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 Oggetto del messaggio: Re: Aldo Moro, quando la verità uccide.
MessaggioInviato: 06/05/2024, 08:49 
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https://www.anniaffollati.it/01%20conte ... ielmi.html









Il colonnello Gugliemi: pranzo alle 9


Perchè il colonnello dei carabinieri Camillo Guglielmi la mattina del 16 marzo si aggira nei pressi di via Fani? Sta andando a pranzo dal suo amico D'Ambrosio o, come affermano alcune pubblicazioni, è li per sovraintendere all'agguato delle BR?


Le dichiarazioni di Pierluigi Ravasio ed il fantomatico interrogatorio del colonnello D'Ambrosio.
foto via fani da destra


Il racconto di Pierluigi Ravasio

Nel Dicembre del 1990 Luigi Cipriani deputato e membro della commissione parlamentare di inchiesta sul terrorismo e sulle stragi, che è tornata ad indagare sull’rapimento di Aldo Moro, viene avvicinato da Emanuele Bettini, impiegato presso la filiale di Cremona della Cassa di Risparmio di Piacenza. Bettini, che è anche corrispondente del settimanale Panorama, racconta un episodio che desta l’interesse del deputato di Democrazia Proletaria.

All’inizio del 1987 Bettini ha avuto delle confidenze da Pierluigi Ravasio una delle guardie giurate che stazionano davanti la banca. Ravasio, un ex carabiniere paracadutista congedatosi nel 1982, gli ha raccontato:

(...) di essersi arruolato nel 1976 nel corpo dei carabinieri paracadutisti di Livorno, di essere entrato nei Gis e di avere partecipato alla repressione della rivolta nel carcere di Trani. Nel 1978, avvicinato da un ufficiale del Sismi, decise di entrare nel servizio e fu assegnato all'ufficio sicurezza interna nella VII sezione dell'ufficio R di Roma (…). Musumeci e Belmonte erano i capi dell'ufficio cui Ravasio faceva riferimento, mentre i diretti superiori erano il colonnello Guglielmi (detto papà) ed il colonnello Cenicola. L'ufficio era situato a Forte Braschi mentre la squadra (sei persone) con la quale Ravasio operava era stanziata a Fiumicino. (…)



(...) di essersi recato diverse volte ad addestrarsi a Cala Griecas (capo Marrangiu) e di avere avuto come istruttori Alfonso (al quale è dedicato il manuale) e Decimo Garau, il primo maresciallo degli alpini, il secondo ufficiale di marina. Disse di far parte di un gruppo di quattrocento persone suddivise in nuclei di sei, il cui compito era di opporsi a sommosse interne da parte della sinistra. (…)



(...) disse che il suo gruppo indagò sul caso Moro e venne a conoscenza del fatto che il rapimento era stato organizzato da una banda di ex detenuti e malavitosi che agiva nella zona di Fiumicino, molto probabilmente la banda della Magliana. Venuti a conoscenza del fatto che Moro era tenuto dai malavitosi e riferito ciò ai superiori, le indagini furono fermate da un ordine proveniente da Andreotti e Cossiga, il loro gruppo sciolto ed i componenti dispersi, mentre i rapporti che quotidianamente venivano compilati furono bruciati (...)



(...)disse anche che Musumeci aveva un infiltrato nelle Br, era uno studente di giurisprudenza dell'università di Roma il cui nome di copertura era Franco, il quale avvertì con una mezzora di anticipo che Moro sarebbe stato rapito. Uno dei superiori diretti di Ravasio, il colonnello Guglielmi -attualmente deceduto- si trovò a passare a pochi metri da via Fani, ma disse di non aver potuto fare niente per intervenire. (....)



Come ricompensa per il rapimento e la gestione del caso Moro, il Sismi consentì alla banda di poter compiere alcune rapine impunemente. Una avvenne nel 1981 all'aeroporto di Ciampino, quando i malavitosi travestiti da personale dell'aeroporto sottrassero da un aereo una valigetta contenente diamanti provenienti dal Sudafrica. Una seconda avvenne in una banca nei pressi di Montecitorio dove furono aperte molte cassette di sicurezza e da alcune, appartenenti a parlamentari, furono sottratti documenti che interessavano il Sismi. Luigi Cipriani, relazione alla CPS, Fondazione Cipriani, https://www.fondazionecipriani.it/Scritti/ilcaso.html

Bettini, visto il personaggio che ha di fronte, non prende troppo sul serio le rivelazioni di Ravasio. Si decide solo tre anni dopo, nel 1990, a raccontare il fatto, sia perché nel frattempo è scoppiato il caso Gladio sia perché Ravasio ha rilasciato un intervista alla giornalista di Panorama Valeria Gandus.



Luigi Cipriani deputato di Democrazia Proletaria nella X legislatura, e membro della commissione stragi. E' morto nel 1992 a 52 anni.

Cipriani, dopo aver incontrato il Ravasio, che conferma quanto già confidato a Bettini, presenta una relazione alla commissione parlamentare che a sua volta segnala la cosa alla magistratura.

La Procura di Roma apre un fascicolo ed interroga il Ravasio. Davanti al magistrato Luigi De Ficchy, l’ex paracadutista smentisce tutto affermando che i discorsi fatti prima a Panorama e poi a Luigi Cipriani erano solo un parlare frutto di fantasia.

