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Ufetto
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 Oggetto del messaggio: Re: Rinascita Sociale Globale
MessaggioInviato: 09/04/2015, 11:23 
Due incredibili articoli [:D]
- Possiamo porre fine allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo?
- Lavorare meno lavorare tutti, mantenendo gli stipendi invariati

Così dovrebbe essere organizzata la società [B)]



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“Ogni verità passa attraverso tre fasi: prima viene ridicolizzata, poi è violentemente contestata, infine viene accettata come ovvia.”
- Arthur Schopenauer -

“La civiltà avrà veramente inizio quando il potere dell'amore sostituirà l'amore del potere.”
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 Oggetto del messaggio: Re: Rinascita Sociale Globale
MessaggioInviato: 17/04/2015, 12:16 
Seeker ha scritto:


Concordo... e ti invito a leggere quanto segue

I paradossi della ricerca della crescita infinita in un pianeta finito. Quando l’economia tradisce se stessa.
Lectio magistralis, di Maurizio Pallante – Terra Madre, Torino 24 ottobre 2014

Le parole crescita e decrescita non hanno alcuna connotazione di valore. Indicano rispettivamente un aumento e una diminuzione quantitativa. Acquistano una valenza qualitativa, di miglioramento o di peggioramento, quando sono riferite a fenomeni cui si attribuisce una connotazione di valore. In questi casi, la crescita di un fenomeno che si considera positivo è un miglioramento, ma la crescita di un fenomeno che si considera negativo è un peggioramento; viceversa, la decrescita di un fenomeno che si considera positivo è un peggioramento, ma la decrescita di un fenomeno che si considera negativo è un miglioramento.

Per fare qualche esempio, la crescita del numero delle persone che guariscono dal cancro è un miglioramento, ma la crescita del numero dei malati di cancro è un peggioramento. La decrescita del numero dei globuli rossi nel sangue indica un peggioramento della salute, ma la decrescita della febbre indica un miglioramento.

Sono considerazioni banali, su cui non varrebbe la pena soffermarsi, ma non si può evitare di ricordarle per cercar di capire come mai nell’immaginario collettivo alla parola crescita si annetta automaticamente una connotazione di valore positiva e alla parola decrescita una connotazione di valore negativa. Come mai la parola crescita sia utilizzata come sinonimo di miglioramento e la parola decrescita come sinonimo di peggioramento. Per sostenere la valenza positiva del concetto di crescita, e di conseguenza la valenza negativa del concetto di decrescita, un importante giornalista scientifico ha affermato: “crescono gli alberi, crescono i bambini”, omettendo di aggiungere che, come sa per esperienza diretta anche chi non ha una cultura scientifica, nessun organismo vivente continua a crescere per tutta la vita.

Un altro importante giornalista, cui è stato anche affidato l’incarico di dirigere un importante istituto di cultura italiano all’estero, ha scritto in un articolo polemico: “la decrescita no, no”, come un bambino capriccioso davanti a una minestra che non vuol mangiare. La connotazione positiva della parola crescita raggiunge l’apoteosi quando viene esplicitamente riferita all’economia di un paese. Non c’è economista, sociologo, politico, industriale, sindacalista, rappresentante di associazione di consumatori, che non ripeta come un mantra in ogni discorso pubblico che l’obiettivo della politica economica è la crescita; che non veda, nei periodi di recessione, i segnali di una ripresa in atto, una lucina in fondo al tunnel; che non concateni la crescita del Pil alla crescita del benessere e dell’occupazione.

Ma da dove deriva questa convinzione, che non può ricevere naturalmente alcuna autorevolezza dal solo fatto di essere ripetuta dalla maggioranza delle persone? Che cos’è la crescita economica? Cosa misura il parametro con cui si misura? Misura davvero la quantità dei beni che vengono prodotti e dei servizi che vengono forniti da un sistema economico nel corso di un periodo temporale di riferimento, come generalmente si crede? Aumenta il benessere? Fa crescere l’occupazione?

Il prodotto interno lordo

Il parametro con cui si misura la crescita economica è il prodotto interno lordo, il Pil, un indicatore che misura il valore monetario degli oggetti scambiati con denaro. Cioè delle merci comprate e vendute. Poiché nei paesi occidentali da alcune generazioni le persone sono abituate a comprare tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere, tendono a confondere il concetto di merce col concetto di bene. Nella lingua inglese entrambi sono ormai normalmente espressi con la parola goods, che significa beni, per quanto nel vocabolario persista come un relitto fossile la parola commodities, che significa merci. In realtà i due concetti sono diversi, ma non alternativi. Le merci sono oggetti e servizi che si comprano.

I beni sono oggetti e servizi che rispondono a un bisogno o soddisfano un desiderio. Ma non tutto ciò che si compra risponde a un bisogno o soddisfa un desiderio. Non tutte le merci sono beni. L’energia termica che si disperde dalle pareti, dal tetto e dagli infissi degli edifici mal coibentati è una merce che si paga sempre più cara, ma non è un bene perché non serve a riscaldarli. E non tutto ciò che risponde a un bisogno o soddisfa un desiderio si può solamente comprare. La frutta e la verdura coltivate in un orto familiare per autoconsumo sono un bene, ma non una merce. Non tutti i beni sono merci.

Alcuni si possono autoprodurre, o scambiare reciprocamente sotto forma di dono nell’ambito di rapporti fondati sulla solidarietà. Il prodotto interno lordo contabilizza il valore monetario delle merci comprate e vendute, anche se non sono beni, ma non può prendere in considerazione i beni che non vengono scambiati con denaro. Tuttavia una merce che non ha nessuna utilità non migliora il benessere, anche se fa crescere il Pil, mentre lo migliora un bene autoprodotto o scambiato come forma di dono, che non lo fa crescere. Il Pil non può pertanto essere considerato un indicatore di benessere.

Nel tentativo di ridargli un po’ di credibilità, alcuni economisti sostengono che sia un indicatore insufficiente perché prende in considerazione solo il benessere materiale, ma non i fattori di benessere che, pur avendo un’importanza decisiva nella qualità della vita, non possono avere un valore commerciale.

Per esempio la qualità dell’aria, il livello medio dell’istruzione, la durata della vita. Pertanto, se oltre ai beni materiali calcolati dal Pil, si prendono in considerazione anche questi elementi, si possono elaborare, secondo questi economisti, indicatori di benessere più significativi. Gli indicatori che sono stati elaborati sulla base di queste considerazioni, non sono pertanto alternativi, come si cerca di far credere, ma integrativi del Pil. Pur essendo doverosa, questa precisazione è meno significativa del fatto che gli indicatori integrativi del Pil si basano su un errore di fondo, perché il Pil non è un indicatore insufficiente del benessere, ma un indicatore sbagliato. Non misura nemmeno i beni materiali, ma solo gli scambi commerciali. Aumenta se aumentano gli incidenti stradali e le malattie.

Diminuisce se aumenta il consumo di ortaggi coltivati per autoconsumo, che in genere sono migliori qualitativamente di quelli comprati, diminuisce se diminuisce il consumo di medicine perché le persone si ammalano di meno, diminuisce se si rafforzano i rapporti di solidarietà tra vicini. Il Pil non misura il benessere, ma il tantoavere e un’economia finalizzata al tantoavere non può che generare malessere, perché deve indurre le persone a desiderare sempre di più, a non accontentarsi mai di ciò che hanno, a invidiare chi ha di più.

Una volta ristabilita la differenza tra i concetti di merce e di bene, si può vedere che tra le merci e i beni ci possono essere quattro tipi di relazioni:

1. alcune merci non sono beni;

2. alcuni beni possono non essere merci;

3. alcuni beni si possono avere solo sotto forma di merci;

4. alcuni beni non si possono avere sotto forma di merci.

Le merci che non sono beni

Per riscaldare gli edifici in Italia si consumano mediamente 20 litri di gasolio o 20 metri cubi di gas (200 kilowattora) al metro quadrato all’anno. In Germania (e in Italia in Alto Adige) non viene data la licenza di abitabilità a edifici che ne consumino più di 7, ma ai migliori ne bastano 1,5. Se per legge si può imporre che un edificio non consumi più di 7 litri/metri cubi al metro quadrato all’anno, quelli che ne consumano 20 vuol dire che ne disperdono all’esterno i 2/3. Un edificio mal costruito, che spreca 13 litri/metri cubi su 20 fa crescere l’economia più di un edificio ben costruito, che ne consuma 7.

Se un edificio mal costruito viene ristrutturato e i suoi consumi scendono da 20 a 7 litri/metri cubi al metro quadrato all’anno, il prodotto interno lordo decresce, ma il comfort termico non si riduce, perché l’energia che si spreca non offre nessuna utilità, e la qualità della vita migliora, perché si riducono dei 2/3 le emissioni di anidride carbonica, quindi si riduce l’effetto serra. Per avere idea della grandezza di questi sprechi basta pensare che in Italia, nei cinque mesi invernali gli edifici consumano la stessa quantità di energia consumata da tutte le automobili e tutti i camion nel corso di un anno.

In Italia il valore monetario del cibo che si butta è il 3 per cento del Pil. Se si evitasse di buttare cibo, il Pil decrescerebbe del 3 per cento, ma non ci sarebbe nessuna diminuzione del benessere, perché il cibo che si butta non offre nessuna utilità, e la qualità della vita migliorerebbe perché si ridurrebbe la parte putrescibile dei rifiuti, quella più difficile da gestire.

Se si riduce la morbilità attraverso la prevenzione, si riducono le spese sanitarie e l’acquisto di medicine, per cui si può ridurre la fiscalità. Il Pil diminuisce, ma il benessere migliora e aumenta anche il reddito pro capite!

La decrescita si realizza in prima istanza riducendo la produzione e il consumo di merci che non sono beni. A differenza della recessione, che è una diminuzione generalizzata e incontrollata di tutta la produzione di merci, la decrescita implica l’introduzione di criteri qualitativi di valutazione del lavoro umano. Non ritiene che il lavoro possa essere un fare privo di connotazioni qualitative finalizzato a fare sempre di più (la crescita del Pil), anche quando ne derivi un peggioramento della qualità della vita (vedi le recenti alluvioni conseguenti alla cementificazione del territorio), ma ritiene che debba essere un fare bene finalizzato a migliorare la qualità della vita.

