale a ciascun utente viene instillata la propaganda, una
forma mentis plasmata da notizie abilmente pilotate, poteva forse corrispondere nelle società dei totalitarismi tradizionali a uomini isolati nella massa amorfa. Le complesse retroazioni coinvolgono oggi il vasto pubblico che interviene sempre più di frequente nei blog e nei giornali on-line, sui social network… che rappresentano non solo opinioni e prese di posizione, ma elementi organici di tutte le procedure di influenza e condizionamento sociale.
Si tratta di quel gigantesco processo che coinvolge milioni di persone che in certo senso agiscono all’unisono, si orientano contemporaneamente, come attratte dal magnetismo mediatico, e procedono come un esercito perfettamente allineato e coordinato, senza ricevere ordini espliciti e senza, apparentemente, una qualche forma di regia e di controllo. Non si tratta soltanto di contagio emotivo di massa, o di quell’eterna ricerca di un colpevole qualsiasi, di un capro espiatorio, solleticando il lato torbido dell’utenza... È come se al posto di qualche dittatore o di Grande Fratello, si fosse sostituito un invisibile sistema di istruzioni, un algoritmo direttamente implementato nella forma mentis di milioni di persone, dove la regia avesse assunto il volto ubiquo e disperso di innumerevoli
fratellini e sorelline: un 1984 disseminato di piccoli dittatori clonati. Perché tutto questo possa avvenire, occorre l’humus idoneo affinché l’audience divenga recettiva, collaborativa e malleabile. Serve una società nella quale siano stati già implementati algoritmi di decodifica e di riconoscimento, procedure interpretative automatizzate e ricorsive con le quali il target (la società dei consumi) viene strutturato e interconnesso non solo sul piano fisico ma anche su quello emozionale.
Una società che sempre di più vive nelle notizie effimere, nel transeunte, e nella precarietà dei punti di riferimento, un ambiente ideologico nel quale il pubblico è immerso. Il controllo invisibile ha un grado di efficacia infinitamente più grande proprio perché il consenso è interiorizzato, non ha più bisogno di un gendarme ma è costituito da una adesione
spontanea a un sistema cognitivo e emozionale, quella
forma mentis inconsapevole con la quale le notizie vengono filtrate e formattate attraverso
espedienti retorici, pseudo sillogismi e metafore suggestive. Si può per questo usare il concetto di
mito come modalità espressiva dell’utente medio (soprattutto televisivo) che vive in quella sorta di reality rappresentato da
notizie ad effetto, informazioni gridate, scoop, indiscrezioni, anticipazioni, rendiconto, voci… così sapientemente frullate in una sorta di
show dove il confine tra realtà e spettacolo, finzione e documento è quanto mai labile e incerto. Si tratta di un ambiente formativo e informativo nel quale l’utente si trova immerso e dal quale si desumono non solo i
data ma anche tutti quegli strumenti interpretativi e quei metodi conoscitivi che organizzano lo svolgersi dell’apprendimento mediatico. Un ambiente si può dire a pacchetto completo e chiavi in mano che trasforma l’utente in un testimonial, il target in una presenza scenica e in un esercito di figuranti che all’apparenza si muovono liberamente. Non si tratta però solo di spettacolo che implica un pubblico neutrale e passivo, si tratta di trasformare l’audience in un sistema organico e interconnesso in grado di funzionare come un tutto statisticamente integrato.
Gli strumenti del mito sono fondamentalmente due: l
’autorità in tutte le sue forme e l
’ideologia. Due poli che sapientemente mescolati conferiscono alle notizie quella patina di autenticamente vero e di realisticamente acclarato. L’indottrinamento politico e ideologico con il quale si produce consenso e risposte automatiche nella cabina elettorale comincia a monte e si esplicita attraverso tutto il sistema mediatico (intrattenimento, spettacolo, divulgazione) e non soltanto mediante l’informazione tout court (telegiornali, notiziari, approfondimenti). La risposta politica (in tutte le sue manifestazioni) presuppone cioè un ambiente mediatico che prepari e conformi l’utenza attraverso un addestramento che la renda perfettamente integrata e strutturalmente idonea a collaborare attivamente nel processo di influenza sociale. I
cold case come comunemente vengono chiamati i fatti di cronaca con delitti e omicidi più o meno efferati, e dove non c’è ancora un colpevole assodato, rappresentano emblematicamente e mettono a nudo quegli algoritmi che presiedono al condizionamento dell’utenza con modalità e simulazioni che poi verranno applicate in modo surrettizio a tutto il processo informativo, una palestra di apprendimento e una esercitazione sul campo per mettere a punto le procedure con le quali
l’elettore-fruitore-spettatore potrà essere indottrinato e governato a monte.