De Ficchy interroga anche il colonnello dei carabinieri Camillo Guglielmi che, al contrario di quanto detto da Ravasio, è vivo e vegeto. Guglielmi, nell’interrogatorio afferma:

Per quanto riguarda il fatto che io sono passato il 16 marzo 1978 in via Fani, ricordo che quel giorno ero a Roma e che, essendo stato invitato a pranzo dal colonnello D’Ambrosio in via Stresa 117, passai in strade adiacenti via Fani verso le ore 9.30 del mattino. Ho raccontato tale circostanza ai componenti del mio Ufficio sicurezza ed evidentemente da tale fatto si è costruita ben altra situazione (…)

Tra l’altro, quando mi recai in via Stresa, non mi accorsi di nessuna situazione particolare successa in quella zona e seppi dell’onorevole Moro solo quando arriva a casa del mio ospite, colonnello D’Ambrosio. Interrogatorio di Camillo Guglielmi, del 16/5/1991, in CPM2, seduta del 24/03/2015, pag.23

La Procura in presenza della ritrattazione di Ravasio e non avendo trovato nessun riscontro riguardo l’appartenenza di Guglielmi all’organizzazione Gladio, procede all’archiviazione “del fascicolo “Ravasio - Guglielmi”

Un uomo dei servizi in Via Fani?

Fin qui i fatti. Ma chiaramente per chi è convinto, che a gestire l’agguato di via Fani non siano state le sole BR, le dichiarazioni, seppur smentite, di Ravasio sono musica per le proprie orecchie.

Il colonnello Guglielmi diventa, all’istante, la prova della presenza dei servizi segreti italiani nel caso Moro ed entra a far parte dei misteri di Via Fani.

Come sempre succede in questi casi, con il passare del tempo la realtà lascia il posto al mito. E cosi se nel 1991, nel libro “Sovranità limitata” Antonio e Gianni Cipriani (omonimi, con nessun grado di parentela con il deputato Luigi) si limitano a definire le dichiarazioni di Ravasio “una testimonianza inquietante”, nel 1998, Sergio Flamini in “Convergenze parallele” afferma:

Perché la mattina del 16 marzo, alle ore 9, nei pressi di via Fani, mentre avveniva la strage, si aggirava senza apparente ragione il colonnello del SISMI Camillo Guglielmi?

Il colonnello Guglielmi (…) era stato istruttore presso la base di Gladio di Capo Marrangiu dove aveva insegnato ai “gladiatori” le tecniche dell’imboscata: quella stessa tecnica mirabilmente applicata per sterminare la scorta, catturando Moro illeso. Sergio Flamini, Convergenze parallele, (Milano: Kaos edizioni, 1998), pag. 132.

Flamini si pone ancora delle domande, a trentasei anni dalla strage di via Fani, nel 2014, invece, Carlo D’Adamo scrive, con la massima sicurezza:

il colonnello Camillo Guglielmi della sezione K (killer, tiratori scelti) [Bettini 1996: 92] del SISMI è pronto, e si presenta puntuale sulla scena del crimine, la mattina del 16 marzo, dopo essersi scaldato i muscoli ad Alghero. (…)

Interrogato il 16 maggio 1991 dal sostituto procuratore Luigi De Ficchy sul significato della sua presenza sul luogo del delitto, il colonnello Guglielmi sostiene di essere stato invitato a pranzo da un collega che abita lì vicino (...) forse il colonnello dice proprio la verità, usando il linguaggio allusivo tipico dei mafiosi, dei politici e dei Servizi.(…)

“Sono stato invitato a pranzo” vuol dire che è stato invitato a condividere la responsabilità dell’operazione, a partecipare al blitz. Ogni banda qui fa la sua parte, ma sono tutti compagni di mensa. Alcuni fanno capo al Viminale, altri al Ministero della Difesa. Ci sono poi alcuni carabinieri molto speciali che dipendono direttamente da altrove. E sembra proprio che il 16 di marzo fossero tutti in servizio. Non per guardare. Carlo D’ Adamo, Chi ha ammazzato l’agente Iozzino: Lo stato in Via Fani, (Bologna, Pendragon, 2014), pag. 30

Crediamo quindi sia corretto abbandonare il mito, costruito in 40 anni, e tornare alla realtà esaminando i fatti.

Quanto è attendibile Ravasio?

La vicenda relativa al colonnello Guglielmi si basa sul racconto di Pierluigi Ravasio. Non esiste infatti nessun riscontro oggettivo, sia sulla presenza del colonnello in via Fani, sia alla sua appartenenza a Gladio. E’ quindi d’obbligo porsi preliminarmente una domanda sull’attendibilità delle dichiarazioni di Ravasio.

Che Pierluigi Ravasio sia un personaggio, come minimo, un po’ sopra le righe lo si capisce, malgrado le poche notizie che abbiamo su di lui. Innanzitutto abbiamo visto come Bettini non creda, in un primo momento alle confidenze della guardia giurata. Luigi Cipriani, nella relazione redatta per la commissione parlamentare, ci presenta un Ravasio “fascista deluso” appartenente ad una fantomatica organizzazione di neotemplari, che afferma di essersi recato in Israele per addestrare militari israeliani. “in quanto esiste un'antica alleanza tra templari e Israele derivante dalla comune difesa del tempio di Salomone”.

Durante i colloqui sia con Bettini e la giornalista di Panorama Valeria Gandus. Ravasio, con fare spavaldo, fa sfoggio delle armi in suo possesso.

iniziò a raccontare la propria storia, non senza avere messo in bella evidenza la propria pistola ed un fucile a pompa (...)

incontrato[si] nel novembre 1990 a Cremona con la giornalista Valeria Gandus, dalla quale si era fatto intervistare maneggiando una pistola di grosso calibro di marca israeliana. Successivamente nel proprio appartamento, tra fotografie e fotocopia del tesserino Sismi, Ravasio mostrò un'altra pistola marca Beretta. Cipriani, relazione alla CPS, cit.