Il fare non è un valore in se stesso, perché si può anche fare male. Solo il fare bene è un valore. Tra la recessione e la decrescita c’è una differenza analoga a quella che intercorre tra una persona che non mangia perché non ha da mangiare e una persona che non mangia perché ha deciso di fare una dieta. Se la conseguenza socialmente più drammatica della recessione è la disoccupazione, la decrescita comporta invece, al contrario di quanto generalmente si crede, l’aumento di un’occupazione con caratteristiche di grandissimo interesse. Innanzitutto si tratta di un’occupazione utile perché riduce sprechi che causano danni. Inoltre richiede l’adozione di tecnologie più evolute di quelle attualmente in uso, finalizzate però non ad aumentare la produttività, ma a ridurre, a parità di benessere:

1.1. il consumo di materie prime;

1.2. il consumo di energia;

1.3. la quantità di oggetti portati allo smaltimento (incenerimento e interramento).

Infine paga i costi d’investimento che richiede con la riduzione dei costi di gestione, senza aumentare i debiti pubblici. Se si ristruttura una casa e i suoi consumi di riscaldamento diminuiscono da 20 a 7 litri di gasolio / metri cubi di metano al metro quadrato all’anno, i costi della sua bolletta energetica si riducono dei due terzi e in un certo numero di anni i risparmi consentono di ammortizzare i costi d’investimento. In termini generali il fare bene e l’occupazione utile, finalizzati alla riduzione selettiva della produzione e del consumo di merci che non sono beni, liberano del denaro che oggi si spende per acquistare risorse che si sprecano e di pagare con quel denaro i salari e gli stipendi di chi lavora per ridurre gli sprechi di quelle risorse.

La decrescita selettiva della produzione e del consumo di merci che non sono beni è l’unico modo per superare la crisi che dal 2007 affligge i paesi industrializzati.

I beni che possono non essere merci

Alcuni beni e servizi si possono ottenere più vantaggiosamente non sotto forma di merci, ma con l’autoproduzione o mediante scambi non mercantili fondati sul dono e la reciprocità. I beni autoprodotti e i beni scambiati sotto forma di doni reciproci non solo non fanno crescere il Pil, ma lo fanno decrescere perché fanno diminuire la domanda delle merci corrispondenti. Pertanto le economie finalizzate alla crescita non possono non indurre a sostituire i beni autoprodotti con merci e gli scambi non mercantili con scambi mercantili. Pur rimanendo all’interno di libere scelte, queste sostituzioni sono state rese pressoché inevitabili attraverso due tipi di interventi.

In primo luogo sono stati sradicati dal patrimonio delle conoscenze condivise quei saperi che per millenni hanno consentito agli esseri umani di autoprodurre molti beni essenziali per la sopravvivenza quotidiana: l’orticoltura e l’allevamento per autoconsumo, l’utilizzo controllato delle fermentazioni per produrre cibo e bevande (pane, formaggio, vino, birra), le tecniche di conservazione dei cibi deperibili, le manutenzioni e le piccole riparazioni, le tecniche di base del cucito ecc.

Nel giro di due generazioni gli esseri umani inseriti nei sistemi economici finalizzati alla crescita sono stati deprivati di queste abilità e sono diventati totalmente dipendenti dal mercato per la soddisfazione dei bisogni più elementari. In questo passaggio le perdite sono state superiori ai vantaggi, perché i beni autoprodotti costano meno e sono qualitativamente migliori delle merci che li hanno sostituiti, ma soprattutto perché è venuta meno la caratteristica distintiva della specie umana rispetto a tutte le altre viventi: la capacità di fare delle cose utili che non esistono in natura adoperando le mani sotto la guida dell’intelligenza progettuale, e la capacità di farle sempre meglio rielaborando le informazioni che le mani, quando fanno, offrono all’intelligenza attraverso le due funzioni del tatto e della prensione.

Il secondo modo in cui si è accresciuta la dipendenza degli individui dall’acquisto di merci è stata la distruzione delle reti di protezione offerte dalle relazioni di carattere comunitario basate sul dono del tempo e la reciprocità. Anche questo processo, che ha isolato gli individui costringendoli ad acquistare sotto forma di merci molti servizi che prima venivano scambiati reciprocamente senza l’intermediazione del denaro, è stato spacciato e vissuto a livello di massa come un processo di emancipazione, mentre in realtà poneva un ulteriore limite, ancora più forte, all’autonomia delle persone, accrescendone la dipendenza dal mercato e trasformando tutte le relazioni in rapporti commerciali, cioè competitivi, e non più collaborativi.

In seconda istanza la decrescita si realizza pertanto aumentando la produzione e l’uso di beni che non sono merci.

I beni che si possono avere solo sotto forma di merci

I beni a tecnologia evoluta, o che richiedono competenze tecniche specialistiche, si possono avere solo sotto forma di merci. Se si ha bisogno di un computer, di un orologio, di una risonanza magnetica, non si può fare a meno di acquistarli. La decrescita non implica la riduzione dei beni che si possono avere solo sotto forma di merci, perché ciò comporterebbe un peggioramento della qualità della vita. La decrescita comporta un miglioramento della qualità della vita solo nei casi in cui il meno coincide col meglio. La decrescita indiscriminata non è concettualmente alternativa alla crescita indiscriminata. Non costituisce un cambiamento di paradigma culturale.

Tuttavia, anche nell’ambito dei beni che si possono ottenere solo in forma di merci si può realizzare una decrescita che costituisce un miglioramento:

1. contrastando l’obsolescenza programmata, ovvero progettando oggetti che durano più a lungo, possono essere riparati, possono essere resi più performanti sostituendo soltanto i componenti che accrescono l’efficienza;

2. producendo oggetti riparabili;

3. progettando oggetti che al termine della loro vita utile possano essere smontati in modo da suddividere per tipologie omogenee i materiali di cui sono composti, al fine di poterli riutilizzare per costruire altri oggetti, riducendo così i rifiuti e il consumo di materie prime.

I beni che non si possono avere sotto forma di merci

Nel famoso discorso tenuto il 18 marzo 1968 all’Università del Kansas, Robert Kennedy disse che il Pil «misura tutto eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta». Si riferiva alla creatività e alle relazioni umane, ai legami familiari in particolare, che rappresentano il nocciolo duro dei rapporti comunitari, scalfiti ma non del tutto smantellati dalla mercificazione.

In realtà i sistemi economici finalizzati alla crescita del Pil non si limitano a ignorare il contributo insostituibile fornito al benessere delle persone dai rapporti d’amore, di solidarietà, di empatia nei confronti degli altri. S’impegnano attivamente a ridimensionarli, perché ritengono che possano costituire fattori di distrazione rispetto alla dedizione totale che gli individui nella fascia d’età produttiva devono dedicare alla produzione di merci. Non per cinismo, ma perché valutano e inducono a credere che quello sia il parametro del benessere. Per far sì che le energie migliori siano dedicate al lavoro, affidano a una serie di istituzioni il compito di gestire, sotto forma di servizi mercificati, le relazioni più intime che gli esseri umani hanno da sempre vissuto nell’ambito della famiglia.

I primi a essere privati delle connotazioni relazionali familiari sono stati gli uomini, che da padri, figli, fratelli, mariti sono stati ridotti esclusivamente a produttori di merci. I loro elementi connotativi sono diventati il lavoro e il reddito. La conseguenza più evidente di questo impoverimento è stata la perdita della figura paterna, che ha creato gravi problemi, non solo all’educazione dei figli, diventando un potente fattore di disgregazione a livello sociale. La riduzione al ruolo di produttori e consumatori di merci si è poi gradualmente estesa anche alle donne e la famiglia si è trasformata da struttura comunitaria in un soggetto di spesa sempre più dipendente dal mercato per la soddisfazione dei bisogni vitali dei suoi componenti.

Per il benessere delle persone, i beni relazionali, la creatività e la spiritualità sono molto più importanti dell’aumento del reddito, e la felicità, come è stato dimostrato da numerose ricerche empiriche, non è influenzata significativamente dalle variazioni di quest’ultimo. In particolare, nel 1974 l’economista Richard Easterlin, ha documentato che all’aumento del reddito la felicità umana aumenta fino a un certo punto, poi comincia a diminuire, seguendo una curva a U rovesciata. Il risultato di questa ricerca contraddiceva l’assunto fondante del sistema di valori che identifica il benessere con la crescita del Pil, tanto che fu definito il paradosso della felicità.

La quarta modalità di realizzare la decrescita consiste nella riduzione del tempo dedicato alla produzione di merci e nell’aumento del tempo dedicato alle relazioni umane.

Decrescita felice non è austerità, rinuncia, pauperismo

Solo la consapevolezza della differenza tra il concetto di merce e il concetto di bene consente di introdurre elementi di valutazione qualitativi del fare umano evitando di confondere la decrescita con l’austerità, la rinuncia, l’impoverimento, perché se la crescita può essere considerata fattore di benessere solo da chi identifica il più col meglio - e non è vero – la decrescita non è l’identificazione del meno col meglio – che non è vero ugualmente – né la scelta del meno anche se è peggio, per ragioni etiche, perché si configurerebbe come rinuncia e la rinuncia implica la valutazione positiva di ciò a cui si rinuncia, ma è il rifiuto del più quando si valuta che sia peggio e la scelta del meno quando si valuta che sia meglio.

La decrescita non si identifica nemmeno con la sobrietà, anche se la sobrietà è un valore che contribuisce a realizzare la decrescita mediante la riduzione degli sprechi negli stili di vita, né col pauperismo, come sostengono alcuni critici prevenuti. Se si fonda sulla distinzione tra i concetti di merce e bene, presuppone scelte edonistiche.

È maggiormente felice chi lavora tutto il giorno per avere un reddito che gli consenta di comprare più merci da buttare sempre più in fretta, o chi lavora di meno e trascorre più tempo con le persone a cui vuole bene, perché compra solo le merci che gli servono e può vivere con un reddito inferiore? Quale dei due rinuncia a qualcosa?

Decrescita, ricchezza e povertà

Nelle società in cui l’economia è finalizzata alla crescita del Pil, il denaro è, inevitabilmente, la misura della ricchezza. Se la maggior parte dei beni si ottengono sotto forma di merci, chi ha più soldi può comprarne di più. Ma i beni possono essere identificati con le merci solo da chi non può contare su una rete di solidarietà ed è incapace di autoprodurre alcunché. Per chi sa autoprodurre una parte dei beni di cui ha bisogno e può contare su una rete di solidarietà il denaro non è la misura della ricchezza, ma il mezzo per poter acquistare quei beni che si possono avere solo sotto forma di merci. Chi non sa autoprodurre nulla e non può contare su una rete di solidarietà dipende totalmente dal mercato per la soddisfazione dei suoi bisogni.

Chi sa autoprodurre ed è inserito in una rete di solidarietà è più autonomo. L’Italia importa il gas di cui ha bisogno dalla Russia e dalla Libia. Tra una famiglia con più soldi che riscalda la propria abitazione con un impianto alimentato a gas, e una famiglia con meno soldi che coltiva un pezzo di bosco da cui ricava la legna per alimentare delle stufe, quale è più ricca se Putin e i successori di Gheddafi decidono di chiudere i rubinetti dei gasdotti? Si può farcire un panino con un biglietto di dieci euro?