L’introiezione dell’autorità avviene mediante forme di apprendimento in cui vengono privilegiati i contenuti (le nozioni) piuttosto che il procedimenti logici (deduttivi) che presiedono alla loro acquisizione. L’autorità della scienza costituisce, in un panorama di analfabetismo scientifico, uno dei percorsi privilegiati con i quali in nome della oggettività scientifica (e della sua autorità e autorevolezza) i media possono
impressionare un’utenza che nella civiltà tecnologica vede una sorta di feticcio rappresentato da quei misteriosi laboratori di ricerca con provette e alambicchi dove ricercatori in camice bianco svolgono misteriose e un po’ magiche attività di ricerca e di controllo. Il
biologo e il
fisico rappresentano le due forme mitiche di una società tecnologicamente avanzata che agli occhi del profano non hanno niente da invidiare al carattere magico di certe società arcaiche. La scienza, nella spettacolarizzazione televisiva ha infatti assunto un alone di sacralità, il laboratorio appare come il luogo di sortilegi, fatture e incantesimi, lo scienziato come uno sciamano con poteri taumaturgici e divinatori. La parola Dna è diventata sinonimo di una sorta di
abracadabra che apre le porte dell’invisibile.
L’esempio della fisica e quello della biologia Un fisico teorico è sempre metodologicamente ben attrezzato e sa che un singolo esperimento non è mai in grado di conformare una teoria (o di falsificarla completamente) perché la realtà là fuori è sempre più complessa e perfino le formule matematiche sono solo approssimazioni provvisorie della ricerca. Un fisico non si sognerebbe mai di ricostruire un incidente stradale per assegnarne le responsabilità usando solo le formule del moto e senza ascoltare testimoni e valutare l’attendibilità delle persone coinvolte, saprebbe che quella non è una situazione da laboratorio, che la meccanica newtoniana (o la fisica relativistica) dovrebbe tener conto di tutte quelle forze che agiscono nell’universo, molte delle quali ancora non conosce. Un fisico si rifiuterebbe di ricostruire un incidente stradale e di assegnare responsabilità solo fidando delle sue formule, perché sa che le variabili sono così complesse e numerose che neppure il più potente elaboratore elettronico potrebbe padroneggiarle tutte. In certo senso la rivoluzione fisica del ‘900 ha reso il fisico più prudente, in grado di relativizzare i suoi assunti e di usare le teorie del tutto e le percentuali solo come simulazioni utili allo svolgersi della sua ricerca ma senza pretendere alcun tipo di infallibilità statistica. Il determinismo poi con la teoria dei quanti ha subito una battuta di arresto e la critica popperiana al principio di verificazione ha dato un ulteriore colpo a quella che poi Feyerabend chiamerà la scienza normale (la routine dello scienziato ragioniere) in contrapposizione a quella scienza straordinaria che poi andrà a mettere in crisi i precedenti assunti teorici e a sconvolgerne i paradigmi.
Questo fervore di ricerca rivoluzionaria della nuova fisica ha lasciato un po’ ai margini la biologia che talvolta dimentica la differenza tra la realtà e la situazione controllata del laboratorio dove vale la distinzione tra variabili dipendenti e variabili indipendenti, dove l’esperimento è sempre ripetibile e riproducibile. Un fisico non si sognerebbe di ricostruire un delitto basandosi esclusivamente sulle leggi del moto (dovendo effettuare una indagine balistica) ma lasciando anche ad altri esperti (gli investigatori) l’onere di raccogliere un quadro indiziario ben più complesso e comunque sapendo che il suo contributo non risulta nel quadro di una situazione controllata da laboratorio e che nella vita reale (quella di un atto criminale) le forze in gioco sono in gran parte sconosciute e comunque non riproducibili e non sempre rappresentabili in forma numerica. Quando si confonde una situazione reale (il mondo della vita con tutta la sua complessità irriducibile ad un dato estrapolato) con una situazione da laboratorio si rischia di prendere solenni cantonate. Qualunque tipo di inferenza induttiva che implica una casistica infinita di possibilità (come ad esempio quella della presenza di un Dna estraneo su un cadavere, magari degradato o recuperato in tracce minime) esclude la possibilità di valutarne la probabilità sulla base dell’evidenza induttiva (vedi Popper):
a) L’ipotesi universale afferma il valore di una conclusione relativamente ad un numero infinito di casi
[i]b) Il numero di casi osservati non può che essere finito[/i]
Pensare di poter affermare un metodo basato sulla routine è illusorio sia postulando una induzione ripetitiva (nessun numero di osservazioni di cigni bianchi riesce a stabilire che tutti i cigni sono bianchi), o per eliminazione (eliminare tutte le ipotesi false, ma dato un problema p esistono sempre un numero infinito di soluzioni possibili).Quando si parla di situazioni reali, non da laboratorio, la casistica di possibili interpretazioni è praticamente infinita tenuto conto dell’incertezza del fattore umano (scorretta esecuzione) dell’ibridazione del materiale biologico che non sempre è databile, è trasferibile e con un grado di genuinità spesso non definibile. Non è dunque per via induttiva che possiamo trovare una soluzione a un caso, ma solo per via deduttiva; e qui entra in gioco il vero investigatore anche con la sua immaginazione e fantasia (proprio come nella vera scienza che non si basa solo sulla routine) attraverso un quadro indiziario sistemico e non già mediante un singolo elemento isolato (con tutte le incertezze relative a una sua interpretazione e senza tener conto di errori imprevedibili).