Bisogna inoltre notare che trascinato dal suo carattere istrionico, Ravasio, racconta le sue storie più o meno credibili, ma ribadisce sempre che non vuole che quanto da lui detto venga reso pubblico

L'incontro con la Gandus era stato originato dal fatto che su Panorama era uscito un articolo che si rifaceva a quanto raccontato da Ravasio nel 1987, cosa che lo fece infuriare ma non gli impedì di farsi intervistare, salvo minacciare la giornalista se avesse fatto il suo nome.

L'ex agente del Sismi mi disse che non intendeva assolutamente essere coinvolto né dalla Commissione stragi né dalla magistratura e di avere acconsentito ad incontrarmi solo per darmi qualche informazione utile al mio lavoro, stanti le fortissime delusioni avute dalla destra politica e dai servizi segreti; ma che non desiderava io facessi il suo nome. Ibid.

E’ quasi naturale, quindi, che quando viene ascoltato in Procura, Ravasio ritratti. Paura delle conseguenze delle sue dichiarazioni o la coscienza di aver inventato tutto?

Ma cosa racconta Ravasio? Le sue confidenze riguardano due argomenti: la sua appartenenza ai servizi ed il caso Moro. Mentre per la sua militanza nel SISMI ci sono dei riscontri oggettivi. Per la parte riguardante Moro non solo non ci sono riscontri, ma il suo racconto lascia non pochi dubbi.

Ravasio afferma che l’organizzazione e la gestione del rapimento fu della banda della Magliana escludendo del tutto la partecipazione delle brigate rosse. Racconta poi come il suo diretto superiore, il colonnello Camillo Guglielmi, a seguito di una segnalazione di un infiltrato, si trovò a passare a pochi metri da via Fani, ma disse di non aver potuto fare niente per intervenire.

Ora è chiaro che almeno una parte del racconto di Ravasio è chiaramente falso. Nessuno, sano di mente, può oggi sostenere che le brigate rosse non furono coinvolte nel rapimento di Moro. D’altra parte, dell’esistenza di un infiltrato nelle br e dalla presenza di Guglielmi in via Fani non esiste nessun riscontro oggettivo che avvalori le sue dichiarazioni.

Stranamente, al contrario di altre testimonianze in cui per molto meno si invoca l’inattendibilità del testimone, nel caso di Ravasio si considera vero, il racconto relativo all’infiltrato nelle br e al colonnello Guglielmi in via Fani. Il fatto che nello stesso racconto ci sia una palese falsità, la storia della banda della Magliana, inspiegabilmente non scalfisce minimamente la credibilità del testimone.

Noi crediamo che le dichiarazioni di un testimone vanno valutate nel suo complesso per giudicarne l’attendibilità. E francamente troviamo un metodo poco ortodosso quello, utilizzato da certa pubblicistica dietrologica, di estrapolare da una testimonianza, per convenienza, solo le parti che vanno a favore di una precisa tesi.

Quindi riepilogando, Ravasio è un personaggio, a dir poco “molto estroverso”, che fa delle confidenze ma, una volta posto davanti ad un magistrato, si affretta a ritrattare tutto. Inoltre sappiamo che del suo racconto relativo al rapimento Moro, la parte riscontrabile è palesemente falsa, per l’altra: la storia del colonnello Guglielmi, non esiste alcun riscontro oggettivo. A questo punto riponiamoci la domanda: quanto è attendibile Ravasio?

Il verbale del colonnello D’Ambrosio.


Come abbiamo visto, il sostituto procuratore De Ficchy, dopo aver ascoltato il Ravasio, convoca in data 16 maggio 1991, il colonnello Guglielmi, il quale conferma la sua presenza nelle vicinanze di via Fani la mattina del 16 marzo, affermando di essersi recato a casa di un suo conoscente il colonnello D’Ambrosio abitante in via Stresa 117.

La dichiarazione, dopo gli opportuni riscontri, basta al magistrato che di lì a poco archivierà la vicenda.

Ciò, però non può bastare a chi vuole piazzare a tutti i costi un colonnello dei servizi segreti in via Fani.

Il colonnello D’Ambrosio ha dichiarato di non ricordare di aver invitato a pranzo Guglielmi quel 16 marzo 1978, ma di essere certo che il colonnello del Sismi si presento a casa sua, il giorno della strage, verso le 9 del mattino- un orario decisamente strano per un pranzo S. Flamigni, Convergenze parallele, cit. pag. 133



Anche quest’ultimo [D’Ambrosio] venne interrogato confermò di aver ricevuto la visita di Guglielmi, verso le 9 del mattino, ma disse di non ricordare di averlo invitato, confermando una falla nelle spiegazioni di Guglielmi, dato per altro che le nove del mattino sono un orario inusuale per un pranzo. Francesco M. Biscione, Il delitto Moro, (Roma, Editori Riuniti, 1988) pag 127.

Come si vede due sono gli appunti che vengo fatti alla testimonianza di Guglielmi l’orario di arrivo in via Fani, le nove di mattina, e la parziale smentita da parte di D’Ambrosio.

Partiamo dalla testimonianza di D’Ambrosio. Questo è un caso lampante in cui si dimostra come una cosa non vera, ripetuta ed amplificata nel tempo, divenga alla fine verità.

Basandosi sui rilievi sopra esposti, che hanno fatto entrare la figura del colonnello Guglielmi tra i misteri di via Fani, la nuova commissione di inchiesta sul caso Moro ha voluto vederci chiaro convocando in audizione i magistrati che si erano interessati della vicenda.



Per primo viene ascoltato Luigi Ciampoli, procuratore generale presso la corte di appello di Roma.

Luigi Ciampoli

Il magistrato Luigi Ciampoli ascoltato dalla nuova commissione Moro il 12/12/2014

Il magistrato ha indagato sulla lettera anonima recapita all’Ansa in cui si cita Guglielmi quale superiore di due fantomatici agenti segreti presenti in via Fani a bordo della famigerata moto Honda.