I sistemi economici fondati sulla crescita della produzione di merci misurano la ricchezza con il valore monetario del Pil pro-capite. In realtà il valore del Pil pro-capite misura il livello di mercificazione di un sistema economico e produttivo. Un popolo in cui l’autoproduzione soddisfa la massima parte del fabbisogno alimentare e i rapporti di solidarietà riducono al minimo i litigi e le spese legali ha un Pil pro-capite inferiore a quello di un popolo in cui tutta la popolazione deve comprare cibo coltivato chissà come e le spese legali sono alte perché è alto il tasso di competizione e di litigiosità. Ma quale dei due ha una migliore qualità della vita?

La finalizzazione dell’economia alla crescita è la causa della crisi ambientale.

La crescita economica non è di per sé un fatto negativo e, anzi, offre dei vantaggi, se:

- la quantità di risorse rinnovabili che vengono trasformate in merci non eccede la loro capacità di rigenerazione annua,

- le emissioni dei cicli produttivi che sono metabolizzabili dai cicli biochimici non eccedono le loro capacità di metabolizzarli,

- non vengono prodotte ed emesse sostanze non metabolizzabili dai cicli biochimici,

- i materiali contenuti negli oggetti dismessi e negli scarti non si accumulano in qualche matrice della biosfera, ma vengono riutilizzati per produrre altre merci.

Se si rispettano questi vincoli entropici, la qualità della vita migliora se aumentano i beni e i servizi che consentono alla specie umana di non patire la fame, il freddo e il caldo, di alleviare il dolore e la fatica, di curare le malattie, di ampliare i saperi e il saper fare, di togliersi dei capricci, di oziare.

È la finalizzazione dell’economia alla crescita a creare problemi sempre più gravi sia al pianeta terra, sia alla specie umana, perché, se l’obiettivo delle attività economiche e produttive è accrescere di anno in anno la produzione di merci, il consumo delle risorse rinnovabili cresce di anno in anno fino ad eccedere la loro capacità di rigenerazione, le emissioni metabolizzabili aumentano fino ad eccedere la capacità di assorbimento da parte della biosfera, si utilizzano quantità crescenti di risorse non rinnovabili fino al loro esaurimento, si sintetizzano sostanze non metabolizzabili dai cicli biochimici, per tenere alta la domanda di merci se ne accelera la trasformazione in rifiuti, si intasa l’atmosfera di gas nocivi, si ricoprono superfici sempre più vaste del pianeta di incrostazioni di materiali inorganici, di sostanze putrescenti, di sostanze non biodegradabili, di sostanze inquinanti.

Un sistema economico e produttivo finalizzato alla crescita ha le caratteristiche di un tumore: si nutre sottraendo quantità crescenti di sostanze vitali all’organismo in cui si sviluppa, ne altera progressivamente le funzioni e i cicli biochimici, lo fiacca riducendone giorno dopo giorno la capacità di nutrirlo e muore nel momento in cui lo fa morire. Che la crescita economica abbia già ridotto la capacità della biosfera di nutrirla e di assorbire i suoi scarti è testimoniato da alcuni indicatori fisici ampiamente documentati:

- dal 1987 la specie umana consuma prima del 31 dicembre una quantità di risorse rinnovabili pari a quelle rigenerate annualmente dal pianeta e, da allora, si avvicina di anno in anno la data del loro esaurimento: è stata il 21 ottobre nel 1993, il 22 settembre nel 2003, il 20 agosto nel 2013;

- nel settore petrolifero il rapporto tra l’energia consumata per ricavare energia e l’energia ricavata (eroei: energy returned on energy invested) tra il 1940 e il 1984 (data dell’ultima rilevazione pubblicata da una rivista scientifica internazionale), è sceso da 1 a 100 a 1 a 8; dal 1990 ogni anno si consuma una quantità di barili di petrolio molto superiore a quanta se ne trovi in nuovi giacimenti: 29,9 miliardi a fronte mediamente di meno di 10 miliardi (dato 2011);

- le emissioni di anidride carbonica eccedono in misura sempre maggiore la capacità dell’ecosistema terrestre di metabolizzarle con la fotosintesi clorofilliana, per cui se ne accumulano quantità sempre maggiori in atmosfera: sono state 270 parti per milione negli ultimi 650 mila anni, sono diventate 380 nel corso del XX secolo, nel mese di maggio del 2013 hanno raggiunto il valore di 400, lo stesso del Pliocene, circa 3 milioni di anni fa, quando la specie umana non era ancora comparsa, la temperatura media del pianeta era più calda dell’attuale di 2 – 3 °C, il livello dei mari era più alto di 25 metri;

- in conseguenza dell’aumento delle concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera, nel secolo scorso la temperatura media della terra è aumentata di 0,74 °C e, secondo l’Unione Europea, se si riuscirà a ridurre le emissioni del 20 per cento entro il 2020, obbiettivo pressoché impossibile da raggiungere perché non rientra tra le priorità politiche di nessun partito, l’aumento della temperatura terrestre in questo secolo potrà essere contenuto entro i 2 °C, quasi il triplo del secolo scorso;

- negli oceani Atlantico e Pacifico galleggiano ammassi di frammenti di plastica estesi come gli Stati Uniti, con una densità di 3,34 x 106 frammenti al km²;

- la fertilità dei suoli agricoli si è drasticamente ridotta e la biodiversità diminuisce di anno in anno (si estinguono 50 specie al giorno, a un ritmo da 100 a 1000 volte superiore rispetto a quello naturale).

La finalizzazione dell’economia alla crescita è la causa della crisi economica dei paesi industrializzati

Il 6 ottobre il capo del personale della Volkswagen, Horst Neumann, ha dichiarato in un’intervista che nei prossimi anni andranno in pensione 32.000 dipendenti, ma non potranno essere rimpiazzati da nuovi assunti perché la concorrenza internazionale non lo consente. Nell’industria automobilistica tedesca il costo del lavoro è superiore a 40 euro all’ora, mentre nell’Europa dell’est è di 11 euro e in Cina di 10. In queste condizioni l’unica possibilità per rimanere competitivi è la sostituzione degli operai con robot, che attualmente per lo svolgimento dei lavori ripetitivi hanno un costo orario di 5 euro, destinato ad abbassarsi in conseguenza dell’evoluzione tecnologica del settore.

Ma i robot comprano anche le automobili che contribuiscono a produrre? Hanno bisogno di cibo e vestiti? Di una casa, di un letto e delle coperte? Vanno al cinema o in vacanza al mare? Mandano i figli a scuola? Non ci vuole molto a dedurre che la sostituzione delle operaie e degli operai con macchine che producono di più e costano di meno, comporta un aumento dell’offerta e una diminuzione della domanda di merci.

Questa è la causa della crisi iniziata nel 2008, che in Italia ha già comportato una riduzione del Pil superiore a quella causata dalla grande depressione del 29. Una crisi da cui non si riesce a venir fuori, né ci si riuscirà se si continuerà a pensare che il fine dell’economia sia la crescita della produzione di merci e la globalizzazione sia una cosa buona. Il fatto è che i due fenomeni sono inscindibili: le economie dei paesi industrializzati non possono continuare a crescere se non cresce il numero dei produttori e dei consumatori di merci al di fuori dei loro confini, se non possono continuare a rifornirsi al di fuori dei loro confini delle quantità crescenti di materie prime e di fonti fossili di cui hanno bisogno, se non possono vendere quantità crescenti dei loro prodotti al di fuori dei loro confini. Ovvero, se il modo di produzione industriale non si estende a percentuali sempre maggiori della popolazione mondiale.

Ciò implica il coinvolgimento nelle dinamiche del mercato globale di paesi in cui costi e tutele dei lavoratori sono inferiori. Senza globalizzazione le economie dei paesi di più antica industrializzazione non crescerebbero più, ma la globalizzazione le mette in crisi. Per sostenere la concorrenza internazionale, questi paesi hanno tre possibilità: sostituire i lavoratori con macchine aumentando la disoccupazione, trasferire le proprie aziende nei paesi in cui il costo del lavoro è più basso, ridurre il costo e le tutele dei lavoratori nei propri paesi.

In tutti e tre i casi, le condizioni di vita dei loro popoli sono destinate a peggiorare e la domanda interna a diminuire. Per questo le loro economie sono entrate in crisi e non riescono a venirne fuori.

La finalizzazione dell’economia alla crescita causa uno squilibrio permanente tra aumento dell’offerta e diminuzione della domanda di merci, che è stato compensato facendo ricorso per decenni ai debiti pubblici e privati per sostenere la domanda, fino a quando il loro ammontare ha raggiunto un valore così alto da mettere in difficoltà il sistema bancario, facendo fallire nel 2008 alcuni tra i più importanti istituti di credito del mondo. Dal quel momento la crescita, che, pur mantenendosi positiva, aveva registrato tassi d’incremento decrescenti dopo i livelli raggiunti nei trent’anni seguenti alla fine della seconda guerra mondiale, si è bloccata e le misure tradizionali di politica economica non sono state in grado di farla ripartire, perché se sono finalizzate a ridurre il debito pubblico deprimono la domanda e l’aggravano, se sono finalizzate a sostenere la domanda per rilanciare la produzione richiedono un aumento dei debiti. Nei paesi industrializzati la crescita è arrivata al livello in cui si blocca da sé.

La finalizzazione dell’economia alla crescita è la causa della povertà dei popoli poveri e delle guerre per il controllo delle risorse

Per sostenere la loro crescita economica, i paesi industrializzati hanno depredato per secoli le risorse di cui avevano bisogno da tutti i luoghi del mondo in cui si trovavano. I metodi che hanno utilizzato sono quanto di peggio gli esseri umani hanno fatto nel corso della storia. Dagli ultimi decenni del secolo scorso, e con un’accelerazione crescente dall’inizio di questo secolo, questa dinamica, che ha causato sofferenze inenarrabili, si è accentuata, perché il fabbisogno di materie prime da trasformare in merci ha avuto un impulso straordinario dalla crescita economica di quattro paesi in cui vive quasi la metà della popolazione mondiale: Brasile, India, Cina e Russia.

Oltre ad aver aggravato tutti i fattori della crisi ecologica, l’aumento dei pretendenti ha moltiplicato le guerre per il controllo delle risorse. A ragione papa Francesco ha parlato di una terza guerra mondiale in corso, benché frammentata in una serie crescente di conflitti locali. Oltre ad accrescere la povertà dei popoli poveri e le guerre, il fabbisogno crescente di risorse per sostenere la crescita economica dei paesi di antica e di recente industrializzazione sta compromettendo drammaticamente la vita delle generazioni future: gli abitanti dei paesi che hanno finalizzato le loro economie alla crescita stanno mangiando non solo nei piatti dei popoli poveri, ma anche nei piatti dei loro nipoti e pronipoti.