La fiducia fideistica nella scienza (quella dell’autorità consegnata alle trasmissioni divulgative che la trasformano in una sorta di religione moderna del sapere) costituisce una delle molle più potenti di consenso e può portare nei casi più estremi, servendosi del suo prestigio e della sua autorità, a trasformare le persone in collaboratori obbedienti ed acritici (vedi sotto
l’esperimento Milgram) e a diventare sordi e ciechi anche di fronte alle evidenze sensoriali in nome di un sapere autorevole. Nel caso specifico sarebbe bastato controllare un album di famiglia per smentire
eventualmente una prova di laboratorio relativa a un campione forse non ottimale ed esposto a possibili contaminazioni.
La fiducia nel dato scientifico, l’illusione dell’onnipotenza della tecnologia, può addirittura accecare l’evidenza delle nostre percezioni. La suggestione di un dato spacciato come scientificamente infallibile al 99,99999987% potrebbe influenzare al punto da non vedere che tra due fisionomie non esiste alcuna somiglianza, ma anzi mostrare un indiscutibile grado di parentela. La scienza crea attorno a sé un tale alone di prestigio da annullare perfino l’evidenza dei nostri occhi e lo stesso buon senso della nostra ragione, un feticcio in grado di ottundere la nostra mente se usata nel modo sbagliato. Stampa e televisione vengono obnubilate da quella percentuale sbandierata come una sorta di spauracchio per chiunque osi anche solo mettere in discussione la mitica immagine della scienza che non sbaglia (
il test del Dna non sbaglia). Affermazione perlomeno azzardata visto che il progresso della scienza è avvenuto proprio riconoscendo i suoi errori a differenza di tutti i saperi esoterici. La scienza ha sbagliato in passato e sbaglierà in futuro e proprio nel riconoscimento dei propri errori sta il fondamento dei suoi progressi.
L’esperimento MilgramL’esperimento è datato 1961, ma leggendo la pletora di commenti sul caso Bossetti risulta attualissimo anche se ovviamente va contestualizzato e ricondotto a una situazione mediatica nella quale le forze psicologiche agenti sono straordinariamente più complesse e pongono interrogativi che riguardano non solo la società dell’informazione, ma anche più in generale l’assetto culturale delle società cosiddette avanzate dove la scienza è pervasa da interessi economici e di prestigio che travalicano la natura della ricerca.
L’esperimento Milgram nasce da un interrogativo,
fino a che punto una persona si può spingere nel considerare credibile una autorità, o se si preferisce in quali condizioni si può ritenere credibile una autorità al punto da adeguarsi ed obbedire alle sue richieste? Ai soggetti dell’esperimento (40 uomini reclutati attraverso un annuncio su un giornale e regolarmente pagati) veniva fatto credere di partecipare a un esperimento sull’apprendimento (valutando l’influenza delle punizioni) con due gruppi - uno di
insegnanti e l’altro di
allievi. Con un sorteggio truccato per non sollevare sospetti si assegnava sempre il ruolo di insegnanti ai 40 soggetti dell’esperimento, mentre gli allievi erano in realtà complici dell’esperimento. L
’insegnante (soggetto ignaro) era posto davanti a un quadro di controllo che gli veniva fatto credere generasse corrente elettrica con una serie di leve e una scala graduata con intensità progressivamente più alta. Per rendere realistica la messinscena all’insegnante veniva effettivamente fatto toccare con mano che la terza leva produceva una leggera scossa elettrica. La prova di apprendimento dell’allievo (complice dell’esperimento) consisteva in una serie di memorizzazioni. Quando l’allievo dava una risposta sbagliata, l’
insegnante doveva infliggergli una punizione mediante una scossa elettrica e aumentando progressivamente l’intensità della scossa ad ogni ulteriore errore dell’allievo legato su una specie di sedia elettrica con un elettrodo al polso.