A proposito della testimonianza di D’Ambrosio, Ciampoli afferma con la massima sicurezza:

Il colonnello Guglielmi viene identificato come una persona presente sul posto e dà giustificazione della sua presenza alle nove di mattina per un invito ricevuto dal colonnello D’Ambrosio a casa sua per pranzo.

Viste le dichiarazioni del colonnello D’Ambrosio, abbiamo appreso che non soltanto Guglielmi non era stato invitato a pranzo, ma non era assolutamente prevista la sua visita nemmeno a quell’ora. Il colonnello Guglielmi si era presentato a casa sua insalutato ospite e dopo poco, assumendo, con una dichiarazione, che doveva lasciare la sua abitazione perché doveva essere successo a Roma qualcosa di grosso, aveva abbandonato la casa del colonnello D’Ambrosio ed era andato. Luigi Ciampoli, CPM2, seduta del 12/12/2014, Pag. 6

Successivamente viene ascoltato Luigi De Ficchy, l’unico magistrato che nel 1991 interrogo Guglielmi e D’Ambrosio. De Ficchy, riguardo l’interrogatorio di D’Ambrosia afferma:

D’Ambrosio dice – secondo quanto ricordo – che Guglielmi si era recato da lui alle 9, che non c’era alcun invito a pranzo e che di lì a poco se n’era andato e aggiunge di non aver notato nulla. Luigi De Ficchy, CPM2, seduta del 24/03/2015, pag.11

A questo punto, visto la competenza ed il livello dei magistrati, sembrerebbe non esserci più dubbi sulla discordanze tra le dichiarazioni di Guglielmi e D’Ambrosio. Ma la commissione, seppur tardivamente, fa la cosa più semplice di questo mondo: recupera il verbale dell’interrogatorio di D’Ambrosio davanti al giudice De Ficchy e, nella prima relazione sull’andamento dei lavori della commissione, pubblica finalmente il testo dell’interrogatorio di D’Ambrosio:

Verso le ore 09.30 è giunto presso la mia abitazione il colonnello Guglielmi Camillo con sua moglie che anni prima aveva abitato presso lo stesso stabile e con il quale ero in amicizia. Il colonnello stette presso la mia abitazione con la moglie per tutta la mattinata e stette con noi a pranzo e poi nel pomeriggio ripartì per Modena. Non ricordo se nel corso della mattinata si allontanò di casa per salutare altri amici o per altre ragioni. Non ricordo se il Col. Guglielmi venne presso la mia abitazione per un appuntamento datoci in precedenza. Oppure se passò senza appuntamento precedente e poi lo invitai a pranzo. Non ricordo come mai il Col. Guglielmi venne alle 09.30, posso dire che con il Col. Guglielmi vi è una grande confidenza. Faccio presente che alla mia abitazione si può accedere da via della Camilluccia prendendo via Stresa e passando all’incrocio con via Fani sia da via Sangemini scendendo da via Roncegno. Ricordo anche che quando arrivò il col. Guglielmi gli diedi la notizia di quanto era successo CPM2, 1° Relazione sull’attività svolta, 10/12/2015, pag 140

Quindi al contrario di decine di interventi che negli anni hanno insistito sulla discordanze, la testimonianza di D’Ambrosio è perfettamente in linea con quanto dichiarato da Guglielmi. La stessa commissione di inchiesta parlamentare afferma:

Nell’ambito degli accertamenti e delle acquisizioni documentali disposti dalla Commissione (e tuttora in corso), si è riscontrato che il verbale di interrogatorio del colonnello D’Ambrosio conferma le dichiarazioni del collega Guglielmi. Ibid. pag 96

La cosa stupefacente ed allo stesso tempo inquietante, però, è che gli stessi magistrati, che hanno svolto indagini sul colonnello Guglielmi, abbiamo riferito, alla commissione di inchiesta, in mancanza di una memoria pronta, non quello da loro stessi appurato, ma quanto ormai divenuto il pubblico convincimento costruito sulle affermazioni di una pubblicistica spesso poco rispettosa della realtà dei fatti.

Pranzo alle nove

Veniamo all’altro punto contestato presente nella testimonianza di Guglielmi: l’orario in cui Guglielmi si è recato a casa di D’Ambrosio per un invito a pranzo. Crediamo che anche questo sia un esempio tipico, come nel caso delle dichiarazioni di D’Ambrosio, per analizzare come funzionano certi meccanismi tipici delle tesi dietrologiche.

Torniamo all’audizione del magistrato de Ficchy ed ad un intervento del senatore Gotor.

Allora lei [De Ficchy] aveva questa sensazione, cioè che Ravasio fosse attendibile e che poi, di fronte a lei, avesse ritrattato, ma comunque che fosse attendibile, cioè che avesse raccontato qualcosa di vicino al vero (…) Cipriani ci dice una cosa interessante, cioè che Guglielmi si trovava a via Stresa perché il generale Musumeci, dal quale dipendeva gerarchicamente, l’aveva inviato lì perché c’era un infiltrato di nome Franco che aveva detto che a via Fani stava per succedere – sarebbe successa, era successa – una cosa incredibile.

Guglielmi le dice che lui era lì, ma alle 9.30, perché doveva andare a pranzo, che sensazione ha avuto? leggendo le carte ho sempre avuto l’idea che il colonnello Guglielmi la stesse provocando, glielo dico con franchezza, cioè le stesse dando una versione incredibilmente inattendibile e quindi incredibilmente provocatoria: «Sono le 9.30 e devo andare a pranzo dal collega D’Ambrosio.» Miguel Gotor, CPM2, seduta del 24/03/2015, pag.23

Questi due frasi sono pronunciate a distanza di pochi secondi l’una dall’altra. E’ singolare come nel caso di Ravasio, malgrado, come ampiamente esposto in precedenza, abbia ritrattato tutto e dica palesi falsità riguardo la banda della Magliana, per Gotor Ravasio è attendibile.