La fine dell’epoca storica iniziata tre secoli anni fa con il modo di produzione industriale

Le considerazioni svolte sino ad ora inducono a ritenere che si stia concludendo l’epoca storica iniziata circa tre secoli fa con la rivoluzione industriale. Tutte le crisi in atto – la crisi ecologica e climatica, la crisi economica e occupazionale, la crisi dei rapporti internazionali e la moltiplicazione delle guerre, la diffusione delle povertà, delle iniquità e della violenza, le crisi umanitarie, le migrazioni di massa – sono intrecciate tra loro, si rafforzano a vicenda ed hanno un’unica causa nella finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione e del consumo di merci.

Se si continuerà a ritenere che questo sia il fine dell’economia e la ristretta élite che governa il mondo continuerà a impiegare tutto il suo potere nel tentativo di farla ripartire, tutti i fattori di crisi sono destinati ad aggravarsi, come sta succedendo da qualche decennio, e questa epoca storica si chiuderà con un crollo, come è accaduto all’impero romano, ma le conseguenze saranno molto più drammatiche.

L’alternativa è un grande slancio creativo e progettuale finalizzato all’elaborazione di un nuovo paradigma culturale in cui il patrimonio delle conoscenze scientifiche e tecnologiche accumulato dall’umanità sia indirizzato a connotare qualitativamente il lavoro umano, trasformandolo dal fare finalizzato a fare sempre di più cui è stato ridotto, a un fare bene per aggiungere bellezza alla bellezza originaria del mondo. In questa prospettiva la ricerca scientifica e le innovazioni tecnologiche dovranno essere indirizzate ad accrescere l’efficienza nell’uso delle risorse, a ridurre gli sprechi, a sostituire le sostanze inquinanti con sostanze metabolizzabili dai cicli biochimici, a ridurre le emissioni di sostanze metabolizzabili in misura compatibile con le capacità della biosfera. A una decrescita selettiva della produzione di merci che non sono beni.

Ma per dare questo nuovo slancio alla scienza e alla tecnica occorre elaborare un sistema di valori che promuova e renda desiderabili la collaborazione, la solidarietà, la misura, la convivialità, la creatività, la contemplazione. Occorre riscoprire che gli esseri umani non sono soltanto produttori e consumatori di merci, ma hanno una dimensione spirituale che non può essere subordinata e sacrificata al lavoro.

Non possono essere ridotti a mezzi di un sistema finalizzato alla crescita della produzione di merci, ma la produzione di merci deve tornare ad essere il mezzo di cui essi si servono per ridurre la loro dipendenza dalla necessità, migliorare la qualità della loro vita, realizzare le proprie esigenze conoscitive, creative, relazionali. La decrescita, così come abbiamo cercato di descriverla, è la strada che consente di raggiungere questa meta.

http://www.mdfmilano.org/2014/12/14/i-p ... se-stessa/



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 Oggetto del messaggio: Re: Rinascita Sociale Globale
MessaggioInviato: 17/04/2015, 22:26 
Grazie per l'ottima lettura!

Le idee ci sono..... bisognerebbe solo metterle in pratica [:D]



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 Oggetto del messaggio: Re: Rinascita Sociale Globale
MessaggioInviato: 17/04/2015, 22:59 
Seeker ha scritto:
Grazie per l'ottima lettura!

Le idee ci sono..... bisognerebbe solo metterle in pratica [:D]



Seeker, "lavorare meno lavorare tutti" è uno slogan che risuonava nelle orecchie già un trentennio fa: è ora di metterlo in pratica. [:290]
Ultimamente stanno ritornando in auge molti degli slogan che un tempo venivano gridati nelle manifestazioni di piazza.



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 Oggetto del messaggio: Re: Rinascita Sociale Globale
MessaggioInviato: 18/04/2015, 14:47 
Tasse opzionali, nessuna presenza militare e nessuna criminale, rispetto inalienabile della proprietà privata e della libertà propria e altrui: questa è Liberland, il nuovo stato sovrano nato in Europa!

La "città dell'utopia" e della libertà esiste in Europa, e precisamente tra la Croazia e la Serbia.

Immagine

Ma niente a che vedere con suggestioni campanelliane, fantasie comuniste o con luoghi di "compensazione" per vecchi e nuovi hippy in fuga da sé stessi e dal mondo.

Tutt'altro: Liberland, questo il nome della micronazione, offre una reale alternativa all'attuale sistema sociale, fondandosi su un modello che incentivi la promozione di libertà e responsabilità personale nel rispetto di quella altrui.

Per prima cosa, Liberland si fonda sul diritto inalienabile della proprietà privata, e per ciò le tasse sono opzionali e non coercitive, come invece succede generalmente nel resto del mondo, nonostante ciò rappresenti nei fatti un'attacco alla proprietà privata dei singoli individui, teoricamente ( ma spesso non praticamente ) difesa nelle costituzioni statali.

Liberland si basa anche sull'assenza di militari, visto che gli individui hanno un tasso di responsabilità che li porta al rispetto della libertà e dei diritti altrui senza bisogno di forza, e non c'è posto per criminali e per chi vuole danneggiare gli altri.

Politicamente Liberland si fonda su una repubblica costituzionale fondata sulla democrazia diretta e ideologicamente si rifà ai principi del liberalismo/libertarismo eurostatunitense.

Inoltre, la libertà di espressione è fortemente garantita e non c'è spazio per l'estremismo, tanto che formalmente tra i requisiti c'è quello di non avere niente a che vedere con ideologie come il comunismo o il nazismo, e sicuramente tale scelta non riguarda le personali simpatie e opinioni (difese nei principi della micronazione) ma serve a scongiurare che la stessa Liberland possa diventare l'avamposto di militanti estremisti in cerca di "rifugi".

Fonti usate per l'articolo e per approfondire:

http://liberland.org/en/about/

http://www.theblaze.com/stories/2015/04 ... w-country/

http://informazioneconsapevole.blogspot ... vrano.html



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 Oggetto del messaggio: Re: Rinascita Sociale Globale
MessaggioInviato: 18/04/2015, 14:53 
de la cosa va avanti tempo un paio d'anni e diventerà un paradiso fiscale ^_^



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 Oggetto del messaggio: Re: Rinascita Sociale Globale
MessaggioInviato: 18/04/2015, 15:23 
MaxpoweR ha scritto:
de la cosa va avanti tempo un paio d'anni e diventerà un paradiso fiscale ^_^


Maledetti "rettiliani"... rovinano sempre tutto!

[:D]



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 Oggetto del messaggio: Re: Rinascita Sociale Globale
MessaggioInviato: 19/04/2015, 02:34 
Atlanticus81 ha scritto:
MaxpoweR ha scritto:
de la cosa va avanti tempo un paio d'anni e diventerà un paradiso fiscale ^_^


Maledetti "rettiliani"... rovinano sempre tutto!

[:D]



Beh loro almeno sanno cosa vogliono e come ottenerlo :) Noi siamo solo delle stupide scimmie ammaestrate [:293]



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 Oggetto del messaggio: Re: Rinascita Sociale Globale
MessaggioInviato: 20/04/2015, 14:58 
La rivoluzione comincia da te!

Immagine

Se è vero, come spesso ci piace affermare, che in quanto essere umani siamo la specie più intelligente del regno animale, allora perché esistono lo sfruttamento, l'inquinamento, la guerra, la povertà e tutte le altre distorsioni che permeano così profondamente la nostra società?

«La colpa è dei politici che non fanno le riforme che dovrebbero fare», afferma il socialista;

«La colpa è dei preti che indottrinano la massa al fine d'indurla a credere invece che a pensare», sostiene l'ateo;

«La colpa è dei capitalisti che sfruttano in modo indiscriminato le risorse comuni e gli esseri umani al sol fine del profitto», grida il marxista;

«La colpa è del sistema economico che spinge alla crescita, all'iper-consumo e causa l'inquinamento ambientale», argomenta il decrescitista;

«La colpa è della finanza che non è regolamentata e di una cattiva gestione della moneta», ci spiega l'economista interventista keynesiano...

ma è realmente così che stanno le cose?

Certo, quello che avete appena letto è innegabile, ma se pensate che la società possa migliorare perché improvvisamente i politici attuino le “giuste” riforme, i preti e i capitalisti smettano rispettivamente d'indottrinare e di sfruttare la massa o perché il sistema economico venga regolamentato a vantaggio di tutti... siete degli ingenui!

Perché vi dico questo? Non vi offendete, ora cercherò di spiegare...

Beh, se ci pensate solo per un attimo capirete che quei cambiamenti dovrebbero essere attuati dai membri di quelle istituzioni che si adoperano incessantemente per legittimare potere e ricchezza alle élites che siamo soliti incolpare!

Nulla di strato, si tratta di un noto meccanismo per il controllo sociale.

Infatti, se il popolo si convince che le soluzioni debbano arrivare dalla stessa minoranza che li tiene sotto controllo, li opprime e li sfrutta, allora il potere può continuare indisturbato la sua opera di dominio, e tutto ciò continuerà ad avvenire indipendentemente da quanto intensamente la massa si dedichi all'arte della polemica, dell'addossare le colpe e del pretendere l'attuazione delle soluzioni “dall'alto”.

Lasciate perdere, è tutto inutile! O forse volete ancora continuare a pensare che i problemi verranno risolti dagli stessi attori che li hanno generati?

Non l'avete notato? I politici agiscono per il bene del paese; i preti per il bene delle nostre anime e per quello dei poveri; i sindacati per il bene dei lavoratori; gli economisti per far funzionare il sistema economico a vantaggio di tutti; i capitalisti per il bene dei consumatori...

eppure il nostro paese è sull'orlo del fallimento; le anime saranno pure in salvo, ma si può dire lo stesso dei corpi di chi è condannato alla fame, alla miseria e allo sfruttamento?; i lavoratori sono sempre più sfruttati e al tempo stesso meno tutelati; il sistema economico non riesce a garantire condizioni di vita dignitose per tutti; i prodotti che consumiamo sono in larga parte scadenti e hanno lo strano vizio di guastarsi puntualmente allo scadere della garanzia.

D'altro canto i politici percepiscono dei lauti stipendi; la cura metafisica dell'anima è gravata dall'onere concreto di dover mantenere ben in carne i rappresentanti di Dio; il divario sociale e l'ingiustizia aumentano sempre più; nonostante la crisi i capitalisti riescono comunque ad ottenere un cospicuo profitto...

il tutto a discapito delle condizioni di vita della maggior parte degli esseri umani, ovviamente!