L’attore (l’allievo) ad ogni scossa fingeva reazioni dolorose con implorazioni e urla, mentre progrediva l’intensità delle scosse (che in realtà erano fittizie), fino a simulare uno svenimento se l’intensità raggiungeva il vertice della scala. Quando l’
insegnante (l’individuo ignaro di essere il vero soggetto dell’esperimento) tentennava di fronte alle invocazioni da parte dell’allievo, lo scienziato che coordinava tutta l’esecuzione lo esortava a continuare per il buon fine dell’esperimento sull’apprendimento. Solo alla fine i soggetti vennero informati che in realtà la vittima non aveva subito alcuna scossa e che ne aveva semplicemente simulato gli effetti.
I risultati furono davvero emblematici e nonostante i 40 soggetti mostrassero segni di conflitto e di tensione, molti continuarono ad obbedire allo sperimentatore anche quando l’attore dava segni di non riuscire più a sopportare il dolore o addirittura svenisse. L’esperimento non ha un solo significato ed è stato variamente ripreso (anche cinematograficamente) con una serie di varianti. Il nucleo centrale dell’esperimento però rimane quello dell’obbedienza all’autorità. Nel caso specifico si trattava dell’autorità scientifica riconosciuta appunto come indiscutibile. Lo sperimentatore in camice bianco incarna l’autorevolezza della scienza e tutti quei processi di socializzazione regolati istituzionalmente nelle varie forme di autorità. L’esperimento veniva in realtà modulato secondo un copione più complesso e articolato. Ma a noi interessa leggerne il significato in relazione all’attualità.
La scenografia rappresentata da laboratori di ricerca, l’immancabile operatore in camice bianco e con mascherina, qualche strumento tecnologico dall’aria avveniristica crea quella suggestione in un’utenza disarmata che rappresenta un’immagine degli apparati ‘scientifici’ come sistemi infallibili e, soprattutto, in grado di scovare un colpevole semplicemente schiacciando qualche bottone. L’audience educata ai film polizieschi e agli sceneggiati di un detective ipertecnologico, si conforma ormai a un’idea di quella scienza divulgativa (e annacquata) che lo illude e si illude di poter risolvere un caso mediante la sola analisi di laboratorio. Si discetta di prova scientifica quando in realtà si tratta di dati - che vanno sempre interpretati alla luce di
congetture e confutazioni. La prova è sempre e solo ipotetico-deduttiva, quel discorso che fin dalla origini della scienza moderna, con Galileo, ha argomentato l’esperimento sempre mediante i nessi logici tra dati di esperienza tradotti in un sistema sperimentale e ricavando le leggi sulla base di inferenze deduttive. Affidarsi alla sola inferenza induttiva può solo portare ad errori clamorosi.
Un esercito di criminologi virtuali popola web, giornali e tv, con una vocazione colpevolista fondata un po’ sulla fede in una scienza immaginaria, quella mediatica di tanta divulgazione spettacolare, e un po’ in quella consueta ricerca di un capro espiatorio che allevia i sensi di colpa. La giustizia di fronte alle proteste di un imputato che proclama la sua innocenza, e di una madre che protesta la sua assoluta fedeltà al marito, ha preferito condurre in galera un uomo che mai aveva avuto problemi penali esponendo lui e la sua famiglia al pubblico ludibrio (prima ancora di sapere se esiste un sistema indiziario coerente rispetto a un dato di laboratorio che potrebbe rivelarsi errato o comunque di dubbia interpretazione). La ‘scienza’ criminologica si è affidata a infime tracce biologiche di un cadavere rimasto per mesi all’aperto e ha sparato improbabili percentuali di certezza (99,99999987) in un quadro assai poco controllabile, lontano dal laboratorio asettico e comunque suscettibile di errori, imprecisioni e contaminazioni. Come se non esistesse un’ampia casistica di errori di attribuzione a livello internazionale riguardo al Dna - con persone arrestate per sbaglio proprio sulla base del test genetico - e come se questa certezza di natura pressoché infinita non fosse stata testata su un numero limitato di casi concreti nello scenario di un delitto (solo ai quali dovrebbero essere eventualmente riferite le probabilità).
Se poi il campione non esistesse più, perché ormai ‘
bruciato’ nel test, saremmo di fronte a un puro atto di fede per la difesa di un imputato.
Per non parlare infine di un sistema mediatico senza rispetto per i diritti della persona che ha violato sistematicamente quelli del signor Massimo Bossetti e un domani potrebbe violare i nostri.[align=right]Source:
Volandocontrovento - il blog d...zio e alle voci che corrono... [/align]