Il senatore di Liberi e uguali Miguel Gotor membro della nuova commissione Moro

Per Guglielmi il giudizio è assolutamente netto: il colonnello sta provocando asserendo di essere andato a casa di D’Ambrosio, invitato a pranzo, alle 9 di mattina. Eppure non c’è nessun riscontro oggettivo che indichi che Guglielmi stia mentendo, anzi c’è la conferma del diretto interessato D’Ambrosio. Il giudizio quindi si basa solo su presunto senso logico: se si è invitati a pranzo non ci si può presentare alle 9.

Questo fatto dell’orario, ci ha sempre lasciati perplessi. Se si va a pranzo al ristorante c’è un orario di apertura e chiusura da rispettare. Ma quale è l’orario per presentarsi a casa di un amico essendo stati invitati a pranzo? Le dieci, le undici, mezzogiorno? Chi lo decide: il galateo?

Andare a pranzo da un parente o un conoscente nella prassi comune significa passare insieme alcune ore in cui il pranzo vero e proprio rappresenta solo il momento culminante. Tra l’altro presentarsi a ridosso del pasto ed andare via subito dopo è spesso indice di scarsa educazione. Sappiamo di dire cose ovvie ma purtroppo questo è il livello di certe contestazioni.

Nella sua testimonianza, fatta ben 13 anni dopo, Guglielmi mette in rilievo i due fatti principali, ovvero, l’ora d’arrivo in casa di D’Ambrosio: le 9,30, ed il motivo della visita: l’invito a pranzo. Le due affermazioni non sono collegate tra loro. Guglielmi non dice «ho pranzato alle 9,30».

I motivi per cui Guglielmi si reca a casa di D’Ambrosio alle 9 posso essere innumerevoli, lo stesso D’Ambrosio, nella sua testimonianza, ce ne suggerisce alcuni

Il colonnello stette presso la mia abitazione con la moglie per tutta la mattinata e stette con noi a pranzo e poi nel pomeriggio ripartì per Modena.

Potrebbe darsi, per esempio, che Guglielmi, dovendo partire nel pomeriggio (non sappiamo a quale ora), e non potendosi trattenere dopo pranzo abbia anticipato l’arrivo in casa D’Ambrosio per passare insieme all’amico alcune ore.

Esiste anche un’altra possibilità che ci suggerisce sempre D’Ambrosio:
Non ricordo se il Col. Guglielmi venne presso la mia abitazione per un appuntamento datoci in precedenza. Oppure se passò senza appuntamento precedente e poi lo invitai a pranzo.

Quindi, la visita alle 9,30 magari non presupponeva la fermata a pranzo. L’invito a restare potrebbe essere venuto in un secondo momento nel corso della mattinata. Le incertezze di D’Ambrosio, ricordiamo, sono dovute al fatto che l’interrogatorio avviene a tredici anni di distanza.

Quindi come si può vedere nelle dichiarazioni di Guglielmi non c’è niente di illogico né tanto meno di provocatorio.

Del resto non riusciamo a capire come si possa considerare poco credibile la versione di Guglielmi e accettare, invece, come realistiche le alternative proposte negli anni.

Secondo le varie tesi Guglielmi, avrebbe assistito o partecipato ad un agguato cruento come quello di via Fani, e poi, invece, di allontanarsi indisturbato dal luogo dell’azione, dopo aver recuperato la moglie (lo ha aiutato nell’azione o è stata “parcheggiata” in un bar o in auto?), si sarebbe precitato, senza nessun motivo logico, a casa dell’amico D’Ambrosio.
Lasciamo a chi legge giudicare quale, tra le dichiarazioni di Guglielmi e la tesi dietrologica, sia meno realistica.

Il ruolo di Guglielmi nei servizi

Si è molto parlato dell’appartenenza di Camillo Guglielmi alla struttura segreta “Gladio”. Nessuna prova esiste in merito.

Guglielmi non fa parte del famoso elenco dei 622 “gladiatori” reso pubblico all’inizio degli anni 90. Elenco, a dire il vero tutt’altro che attendibile, sia per il numero esiguo, sia per evidenti errori nella compilazione.

Anche tutte le indagini volte ad appurare l’affiliazione di Guglielmi a Gladio hanno dato esito negativo.

Quello che invece si può affermare con certezza è che ha militato a lungo nei servizi segreti

Nel 1965 Guglielmi è nella struttura del SID e più precisamente nel servizio D col grado di capitano dei carabinieri. Come componente di questo servizio partecipa ad un’esercitazione a Capo Marrangiu:

Sergio Dini, Sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Padova.

Per quanto riguarda Guglielmi, nel 1965 partecipò alla prima esercitazione di personale dell’Ufficio D a Capo Marrargiu. Non c’è solo la citazione «Guglielmi presente a Capo Marrargiu», ma ci sono diversi documenti in cui viene indicato esattamente il programma del corso e, giorno per giorno, quello che è stato fatto. Si andava appunto da tecniche di imboscata e guerriglia urbana a tecniche di trappolamento ed esplosivi su materiale ferroviario. Sergio Dini, CPM2, Seduta del 7/10/2015, pag 8

Successivamente, lascia il SID e rientra nell’arma. Nel marzo del 1978, durante il sequestro Moro è comandante del nucleo carabinieri di Modena. Nell’aprile del 1978 si congeda dall’Arma. Da luglio dello stesso anno inizia a lavorare, come consulente esterno, per il SISMI, il nuovo servizio che ha sostituto, nel gennaio del 1978, il SID. Nel 1979 entra nell’organico del SISMI e viene nominato, alle dipendenze del generale Musumeci, responsabile della sicurezza interna, dedicata al controllo del personale che faceva parte del Servizio.