Caspita, ma con tutta questa gente che sostiene di agire per il nostro bene, come fa il mondo ad essere pieno di gente che sta così male!?!

In realtà, la spiegazione di questo fatto "paradossale" è molto semplice.

Chi detiene il potere non ha la minima intenzione di attuare le soluzioni che consentirebbero di garantire benessere, abbondanza e libertà per tutti, perché sa benissimo che quelle azioni sono del tutto inconciliabili con il raggiungimento dei veri fini dell'élites.

Realizzare una società a misura d'essere umano, infatti, significa come minimo porre fine alle tipiche pratiche di controllo e di sfruttamento che sono strettamente necessarie per dominare la massa, e per poter raggiungere degli egoistici obiettivi di profitto elitario.

«Chiedere al potere di riformare il potere, che assurdità!» l'aveva già intuito Giordano Bruno, che ovviamente i membri dell'Inquisizione della Chiesa Cattolica hanno subito sistemano con una condanna al rogo (che strano!).

Ma allora, che fare? Dobbiamo forse rassegnarci ad un futuro di sfruttamento e povertà? Neanche per sogno!

Nonostante quell'1% che trae notevoli vantaggi dall'attuale sistema cerchi in tutti i modi di far credere al restane 99% che i tirapiedi dell'élites stiano lì a cercare di migliorare in tutti i modi le condizioni di vita degli esseri umani, e che quindi sia sufficiente lamentarsi, attendere e sperare, per fortuna c'è almeno un'altra strategia ben più efficace per risolvere i problemi:

agire in prima persona, facendo in modo che le soluzioni arrivino “dal basso”.

Per comprenderlo bisogna essere disposti ad effettuare un cambio di prospettiva, partendo da un semplice dato di fatto:

ogni società è sempre la somma delle azioni degli individui che la compongono, quindi bisogna innanzitutto convincersi che se il mondo è quel disastro che possiamo osservare la colpa è nostra.

Sì, proprio così: non sono gli altri i primi responsabili bensì noi stessi! Impossibile? Invece no...

la colpa è nostra, se speriamo che i politici asserviti alle esigenze del capitalisti realizzino le manovre necessarie al benessere dell'umanità;

la colpa è nostra, se invece di pensare in modo scettico razionale iniziamo a credere in modo acritico e fideistico alle fandonie che gli stregoni diffondono per legittimare la loro millenaria istituzione di potere (leggasi Chiesa Cattolica);

la colpa è nostra, che ci concediamo ai capitalisti e ci lasciamo sfruttare, concedendogli il lusso di trattenere una parte del frutto del nostro lavoro;

la colpa è nostra, se cediamo ai condizionamenti del sistema economico, e iniziamo a iper-consumare in modo stupido, superfluo ed irresponsabile;

la colpa è ancora nostra quando ci rechiamo dagli strozzini legalizzati (i banchieri) a chiedere un mutuo, assicurandogli così una rendita parassitaria con il nostro lavoro;

la colpa è sempre nostra, quando investiamo in borsa per cercare di speculare un po' d'interesse senza far nulla, scaricando i veri oneri sulle spalle degli altri.

Siamo noi che cedendo alle volontà del sistema creiamo le condizioni necessarie affinché il sistema esista;

siamo noi che permettiamo che le storture e le ingiustizie continuino a perpetrarsi, quando innanzi ad esse ci giriamo dall'altra parte e facciamo finta che non esistano, invece di opporci ed agire con forza in modo che non si verifichino più;

siamo sempre noi che prendendo coscienza ed agendo in prima persona abbiamo lo straordinario potere di spezzare il meccanismo dell'odierna follia sociale.

Infatti, senza una massa d'individui che crede nelle promesse dei fantocci che il capitale mette in scena per abbindolaci, e che si mette in fila come un branco di pecore a votare “il meno peggio”, il potere dello stato svanirebbe e così anche l'azione vessatoria dell'attuale classe dirigente, venduta e corrotta.

Senza una massa d'individui disposta a illudersi e a credere alle menzogne dette da preti, vescovi, cardinali e papi, che partecipa puntualmente ai rituali magici non appena il pastore li chiama, le istituzioni religiose di potere, come quella millenaria della Chiesa Cattolica che, ricordiamolo ancora una volta, in passato si è macchiata dei peggiori crimini contro l'umanità, non troverebbero terreno fertile per legittimarsi e così si dissolverebbero nel nulla.

Senza una massa disposta a concedersi “spontaneamente” per farsi sfruttare, tutti gli sfruttatori parassitari non potrebbero né sfruttare, né sottrarre il frutto del lavoro altrui, e così dovrebbero anch'essi iniziare a lavorare al fianco di quegli esseri umani che solitamente erano soliti sfruttare.

Senza una massa che metta in atto volontariamente i comportamenti suggeriti dalla pubblicità o da altri condizionamenti sociali, iper-consumando in modo superfluo ed irresponsabile, l'attuale livello d'inquinamento e d'insostenibilità ambientale non sarebbe stato raggiunto.

Senza una massa disposta a indebitarsi con il sistema bancario, e che effettua operazioni speculative finanziarie per lucrare un po' d'interesse, le banche fallirebbero immediatamente ed il mercato finanziario collasserebbe, mostrando la sua futilità sociale.

Se speriamo che sia il potere a realizzare le condizioni di benessere per l'umanità, ci sbagliamo di grosso.

Il potere realizza le condizioni per legittimare se stesso ed i propri obiettivi, ricorrendo ad ogni forma d'inefficienza, propaganda, sfruttamento o violazione dei diritti umani, se necessario.

Se pensiamo di trovare la verità da coloro che con la menzogna e con l'inganno sopravvivono da circa 2000 anni, siamo semplicemente degli ingenui; così come quando pensiamo che i messaggi diffusi dai mass-media corrispondano a realtà.

Se aspettiamo che sia il nostro padrone a concederci la libertà, siamo degli illusi; così come quando pensiamo che l'attuale dinamica di lavoro, forzosa e totalizzante, sia indispensabile per la nostra emancipazione e non ci rendiamo minimamente conto che si tratta soltanto di una moderna forma di schiavitù.

Se ci lamentiamo dell'inquinamento ma poi siamo i primi responsabili con il nostro consumo smodato di beni e di combustibili fossili, siamo semplicemente degli ipocriti; esattamente come quando inorridiamo innanzi alle guerre, e poi per lavarci la coscienza ci rechiamo ad una marcia per la pace con le nostre auto alimentante a derivati del petrolio, pur sapendo benissimo che il predominio sulle risorse petrolifere rappresenta una delle cause principali dei conflitti armati nel mondo.

Ogni società per essere cambiata ha bisogno di fatti concreti: non bastano solo il pensiero e le parole, bisogna agire e sei proprio tu che devi iniziare a farlo!

Fin qui dovremmo essere tutti d'accordo, ma quand'è che inizia la rivoluzione?

La rivoluzione inizia quando comprendi che è possibile costruire un mondo migliore, qui e ora, impiegando la ragione per raggiungere l'unico vero fine: il benessere di tutti gli esseri viventi.

La rivoluzione inizia quando rimetti in discussione i dogmi del sistema sociale nel quale vivi, senza alcuna limitazione, partendo proprio dalle tue più intime convinzioni, come la fede politica o quella religiosa, avvalendoti di un sano pensiero scettico, logico e razionale.

La rivoluzione inizia quando smetti di credere che le soluzioni arriveranno dall'alto da parte di un'élite che a tutto pensa meno che al tuo benessere, e così inizi ad agire in prima persona per risolvere i tuoi problemi, quelli degli esseri umani che ti stanno vicino e quelli del resto dell'umanità.

La rivoluzione inizia quando sostituisti la competizione per fini individualistici alla cooperazione con scopi collettivistici, perché dal momento che possiamo cooperare per assicurare il benessere di tutti, comprendi che è stupido competere e lottare l'uno contro l'altro per stare un po' meglio a discapito delle condizioni di vita altrui, quando invece collaborando in modo sinergico potremmo star bene tutti senza alcun bisogno di ridicole contrapposizioni competitive.

La rivoluzione inizia quando rimetti al centro l'essere umano e non il profitto, eliminando così questa indesiderabile eterogenesi dei fini che colpisce come un cancro la nostra società, perché comprendi che il motivatore sociale non può essere la massimizzazione del profitto a tutti i costi, bensì il raggiungimento delle migliori condizioni di vita possibili per tutti gli esseri viventi.

La rivoluzione inizia quando smetti di violentare la tua mente con le idiozie dei grandi monoteismi, che ti ricattano con il castigo eterno e ti promettono l'illusoria ricompensa di un paradiso accessibile post mortem al modico prezzo dell'ignoranza e della sottomissione ai dettami del culto, e così inizi ad ambire ad un ben più utile paradiso reale che tutti insieme possiamo costruire qui su questa terra.

La rivoluzione inizia quando non sei più disposto a farti sfruttare e a tollerare lo sfruttamento degli altri esseri umani, e quindi sempre tu in prima persona non sei neanche più disposto a sfruttare gli altri, perché capisci che è una costa stupida, futile ed ingiusta.

La rivoluzione comincia quando comprendi che non è detto che l'economia debba per forza crescere, e che la decrescita può avvenire senza peggiorare le condizioni di vita degli esseri umani, ma al contrario, se opportunamente implementata, rappresenta la chiave per migliorarle, anche se è evidente che tutto ciò non può avvenire muovendosi all'interno delle risibili, inefficienti ed ingiuste logiche economiche capitalistiche, che quindi devono essere superate.

La rivoluzione inizia quando il tuo consumo di beni e servizi diventa responsabile, in particolare quando comprendi che le tue smodate abitudini di vita portano con sé un'impronta che si ripercuote negativamente sul benessere di tutti gli altri esseri viventi.

La rivoluzione inizia quando scientemente decidi di non contrarre debiti con le banche, e di non lucrare interesse con manovre finanziare speculative, perché comprendi che quelle azioni renderanno schiavo del sistema sia te che gli altri.

La rivoluzione inizia quando comprendi che le razze, la nazionalità e ogni altra classificazione rappresentano dei limiti che esistono solamente nella tua mente, in quanto prima di ogni altra cosa siamo tutti esseri umani.

La rivoluzione inizia quando comprendi che il potere di un altro essere umano non può esistere senza la tua legittimazione, che avviene grazie alla tua paura, il tuo rispetto, la tua ubbidienza e la tua sudditanza.

