Comunque
Dollaro forte per Usa più forti
Gen 22, 2017

Il dollaro rimane il principale mezzo di scambio al mondo e primo indicatore delle gerarchie economiche internazionali. Dal 1944, anno degli accordi di Bretton Woods, il dollaro non ha mai perso la supremazia nel commercio mondiale. Il valore del dollaro può dunque servire per prevedere quali saranno i prossimi scenari dell’economia e della politica globale. Niente avviene per caso. Nemmeno l’elezione di Donald Trump alla presidenza americana. Il tycoon si insedia alla Casa Bianca nel 2017. Un anno che è stato definito “dei fatti” dai broker della londinese PVM Oil Associates. La più grande associazione di broker e speculatori del mercato petrolifero al mondo. Perché il 2017 è un anno così decisivo? Per un immenso quanto intricato intreccio di fenomeni e sconvolgimenti economici e politici internazionali. L’andamento del prezzo del petrolio è solo un pezzo del puzzle. Partiamo da questo.
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Gli accordi di Vienna tra i principali Paesi produttori di petrolio Opec e non Opec avevano portato ad un parziale rialzo del prezzo del greggio. L’Arabia Saudita aveva infatti capeggiato la strategia di riduzione della produzione, arrivando al taglio di ben 149 mila barili al giorno. L’operazione ha così portato ad un netto rialzo dei prezzi nel 2016, registrando un +45% circa. Un’euforia che tuttavia potrebbe non durare a lungo. Perché? In tutta questa operazione gli Stati Uniti sono rimasti nell’ombra. Washington si trovava infatti nel pieno di una delle campagne elettorali più decisive e combattute della sua storia. Ed è qua che si inserisce la specifica strategia economica del presidente eletto Donald Trump.
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La politica del tycoon vuole un dollaro forte, che ritorni ad un apprezzamento rispetto all’euro e allo yuan cinese. Tale politica avrà delle ricadute non da poco sul mercato petrolifero e non solo. In concomitanza con l’insediamento di Trump, infatti, la Federal Reserve ha scelto di aumentare i tassi d’interesse sul dollaro, ovvero il costo del denaro. Secondo il Wall Street Journal la Fed avrebbe intenzione di aumentare il costo del dollaro più del previsto, fino ad arrivare all’1,375%. Una cifra che ha creato il panico tra i Paesi Opec e non. Vi spieghiamo il motivo.
Come è stato detto, tutte le principali transazioni economiche internazionali, anche nel mercato petrolifero, avvengono attraverso il dollaro. Così si è appunto creato il cosiddetto petroldollaro. Se dunque il dollaro “costa di più” diventa automaticamente più costosa la transazione per arrivare al petrolio per i Paesi che ne fanno domanda. La conseguenza? Un crollo della domanda, che porta inevitabilmente al crollo del prezzo della materia offerta, come qualsiasi manuale di economia base insegna. In questo caso si tratterebbe di un ulteriore crollo del prezzo del petrolio. Shawn Discroll, fund manager che predisse il crollo del prezzo del greggio nel 2014, sostiene che nel 2018 si possa arrivare alla bassissima quotazione di 30$ al barile. Un durissimo colpo per i principali esportatori di petrolio: Arabia Saudita, Russia e Iran su tutti. Potrebbe esserci però un disegno di fondo statunitense in tutto questo.
Washington e il petrolio
Nel 2015 Washington arrivò ad essere il primo produttore al mondo di idrocarburi, ovvero petrolio liquido e gas naturale. L’aumento della produzione del petrolio di oltre un milione di barili al giorno arrivò a far pensare allo storico cambiamento degli Stati Uniti da paese importare a paese esportatore di greggio. In realtà tale aumento era dovuto in buona parte all’utilizzo della tecnica estrattiva conosciuta come fracking.
Lo scorso marzo 2016 si contavano più di 300mila installazioni di fracking negli Usa. Un numero che garantiva la produzione di 4.3 milioni di barili al giorno. Tanto da far arrivare a dichiarare in un report dell’Eia (U.S. Energy Information Administration): “Il fracking ha permesso agli Stati Uniti di incrementare la sua produzione di petrolio più velocemente come mai si era visto nella storia”. Tuttavia il fracking non è una tecnica estrattiva sostenibile a lungo termine. Un rapporto dello United States Geological Survey dimostrava la correlazione tra la crescita del numero dei terremoti e l’aumento dell’utilizzo del fracking. Tanto che l’Arkansas Oil and Gas Commission aveva deciso il blocco delle perforazioni petrolifere nelle aree in cui si era registrato un aumento dei sismi. L’aumento della produzione interna non sembra dunque una via percorribile per gli Stati Uniti.
La nuova supremazia Usa
Washington rimarrà dunque, insieme alla Cina, il principale importatore di oro nero al mondo. Una posizione che gioverebbe e non poco del previsto crollo del prezzo del petrolio. In questo scenario vi è da includere la crisi economica venezuelana che oltre a subire l’andamento negativo del prezzo petrolifero, è vittima di una svalutazione monetaria di portata storica. Caracas, che si siede su una delle più ingenti riserve petrolifere al mondo, si troverà dunque in una posizione di estrema debolezza nei confronti dello “scomodo” vicino. Gli Stati Uniti potrebbero così riprendere la politica del “cortile di casa nostra” rispetto all’America Latina. Strategia che è perfettamente in linea con l’isolazionismo di Trump rispetto all’Europa .
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