Quindi, Guglielmi è stato a lungo nei servizi segreti italiani, dove ha ricoperto incarichi di rilievo. Nel corso della sua carriera ha acquisito, come è documentato, conoscenze tecniche definite di “antiguerriglia” ovvero guerriglia urbana, di trappolamento ecc.

Al contrario di quanto scritto da più parti non risulta, invece, che abbia mai svolto il ruolo di addestratore. Lo stesso Ravasio indica in altri nomi: Alfonso e Decimo Garau gli istruttori di Capo Marrangiu.



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UN OTTIMO PUNTO DI SINTESI


https://www.amazon.it/Rapporto-caso-Mor ... 4661173897

QUI RACCOLGO MOLTO MATERIALE


https://originidellereligioni.forumfree.it/?f=10623052




zio ot [:305]



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PIAZZA DELLE CINQUE LUNE


Guarda su youtube.com



https://www.youtube.com/watch?v=UdYogwkEeLE


UNO STRANO COMMENTO ... nick cosedamondo


Erano almeno una ventina gli operativi della strage di Via Fani. Martinelli sottostima questo dato.
E Moro non poteva essere messo a rischio in una operazione comunque che poteva avere varianti esponendolo ad essere colpito e testimone della strage della sua scorta. Per cui fu prelevato prima con "l'amo" del comunicato radio sul presuto sequestro Moro alle 8.30.


Il film di Martinelli è quello che si avvicina di più alla ricostruzione reale, peccato che invece avvallori la tesi ufficiale (e comoda per la scenecCIAtura per il volgo) sulla presenza di Moro in Via Fani. Che animo avrebbe avuto il Presidente Moro dopo aver assistito alla strage della propria scorta? Non di certo il comportamento (che si evince anche dagli scritti) che ebbe nei 55 giorni dopo il "prelevamento". Prelevamento, parola di Moro, che invece avvenne prima. L'itinerario deviato in Via Fani della scorta, nella menzogna impartita dall'alto, doveva servire da copertura.

Anche secondo l'ex Generale Divisione dell’Arma del Genio Piero Laporta: "non era in macchina quella mattina.

Vi furono una serie di preparativi, che partirono da almeno 5 anni prima e fino a mezz’ora prima dell’agguato”; questo spiegherebbe perché in quella caterva di colpi non ebbe neanche un graffio e perché non nominò quasi mai la sua scorta e il suo destino che secondo questa resi ignorava. Se #AldoMoro fosse stato in auto in via Fani sarebbe stato comunque attinto (almeno ferito) dal volume di fuoco. Non ha mai espresso una parola di pietà nei confronti dei suoi angeli custodi.

Ergo: Moro non era in auto e gli agenti dovevano morire perché scomodi testimoni. Laporta si riferisce in particolare alla notizia trasmessa da Radio Città Futura il 16 marzo, poco dopo le 8 del mattino, mentre Moro era ancora a casa in attesa della scorta, di un possibile rapimento dello statista.

Un episodio controverso, ben ricostruito dal giornalista Marcello Altamura in un libro, La borsa di Moro, oggi fuori commercio.

“È probabile che proprio a seguito di questo messaggio radiofonico - ci spiega il generale esplicitando la sua teoria - qualcuno si sia presentato a casa di Moro mentre arrivava la sua scorta. Questo qualcuno potrebbe aver convinto Leonardi, che non era certo uno sprovveduto, della necessità di prevenire un eventuale rapimento prendendo in custodia Moro e facendo comunque sfilare le macchine di scorta lungo il tragitto stabilito quella mattina, magari con l’accordo di ritrovarsi da un’altra parte. A quel punto, i cinque agenti della scorta erano testimoni scomodi. Dovevano morire”.

A questo, Piero Laporta aggiunge una serie di minuziose considerazioni pratiche e balistiche, ma dal suo punto di vista, la prova principe che Moro non si trovasse nella Fiat 130 quando questa venne investita di piombo, sta nelle parole dello stesso rapito. E qui dobbiamo fermarci.


«Benché non sappia nulla né del modo né di quanto accaduto dopo il mio prelevamento, è fuori discussione – mi è stato detto con tutta chiarezza – che sono considerato un prigioniero politico…» E più avanti continua, riferendosi a questo brano: «Soprattutto questa ragione di Stato nel mio caso significa, riprendendo lo spunto accennato innanzi sulla mia attuale condizione, che io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato…»


Il Presidente Aldo Moro non fu rapito in via Fani, il 16 marzo 1978, alle ore 09.02, com’è raccontato da uomini dello Stato, da investigatori, magistrati, politici, stampa e tivvù. Ce lo assicura lo stesso presidente Aldo Moro nella sua lettera alla sua diletta moglie, Noretta. Lo fa col suo inconfondibile stile. Vediamo come.

In via Fani furono rinvenuti 93 bossoli, 49 dei quali d’una sola arma, d’un tiratore mai identificato, d’altissima perizia, peculiare alle forze speciali, «un gioiello di perfezione», secondo un testimone, intervistato da “Repubblica” il 18 marzo 1978.


93 bossoli, 44 dei quali sparati dai rimanenti sei brigatisti. A detta di Valerio Morucci, «l’unica prova dell’azione era stata compiuta nella villa di Velletri». Ammesso che abbiano sparato, impossibile che abbiano acquisito perizia da tiratori, neppure lontanamente accostabile a quella del professionista.