La rivoluzione inizia quando diventi consapevole del fatto che il denaro è soltanto un mero costrutto metafisico di chiara origine antropica, un semplice segno contabile memorizzato nei server delle banche, che non può avere alcun valore senza la fiducia che tu riponi in esso come intermediario per lo scambio di beni e servizi, e che sempre tu scegli di utilizzare nonostante non sia strettamente indispensabile, se non addirittura dannoso, per organizzare una struttura sociale a misura d'essere umano.

La rivoluzione inizia quando comprendi che il denaro è uno strumento che le élite utilizzano per esercitare il dominio sulla massa, decidendo scientemente di tenerlo scarso, nonostante sia virtualmente infinito e non abbia un vero costo in sé, assicurandosi il controllo dell'emissione che avviene sempre previa richiesta d'interesse, in modo da renderti schiavo di un debito eterno che costringe l'economia a crescere per non fallire.

La rivoluzione inizia quando comprendi il valore del tempo della vita, e così concepisci un nuovo sistema economico che non obblighi gli esseri umani a vivere per lavorare, ma che metta tutti gli individui in condizione di poter lavorare per vivere.

La rivoluzione inizia quando comprendi che le automazioni e l'intelligenza artificiale non rappresentano un pericolo in quanto possono "rubarci il lavoro", ma che al contrario sono dei mezzi fondamentali da impiegare in modo massivo per restituire tempo libero in abbondanza a tutti gli esseri umani, che potrebbero comunque avere accesso a costo zero ai prodotti realizzati da un sistema quasi completamente automatizzato.

La rivoluzione inizia quando comprendi che la disoccupazione in realtà è un falso problema, perché è sufficiente lavorare meno per poter lavorare tutti, pur mantenendo lo stesso stipendio semplicemente redistribuendo la ricchezza già esistente, oppure implementando un'apposita politica monetaria di integrazione per i redditi.

La rivoluzione inizia quando comprendi che anche gli animali sono esseri viventi esattamente come te in grado di provare sentimenti e dolore, quindi inizi a rispettarli invece d'impiegarli come semplici mezzi per soddisfare i tuoi fini.

La rivoluzione inizia quando comprendi che tu fai parte della natura e che anche la natura fa parte di te, quindi invece di distruggerla, inquinando l'ambiente che ti circonda, inizi a rispettarla, vivendo in modo sinergico con essa, perché sai che dalle condizioni di salute dell'ecosistema dipendono fortemente anche la tua salute e quindi la qualità della tua stessa vita.

La rivoluzione inizia quando ti guardi intorno e vedi che la natura non ha dato a nessun uomo il diritto di dominare gli altri o di possedere in più rispetto ai propri simili, e quindi capisci che sei solo tu che consenti ad una minoranza avida e parassitaria di dominarti e di avere in eccesso rispetto alla media, invece di suddividere in parti uguali la ricchezza che siamo in grado di realizzare.

La rivoluzione inizia quando ti rendi conto di quanto sia stupido ed ingiusto che una minoranza d'individui viva nell'opulenza mentre molti altri siano condannati alla povertà, quando la redistribuzione di quell'eccesso di ricchezza consentirebbe a tutti di vivere in modo più che dignitoso.

La rivoluzione inizia quando comprendi che ogni individuo è un essere unico e irripetibile, un capolavoro della natura che, in quanto tale, merita di vivere in condizioni di abbondanza e benessere del tutto equiparabili con quelle dei propri simili.

La rivoluzione inizia quando comprendi che è stupido assecondare le esigenze di un sistema folle e malato, quando sai benissimo che così facendo non farai altro che contribuire attivamente al concretizzarsi di tutte le storture che esso induce, e che compromettono la felicità, la salute ed il benessere di tutti gli esseri viventi, tu incluso, perché diventi consapevole del fatto che la tua ricchezza, ottenuta a discapito del benessere degli altri, non può renderti felice.

La rivoluzione inizia quando comprendi che una società che impiega la scienza e la tecnologia per minimizzare il lavoro umano, pur realizzando condizioni di abbondanza, sostenibilità e libertà per tutti, dove ciascun individuo contribuisce secondo le sue possibilità e riceve in base alle proprie necessità, rappresenta un mondo migliore per ogni essere umano, ricchi e potenti inclusi.

Quindi, se vogliamo realmente che i problemi che caratterizzano l'odierna società vengano risolti, abbiamo a disposizione una strategia potentissima:

quella di trovare noi stessi le soluzioni e di agire in prima persona cooperando con gli altri esseri umani per fare in modo che vengano attuate, ricordandoci sempre di guardare al nobile fine del benessere collettivo, e avendo anche cura di non rimandare questo compito fondamentale a loschi individui che in realtà lavorano al servizio del potere.

Se vogliamo migliorare la società, riattiviamo la nostra mente che è stata messa in standby da un lavoro totalizzante, dall'indottrinamento e dalla continua opera di mistificazione e di distrazione praticata dai mass-media.

Se vogliamo che lo sfruttamento finisca, troviamo un altro modo per vivere senza concederci agli sfruttatori, guardando alle infinite possibilità che ci concede la complessità della vita.

Se vogliamo che l'inquinamento finisca, cerchiamo di non inquinare per primi, adottando uno stile di vita rispettoso dell'ambiente che ci permette di vivere in armonia con essa.

Se vogliamo sfuggire ai meccanismi del debito, evitiamo di diventare servi del sistema bancario accendendo dei prestiti, rinunciando anche alle deleterie attività speculative del sistema finanziario che vanno a discapito di chi con il suo “vero” lavoro consente l'esistenza dei beni e dei servizi di cui anche tu hai bisogno.

Se vogliamo che la guerra finisca non rispondiamo alle offerte di lavoro delle aziende che producono armi e magari evitiamo anche di andare a fare i soldati.

Se vogliamo costruire una società migliore, rimettiamo al centro l'essere umano ed iniziamo a collaborare, non prima di esserci convinti del fatto che l'unico vero fine è quello del benessere collettivo.

E' del tutto inutile passare la propria vita esclusivamente a lamentarsi, a fare polemica o a dare la colpa agli altri, quando invece siamo noi per primi che con i nostri comportamenti concretizziamo quel costrutto antropico interagente che chiamiamo società.

Il Mahatma Gandhi disse: «sono le azioni che contano. I nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fintanto che non vengono trasformati in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo» e la società muterà con te.

Sì, anche tu puoi cambiare il mondo e puoi farlo in un modo molto semplice: iniziando ad agire in prima persona per fare la tua parte, ricordando sempre che la rivoluzione comincia da te!

Mirco Mariucci
Fonte: Utopia Razionale



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MessaggioInviato: 27/04/2015, 15:48 
Suggerisco il seguente libro scritto da Maurizio Pallante

http://www.macrolibrarsi.it/libri/__la_ ... izione.php

I segnali sulla necessità di rivedere il parametro della crescita su cui si fondano le società industriali continuano a moltiplicarsi: l'avvicinarsi dell'esaurimento delle fonti fossili e le guerre per averne il controllo, i mutamenti climatici, lo scioglimento dei ghiacciai, l'aumento dei rifiuti, le devastazioni e l'inquinamento ambientale.

Eppure gli economisti e i politici, gli industriali e i sindacalisti con l'ausilio dei mass media continuano a porre nella crescita del prodotto interno lordo il senso stesso dell'attività produttiva.

In un mondo finito, con risorse finite e con capacità di carico limitate, una crescita infinita è impossibile, anche se le innovazioni tecnologiche venissero indirizzate a ridurre l'impatto ambientale, il consumo di risorse e la produzione di rifiuti.

Queste misure sarebbero travolte dalla crescita della produzione e dei consumi in paesi come la Cina, l'India e il Brasile, dove vive circa la metà della popolazione mondiale. Né si può pensare che si possano mantenere le attuali disparità tra il 20 per cento dell'umanità che consuma l'80 per cento delle risorse e l'80 per cento che deve accontentarsi del 20 per cento.

Forse è arrivato il momento di smontare il mito della crescita, di definire nuovi parametri per le attività economiche e produttive, di elaborare un'altra cultura, un altro sapere e un altro saper fare, di sperimentare modi diversi di rapportarsi col mondo, con gli altri e con se stessi.



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MessaggioInviato: 01/05/2015, 11:44 
Medicina ribelle: ecco chi non sta al gioco di Big Pharma

Oggi comincia ad esistere una “medicina ribelle”, fatta da medici che hanno deciso di non stare più al gioco di Big Pharma; di non chinare più la testa di fronte al Dio denaro; di non chiudere più occhi e orecchie di fronte a ciò che stride; di non tacere più quando gli interessi vanno smascherati. Questa medicina ribella la racconta il giornalista Andrea Bertaglio nel suo ultimo libro.

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“Prima la salute, poi il profitto” è il sottotitolo del libro del giornalista Andrea Bertaglio (Età dell’Acquario Editore); un’affermazione in netta controtendenza al modo di agire e di pensare di quello che è oggi Big Pharma, il commercio globale non più solo di farmaci ma anche di malattie.

A spiegarci come è nato questo libro è lo stesso autore.

Andrea, cosa ti ha mosso a scrivere “Medicina ribelle”?

L’idea è nata diversi anni fa, insieme a Valerio Lo Monaco, direttore de La Voce del Ribelle, che mi commissionò un’intervista a Raffaele Di Cecco, un medico che si era appunto stancato di vedere certe dinamiche basate sul solo profitto in ambito medico. Da lì mi sono reso conto di conoscerne diversi di medici come lui, e ho pensato di raccontare le loro storie. Ho iniziato a raccogliere spunti e testimonianze e un paio di anni dopo ho parlato della mia idea alla casa editrice Lindau, a cui è piaciuta tanto da farmi partire con il libro a scatola chiusa.

Come hai recuperato le esperienze raccontate?

Attraverso il lavoro giornalistico degli ultimi 10 anni. Scrivo da parecchio tempo di ambiente, e questo mi ha ovviamente fatto entrare in contatto con diversi professionisti della salute. Alcuni di loro, la loro umanità, la loro onestà intellettuale (e non solo), il loro coraggio, mi ha fatto sentire l’esigenza di aiutarli a diffondere il loro messaggio. Mettendoci del mio ovviamente, ossia denunciando certe cose che ho scoperto e che davvero non mi vanno giù.

Come ad esempio?

La semplicità con cui si tende a dare psicofarmaci ai bambini, invece che amarli o educarli. Dalla Seconda Guerra Mondiale in avanti, negli Stati Uniti, il numero delle malattie psichiche diagnosticate è passato da 26 a 395, e ormai ai bambini si danno psicofarmaci come caramelle. Oltreoceano hanno superato l’impressionante numero di 14 milioni quelli in terapia con psicofarmaci per il controllo delle più svariate sindromi del comportamento: dal miglioramento delle performance scolastiche, al controllo dell’iperattività sui banchi di scuola, alle lievi depressioni adolescenziali. E non è un problema solo americano. In Germania sono stati rilasciati lo scorso anno i dati dei bambini diagnosticati iperattivi e quindi probabilmente destinati a terapie farmacologiche: sono 750.000.