I brigatisti sono assassini che sparano alle spalle di vittime inermi a brevissima distanza, niente di più.
Il presidente Aldo Moro, come si sa, sarebbe uscito indenne dalla tempesta di fuoco, quindi rapito e trasportato sull’auto che l’avrebbe poi portato alla “prigione del popolo”.

I suoi assassini potevano permettersi un ostaggio ferito? No, perché sarebbe diventato un problema logistico d’asperrima gestione.


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https://www.lastampa.it/cultura/2006/06 ... .37155826/






I misteri di Moro

Alla ricerca del «quinto uomo»


30 Giugno 2006


Il 16 marzo 1978 un commando delle Brigate Rosse rapisce in via Fani il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro. Durante l'assalto vengono uccisi il maresciallo Oreste Leonardi, caposcorta, e gli agenti Domenico Ricci, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Raffaele Jozzino. Il cadavere di Moro sarà fatto ritrovare il 9 maggio in via Caetani nel bagagliaio di una Renault 4 rossa. Malgrado una serie interminabili di processi, di confessioni, di memoriali, di autobiografie, permangono nella vicenda diversi lati oscuri.




Renzo Martinelli, professione regista.


Tra i suoi film al merito Porzus e Vajont, poi c'è il più bello di tutti, Piazza delle Cinque Lune sul rapimento Moro. Ma la sua ricostruzione, con il coinvolgimento del massimo potere nostrano, la massoneria, si è frantumata contro un muro di silenzio.





Cominciamo dal titolo…

«Al tempo di Vajont la mia società di produzione aveva un ufficio a Roma, in zona Trionfale. Al mattino andavo a prendere i giornali nell'edicola di via Antonio Varisco, il colonnello dei carabinieri ucciso nel suo primo giorno da pensionato.

L'omicidio di Varisco è stato fatto rientrare nel filone di Pecorelli, dei suoi rapporti con il generale Dalla Chiesa, dei misteri sul verbale originale degli interrogatori di Moro. E Varisco frequentava un ufficio dei servizi segreti in piazza delle Cinque Lune. Volendo fare un film sul rapimento Moro, mi sembrava il titolo più suggestivo»

Nei suoi propositi il film deve raccontare il secondo snodo della storia italiana - il primo fu Portella delle Ginestre - nell'ottica di una congiura, di cui le Br furono il braccio armato. Ma durante la lavorazione succede altro...



«Proviamo la scena del rapimento. Arriva la 128 familiare bianca, quella con Moretti, seguita dalla 130 blu con Ricci, Leonardi e Moro, dall'Alfetta bianca con la scorta e dalla 132 scura degli altri brigatisti. All'altezza dello stop tra via Fani e via Stresa la 128 frena di colpo, la 130 la tampona e viene a sua volta tamponata dall'Alfetta.

Secondo copione, i quattro brigatisti acquattati a sinistra escono sparando dal riparo del bar Olivetti. I tre poliziotti nell'Alfetta sono subito ammazzati, soltanto l'agente Jozzino, piazzato a destra sul sedile posteriore, riesce a uscire e a sparare due colpi.

A quel punto lo stunt seduto nella posizione del maresciallo Leonardi - sedile anteriore destro della 130 blu - urla: «Stop, stop… Renzo, ma io che ci faccio qui? Me ne sto spaparanzato ad attendere che quelli mi ammazzano?»




E siamo al primo colpo di scena...




«Cronometriamo più volte il tempo occorrente ai quattro brigatisti travestiti da piloti di aereo, che secondo Morucci e Moretti fecero fuoco, a essere addosso a Leonardi.

Dico addosso perché non possono sparare a Leonardi né frontalmente né da sinistra per evitare di colpire Moro sul sedile posteriore della 130 blu. Lo stunt più veloce impiega sette secondi per raggiungere il maresciallo Leonardi, che dovrebbe starsene buono ad aspettare di essere ucciso mentre intorno i suoi compagni vengono macellati.

Maria Fida Moro ci ha confidato che quella mattina Leonardi aveva messo nel borsello un secondo caricatore della pistola. Il maresciallo era agitato da giorni, in questura aveva segnalato movimenti sospetti in via Savoia, dove Moro aveva lo studio.

Dunque, un poliziotto esperto come Leonardi, già in preallarme, non reagisce per un tempo lunghissimo, quali sono sette-otto secondi, a un tamponamento anomalo, a uomini armati che sparano ai colleghi e intanto corrono verso di lui».



A suo avviso che cos'è accaduto?


«La perizia medico legale depositata al processo Moro quater spiega che Leonardi è stato ucciso da sei colpi sparati da destra, dove ufficialmente i quattro brigatisti giunsero dopo aver spazzato via i tre dell'Alfetta. I famosi setto-otto secondi in cui Leonardi conserva - cito dalla perizia - una “posizione rilassata e serena”, rivolto verso il guidatore, le mani in grembo. Probabilmente stava parlando con Ricci.

Ripeto la domanda di prima: ma vi sembra possibile?

Leonardi, invece, è stato il primo a morire, colpito alle spalle dal brigatista che camminava sul marciapiede di destra. Noi nel film l'abbiamo vestito da pilota come gli altri quattro.

E se posso avanzare un'ipotesi, credo che questo quinto attentatore possa essere lo specialista straniero, sulla cui presenza divampano da anni le polemiche.

Eliminato Leonardi, costui si sposta in avanti per evitare i proiettili degli altri quattro che stanno arrivando: da questa posizione piazza altri due colpi nel petto del maresciallo, un anticipo del colpo di grazia che sarà poi riservato a tutti e cinque i poliziotti. In tale dinamica forse si spiega perché Jozzino sia stato l'unico a balzare fuori e a tentare di opporsi. Dal suo lato ha visto il quinto brigatista aprire il fuoco su Leonardi e dare il segnale dell'assalto.