In Francia, invece, quasi il 12% dei bimbi inizia la scuola elementare avendo già assunto una pastiglia di psicofarmaco. Vi sembra normale?

Ci puoi dare qualche altra cifra?

Il Big Pharma (l’appellativo dato all’industria farmaceutica) impiega un terzo dei ricavi e un terzo del personale per collocare nuovi medicinali sul mercato. Solo negli Stati Uniti, tra il 1996 e il 2001 il numero dei venditori di farmaci è cresciuto del 110%, passando da 42.000 a 88.000 agenti.

Non solo, per promuovere i suoi nuovi prodotti questo settore spende ogni anno da 8000 a 13.000 euro per ogni singolo medico. Per quanto riguarda la vendita di psicofarmaci, visto che ne abbiamo parlato poco fa, secondo alcune stime i loro produttori hanno una fetta di mercato da cui incassano 80 miliardi di dollari ogni anno: sono più di 150.000 dollari al minuto.

Che cosa ti ha colpito fra ciò che hai trattato in questo libro?

Moltissime cose, a partire dalla mole enorme di soldi che ruota intorno al settore farmaceutico, fino al dare per scontato che un po’ di corruzione ci stia, in ogni contesto. Mi ha scioccato il sentirmi dare del “fazioso” solamente perché ho riportato questo dati e queste esperienze con l’ovvio proposito di informare persone che, spesso, invece non vogliono sapere nulla per non intaccare il loro (in)quieto vivere. E mi ha colpito come molta gente, oggi, persa nel paradosso di una società che si crede molto informata, sia convinta di sapere anche più del proprio medico cosa sia opportuno prescrivergli.

Che messaggio vuoi dare ai lettori?

Quello di non dare per scontato che assumere un farmaco o eseguire un’operazione sia positivo, o necessario. Spesso è solo un modo per spillarci più soldi – sia privatamente che collettivamente, attraverso il sistema sanitario. Basti pensare a quando, nel 2004, una commissione di “esperti” negli Stati Uniti ha riformulato la definizione di ipercolesterolemia (l’eccesso di colesterolo nel sangue). In pratica, riducendo i livelli ritenuti necessari per autorizzare una terapia medica, hanno letteralmente triplicato da un giorno all’altro il numero di persone che potevano avere bisogno di cure farmacologiche.

Un dettaglio importante: otto dei nove membri di quella commissione lavoravano a quel tempo anche come relatori, consulenti o ricercatori proprio per le case farmaceutiche coinvolte nella produzione di farmaci ipocolesterolemizzanti. E questa è solo la punta dell’iceberg.

http://www.sapereeundovere.it/medicina- ... ig-pharma/



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MessaggioInviato: 25/05/2015, 11:54 
Quello che avremmo dovuto fare noi 50 anni fa...

La Cina manda in pensione il Pil

Una grande rivoluzione è in arrivo dalla Cina dove la provincia di Fujian conta di sostituire il Pil con nuovi parametri di misurazione economica che tengano conto anche di povertà e protezione dell’ambiente. La misura è stata voluta dal Partito Comunista Cinese.

Si è sempre utilizzato il Pil come unico parametro per valutare la ricchezza di un Paese, ma ovviamente questo dato da solo non è in grado di rendere davvero l’idea dello stato di ricchezza e salute di un Paese. Inutile fare i soliti esempi come quello dei paesi africani che hanno dei Pil largamente positivi cui non corrisponde in alcun modo una diffusione della ricchezza. Il Pil infatti è uno strumento estremamente parziale che viene utilizzato per dare pagelle agli Stati, ma solo per convenzione. Esistono infatti altri parametri per misurare la ricchezza di un Paese, e la Cina ha deciso di sperimentarne dei suoi. Oltre 70 città e distretti hanno abbandonato il Pil come suggerito dai vertici del Partito Comunista Cinese alla fine del 2013. Il premier Xi Jinping inoltre a giugno ha reso il concetto ancora più chiaro: “Non possiamo più usare il semplice Pil per decidere chi sono i più bravi”.

I nuovi parametri che in Cina verranno utilizzati per parametrare la ricchezza saranno svariati, dall’indice della povertà fino all’attenzione all’ambiente e all’istruzione. Insomma la Cina sembra intraprendere un nuovo percorso, quello dell’abbandono della crescita economica a tutti i costi e dell’inizio della costruzione di una migliore qualità della vita. La provincia di Fujian è una delle prime ad aver adottato questo sistema e pochi giorni fa ha annunciato di procedere alla sostituzione del Pil con indici sull’agricoltura e la protezione dell’ambiente. Prima del Fujian era stata la volta della provincia di Hebei, nodo strategico e distretto siderurgico a nord di Pechino, e qui il nuovo parametro inserito è stato quello della riduzione delle fabbriche altamente inquinanti.

Per non parlare del piano del Partito Comunista Cinese contro la povertà, un piano ambizioso che vuole portarla a zero entro il 2020, e del piano della Agricultural University di Hebei che mira a far fruttare il patrimonio cinese rendendolo fruibile ai turisti. In tutta la Cina insomma si è interrotta la ricerca forsennata di profitti e quindi di crescita classica del Pil per privilegiare i settori terziario e primario con servizi, allevamenti e infrastrutture di vario genere mirate soprattutto a ridurre l’inquinamento.

Solo a Pechino sono state chiuse nei primi sei mesi dell’anno ben 213 aziende inquinanti, segnale che le autorità fanno sul serio. Insomma la Cina procede verso una nuova fase che andrà valutata nei prossimi anni e che, secondo alcuni analisti, potrebbe portare il Dragone cinese verso un nuovo stadio di sviluppo del socialismo.

http://www.tribunodelpopolo.it/la-cina- ... ne-il-pil/


Si sono seduti ad aspettare il cadavere del nemico passare sul fiume... e fra un po' lo vedranno passare...

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 Oggetto del messaggio: Re: Rinascita Sociale Globale
MessaggioInviato: 08/06/2015, 12:52 
Che cos'è la permacultura?

La pubblicazione del volume «Introduzione alla permacultura» è una buona occasione per tornare a parlare di questa disciplina radicalmente interdisciplinare, ancora poco conosciuta e praticata in Italia.

Nonostante la sua ideazione da parte di Bill Mollison e David Holmgren risalga ormai a più di trent'anni fa. La permacultura approda ufficialmente in Italia nel settembre del 2000, quando su invito dell'Associazione Torri Superiore, due insegnanti dell'Accademia spagnola di permacultura hanno tenuto il primo corso. Da allora, numerose realtà italiane hanno avviato progetti di permacultura insieme ad agronomi e progettisti che ne hanno studiato i principi e le applicazioni.

Del significato della permacultura e della sua diffusione in Italia abbiamo parlato con Massimo Candela, una delle figure di spicco di questa disciplina in Italia.

D: Puoi spiegare in poche parole che cos'è la permacultura?

R: La permacultura si può definire come un sistema di progettazione per insediamenti umani ecosostenibili, fondati sulla centralità dell'agricoltura e su un'attenzione particolare al territorio.

Si può definire anche come ecologia applicata, i cui principi di riferimento sono estrapolati dall'osservazione della natura. A monte di questa osservazione c'è una domanda precisa: come fanno i cicli naturali a ripetersi instancabilmente nel tempo? In che modo la fertilità di un bosco o di un pascolo naturale si rinnova automaticamente senza bisogno della distribuzione di concimi, lavorazioni e altri interventi colturali?

Da questa osservazione, Bill Mollison e David Holmgren hanno ricavato i principi di base della permacultura, termine che nasce dalla fusione di «permanent» e «agricolture», a significare l'importanza di passare da un modello agricolo basato in gran parte su colture annuali energivore a uno schema che invece, su esempio degli ecosistemi naturali, punta alla creazione di colture pluriennali caratterizzati da bassi consumi di energia fossile e impiego ridotto di lavoro umano.

D: Questo vuol dire che la permacultura è uno strumento utile solo per chi vive in campagna o ha la possibilità di progettare ex-novo un'azienda agricola o un ecovillaggio?

R: Per chi non ha un'azienda agricola o non è un progettista, la permacultura rappresenta ugualmente un grande stimolo per imparare a leggere e comprendere il proprio territorio. Sicuramente chi vive in campagna ha più possibilità di mettere in pratica sistemi di auto-produzione, però la permacultura significa anche ricerca di relazioni utili. Chi vive in città per esempio può cominciare a tessere relazioni con chi, subito a ridosso della cintura urbana, svolge una qualche attività agricola. Oppure può prendere contatto con un gruppo d'acquisto solidale per sostenere qualche piccolo agricoltore locale. Senza parlare dei vari esperimenti di permacultura urbana.

D: Leggendo un libro di grande respiro come Introduzione alla permacultura si ha la sensazione di parlare di idee facilmente realizzabili in paesi come l'Australia, caratterizzati da grandi spazi e pochi vincoli legislativi, ma difficili da applicare in Italia, dove la terra disponibile è poca e molto costosa, e i vincoli normativi sono rigidissimi...

R: È ovvio: il libro è stato scritto in Australia, quindi va contestualizzato, ma è anche vero che l'Australia non è Marte. Anche lì esistono zone climatiche molto simili alle nostre. D'altra parte, prima di arrivare veramente a scontrarsi con le rigidità normative del nostro paese si possono fare diverse cose. Prima di arrendersi, si deve cercare di capire come porsi davanti a questi limiti in un territorio che è ovviamente diverso da quello australiano. Si può iniziare con piccole cose. Per esempio si può sostenere la cultura dei piccoli orti domestici che in Italia è diffusa, ma oramai gestita quasi esclusivamente da anziani; si può lavorare per mettere in discussione quelli che sono i principi estetici che hanno portato all'affermazione del concetto di «villetta» completamente slegato dal punto di vista architettonico e colturale con il territorio circostante; sostituendo il principio estetico del prato all'inglese con quello più mediterraneo dell'orto e del piccolo frutteto, magari affiancato dall'allevamento domestico di qualche animale da cortile.

Chi conduce un'azienda agricola può iniziare a introdurre gradualmente delle pratiche permaculturali a partire dalle aree marginali e cominciare a fare della sperimentazione. È vero che in Italia esistono numerosi vincoli agricoli e urbanistici ma è anche vero che, per fare un esempio, l'associazione Il Basilico ha visto riconosciuta dall'amministrazione locale la validità di un edificio di balle di paglia realizzato in una zona soggetta a forti vincoli paesaggistici. Insomma, prima di parlare di limiti normativi è importante superare i vincoli mentali e culturali presenti in ognuno di noi.

D: Uno degli scopi della permacultura è quello di ridurre al minimo i consumi idrici ed energetici. Una scelta che oggi, in tempi di mutamenti climatici, diventa quasi obbligata...

R: Da questo punto di vista la permacultura ha saputo vedere lontano. Nei prossimi anni, soprattutto in paesi a clima temperato come l'Italia, ci si dovrà misurare con una progressiva riduzione della disponibilità di acqua. In questo quadro, tutte le pratiche offerte dalla permacultura per immagazzinare la pioggia nel terreno e ottimizzare il consumo dell'acqua per scopi irrigui assumono grande importanza. Analogamente, la scelta di ridurre al minimo le lavorazioni si traduce in una drastica diminuzione della dipendenza dal petrolio.

D: Qual è oggi la diffusione della permacultura in Italia?

R: Sul sito dell'Accademia italiana di permacultura (www.permacultu-ra.it) è possibile consultare l'elenco delle realtà che in Italia hanno avviato progetti di permacultura. Tra le esperienze più interessanti, sono da segnalare l'azienda agricola Terra e Acqua a San Giuliano Milanese (Mi), Saviana Parodi dell'agriturismo Zebrafarm in località Casevecchie a Castelgiorgio (Orvieto), Barbara Garofoli ed Ettore Teruzzi dell'azienda agricola Acquasanta a Moiano di Città della Pieve (Pg) e Fabio Pinzi, ad Abbadia S. Salvatore (Si), il cui podere è stato premiato negli ultimi anni dall'Aiab. Ovviamente non si tratta di modelli perfetti, dove la permacultura è applicata dalla A alla Z, ma si tratta comunque di esperienze molto interessanti.

Per esempio in BioAmiata, un podere di circa 150 ettari, Fabio Pinzi ha introdotto la raccolta delle acque di ruscellamento delle strade interpoderali, convogliandole in dei fossati le cui sponde sono state messe a coltivazione. In questo modo da una parte è diminuita l'erosione del terreno, dall'altra si è ridotta drasticamente la quantità dei mangimi acquistati fuori dall'azienda.

D: Come si diventa esperti di permacultura?

R: Esiste un percorso formativo, attivo oramai in diversi paesi, basato su un corso standard di 72 ore. Dopo il corso, chi è interessato a continuare la formazione viene affidato a un tutor e lavora a un progetto che una volta approvato dalla commissione di accreditamento dà luogo al rilascio del diploma. Finora in Italia si sono diplomati in nove. Gli ultimi due sono Fabio Pinzi, che ha presentato un progetto di applicazione pratica dei principi di permacultura nella propria azienda, e l'architetto Maria Luisa Bisognin, che sta portando avanti una ricerca molto interessante sull'utilizzo della canapa in edilizia in collaborazione con l'Università di Firenze.

D: Quali prospettive di lavoro vi sono per i diplomati in permacultura?

R: Una strada è lavorare come progettisti: in alcuni paesi la permacultura è stata riconosciuta, diventando materia di corso universitario. L'altra, la più comune in Italia, è il lavoro di base, ovvero portare fuori dalla cerchia ristretta la permacultura e formare più persone possibile per creare rete e sostenere la comunità permaculturale. Mentre negli Stati Uniti e in altri paesi del nord del mondo la permacultura è diventata materia d'insegnamento, nel sud del mondo viene vista come una soluzione per rivitalizzare i villaggi e frenare l'esodo nelle grandi metropoli.

http://static.terranuova.it/Ambiente/Ch ... rmacultura


Qualcuno ne sa qualcosa di più in merito? Sembra interessante nell'ambito del thread in oggetto



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MessaggioInviato: 12/06/2015, 18:43 
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di: WSI | Pubblicato il 12 giugno 2015| Ora 09:44

http://www.wallstreetitalia.com/article ... crisi.aspx

Banchieri e responsabili del caos finanziario del 2008 sono finiti in manette. Controlli capitale e ripresa "senza compromettere il welfare": GUARDA GRAFICI.

NEW YORK (WSI) - L'Islanda è diventato il primo paese europeo coinvolto nel caos finanziario del 2008 a registrare un Pil superiore ai livelli pre crisi.

Il paese ha adottato un approccio totalmente differente dagli altri. Mentre il governo britannico ha nazionalizzato Lloyd e RBS con i soldi dei contribuenti e mentre gli Stati Uniti hanno comprato quote azionarie nelle banche di Wall Street ritenute 'too big to fail', Reykjavik ha lasciato che gli istituti di credito fallissero e ha messo in prigione i banchieri e gli altri responsabili della crisi.

Il procuratore capo Olafur Hauksson disse all'epoca dei fatti: "È pericoloso che ci sia qualcuno troppo importante per essere indagato e condannato - dà la sensazione di vivere in un porto sicuro".

Le autorità islandesi hanno inoltre imposto controlli di capitale per ridurre la libertà di azione della gente comune, da quel momento impossibilitata a disporre a piacimento dei propri soldi, una misura che i critici all'epoca hanno denunciato come una violazione dell'economia del libero mercato.

Il piano islandese ha funzionato. Eccome. Come si vede bene dai grafici in allegato, il paese ha subito un brutto colpo economico e finanziario, ma non particolarmente più pesante di quello accusato anche dagli altri paesi travolti dalla crisi.

I debiti stanno diventando sempre più gestibili e il Fondo Monetario Internazionale ha dichiarato che l'Islanda è riuscita a registrare una ripresa "senza compromettere il suo modello di welfare".

I livelli di disoccupazione non si discostano molto da quelli dei paesi che si sono rimessi in sesto meglio in questo frangente, come gli Stati Uniti, la prima potenza economica al mondo.


Anziché tenere alto il valore della corona con metodi artificiali, il paese ha scelto di "accettare l'inflazione". Ciò ha spinto chiaramente in rialzo i prezzi domestici ma ha aiutato l'andamento delle esportazioni all'estero, al contrario di quanto avvenuto in tanti paesi dell'Eurozona, come l'Italia, che hanno dovuto combattere lo spettro della deflazione o comunque prezzi che hanno continuato a scendere su base annuale.

Con la riduzione progressiva dei controlli di capitale, il paese continua a fare progressi e ora con un Pil sopra i livelli pre crisi può dirsi uscito dalla crisi. "Oggi abbiamo raggiunto una pietra miliare che ci rende molto felici", ha detto al Guardian il ministro delle Finanze Njarni Benediktsson nell'annunciare una tassa del 39% sugli asset che vengono prelevati dai conti bancari degli istituti falliti.

Fonte: The Independent

(DaC)


Amen



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"…stanno uscendo allo scoperto ora, amano annunciare cosa stanno per fare, adorano la paura che esso può creare. E’ come la bassa modulazione nel ruggito di una tigre che paralizza la vittima prima del colpo. Inoltre, la paura nei cuori delle masse risuona come un dolce inno per il loro signore". (Capire la propaganda, R. Winfield)

"Onesto è colui che cambia il proprio pensiero per accordarlo alla verità. Disonesto è colui che cambia la verità per accordarla al proprio pensiero". Proverbio Arabo

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 Oggetto del messaggio: Re: Rinascita Sociale Globale
MessaggioInviato: 15/06/2015, 10:23 
E dopo l'esempio islandese suggerito da TTE ecco il caso Boliviano

Evo Morales: “Con la mia rivoluzione oggi i boliviani decidono la propria politica economica, non Fmi o Banca mondiale”

Lectio Magistralis alla Bocconi del presidente della Bolivia: “Non siamo ai tempi della monarchia, oggi sovranità economica e politica sono diritti dei cittadini

“Oggi gli investimenti pubblici in Bolivia ammontano a 7 miliardi di dollari, reinvestiti anche in progetti sociali, mentre erano 600 milioni di dollari nel 2005”, anno della Rivoluzione democratica culturale in Bolivia sulla quale ha tenuto una Lectio Magistralis venerdì all’Università Bocconi di Milano, il suo maggiore protagonista: il presidente boliviano Evo Morales. “Oggi non siamo ai tempi della monarchia ma viviamo in un’epoca in cui i popoli possono e devono essere sovrani, unendosi nei movimenti sociali – ha detto il leader dello Stato Plurinazionale della Bolivia -. La sovranità politica ed economica sono diritti dei popoli, così come i servizi di base, che devono essere di tutti e non devono essere privatizzati”.

“Con la mia rivoluzione oggi sono i boliviani a decidere la propria politica economica, non il Fondo monetario internazionale (Fmi) o la Banca mondiale”, ha aggiunto Morales, che ha ottenuto il terzo mandato consecutivo come presidente della Bolivia con il 61% dei consensi.

Morales ha esordito la sua Lectio alla Bocconi con un breve excursus storico sulla storia della Bolivia, definita,“una terra saccheggiata e oppressa così come la terra d’America, dove gli indigeni sono stati a lungo condannati a essere sterminati dalle politiche di Gran Bretagna e Stati Uniti”, per poi arrivare alle lotte sindacali e del movimento dei cocalero contro il governo boliviano, “che conduceva una politica del machete” e le ingerenze degli Usa. Battaglie che portarono il principale leader di questi movimenti, Morales, e il suo partito, il Movimiento al Socialismo (Mas), a vincere le elezioni del 2005. Una data che segna una svolta nella storia della Bolivia dove Morales dà vita a un’Assemblea costituente che porta a una Nuova Costituzione e realizza il Modello Economico Sociale Comunitario Produttivo (MESCP) che unisce economia e sociale.

I fondamenti del MESCP sono la crescita e lo sviluppo basati sull’utilizzo delle risorse naturali a beneficio dei boliviani, la proprietà del surplus economico da parte dello Stato e la redistribuzione del reddito, in particolare tra i poveri. “Tra le prime cose che ho fatto – ha spiegato Morales – è stato recuperare i diritti sugli idrocarburi a beneficio dei boliviani” e non delle imprese straniere. Una riforma in base alla quale oggi “lo Stato boliviano guadagna l’82% dei profitti dell’estrazione del petrolio, mentre le aziende il 18%” che ciononostante “non hanno abbadonato la Bolivia dove continuano a fare profitti”.

http://www.informarexresistere.fr/2015/ ... -mondiale/


Vedete che un altro mondo migliore è possibile volendo? Basta dare un calcio nel sedere a USA e Gran Bretagna e soprattutto alle istituzioni ed enti sovranazionali come il FMI.

[;)]

Speriamo che a nessuno gli venga in mente di organizzare rivoluzioni colorate anche lì...



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