In dieci secondi vengono esplosi 93 colpi, due dei quali appartengono alla pistola di Jozzino. Degli altri 91 colpi, 49 provengono da un mitra mai ritrovato. Eppure Morucci e Moretti affermano che le armi s'incepparono e nessuna sparò più di 10 colpi».




Ma le sorprese non sono finite...



«Quando ci accorgiamo che i tempi con Leonardi non tornano, proviamo a rigirare la scena seguendo il racconto di Moretti: lui che si fa tamponare allo stop e che tira il freno a mano della 128 per impedire alla 130 di sganciarsi.

Allorché lo stunt alla guida della 130 esegue la manovra descritta da Moretti, la 128 viene spazzata via: d'altronde la macchina di Moro pesava quattro volte più di quella di Moretti.

Eppure nell'unica foto, consegnataci dal senatore Flamigni, in cui la 128 e la 130 sono ritratte da destra, cioè dal lato di Leonardi e del quinto terrorista, le due auto non presentano alcun graffio e sull'asfalto non si nota alcuna frenata.


La 130 addirittura ha intatti i due fari antinebbia piazzati sul paraurti, che in caso di urto, per di più prolungato, sarebbero dovuti essere i primi a rompersi. A questo fatto ineludibile aggiungo un'ulteriore constatazione.

Per aver compiuto quel percorso decine di volte, Ricci sa benissimo che tra via Fani e via Stresa troverà uno stop e di conseguenza è probabile che rallenti l'andatura dando così modo al quinto brigatista di accostarsi alla 130 e di uccidere Leonardi.

E qui devono per forza entrare in scena i due brigatisti sulla moto, mai identificati, che fungono da avvistatori.

Il senatore Flamigni lo sostiene invano da un quarto di secolo




Si è spiegato perché il suo film, che ha cercato di rompere la cortina delle ambiguità, non è stato considerato e quello di Bellocchio - intimistico, noiosetto, indulgente con i brigatisti - è stato invece giudicato alla stregua di un capolavoro?


«Io sospetto che la vera storia dell'agguato sia ancora tutta da scrivere e sia da chiarire per quale motivo da ventotto anni Moretti e Morucci ne raccontano un'altra.

Sono disponibile a dibattere con entrambi dove, come e quando vorranno».






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MessaggioInviato: 24/05/2024, 20:02 
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“Ecco a chi dava fastidio Aldo Moro”.


Un piccolo assaggio della lunga intervista che mi ha rilasciato il Generale Piero Laporta, autore di Raffiche di bugie a via Fani.

Stato e BR sparano su Aldo Moro” (Video)





27 Maggio 2023 Marco Gregoretti Archivio di Greg 0


Con il generale Piero Laporta prima dell'intervista
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Venerdì 12 e sabato 13 maggio 2023. Non è stato semplice arrivare in quel cucuzzolo collinare, nel mezzo del Lazio. Sembrava un viaggio stregato: la macchina aveva una ruota fuori uso, a noleggio non se ne trovava una, il collega che mi aveva proposto di prestarmi la sua improvvisamente ne ha avuto bisogno per un impegno fuori Milano, urgentissimo. Restava l’opzione del treno. Fino a Roma. E poi? Neanche i ciuff ciuff locali ci arrivavano, i cosiddetti rami secchi tagliati dalle amministrazioni progressiste, così, tanto per dare una mano ai pendolari.


Vabbè, intanto arriviamo nella Capitale, poi si vedrà. Mica si può rinunciare all’esclusiva delle esclusive, all’intervista con il generale Piero Laporta, detentore del dossier che racconta la vera storia sul sequestro e sull’uccisione di Aldo Moro.


E autore del libro, già best seller su Amazon, Raffiche di bugie a via Fani. Stato e Br sparano su Aldo Moro


https://www.amazon.it/RAFFICHE-BUGIE-Vi ... B0BW1YLZJS


A Roma Tiburtina la sorpresa. In tasca vibra lo smartphone. È Il mio amico Ric, esperto in criminalistica e in diritto, operatore di intelligence Nato e tante altre cose ancora. Insomma, un uomo che qualcuno potrebbe, sbagliando, definire tout court un agente segreto (io no, non semplifico: troppo semplice e riduttivo). ”Sono qui, nel piazzale della stazione. Sono venuto a prenderti. Andiamo insieme da Laporta”. Riccardo Sindoca, più volte citato nel libro del generale, è stato il mio “tramite” e il fatto che venga con me a casa sua mi tranquillizza: sicuramente l’intervista avrà un di più. Infatti chiedo a Ric se anche lui avesse voglia di dire qualche cosa davanti alla telecamera.


L’idea, è quella di realizzare un docu sulla vicenda Moro che finalmente, metta un punto dopo un numero di processi di cui ho perso il conto e infinite commissioni che non sono mai giunte a nulla, se non a clamorosi depistaggi. Certo, penso, ostacoleranno questa idea in ogni modo. Ma la sfida è da accettare: la verità prima o poi deve emergere.

Riccardo Sindoca con il Generale Piero Laporta

L’appuntamento è per sabato mattina, in veranda. Io e Riccardo Sindoca siamo sul posto, a poche centinaia di metri, dalla sera prima. Cominciamo subito a lavorare. Prima, a cena, davanti a un piatto di interiora da leccarsi i baffi, con un personaggio straordinario, che ha vissuto al limite per difendere l’Italia, che sa una marea di cose, un’enciclopedia di misteri. È sorridente, nonostante quel che ha visto e che ha fatto in giro per il mondo, nel “teatri” più pericolosi. Soprattutto: è molto simpatico. Ma non scrivo il suo nome. Poi, io e Ric fino alle cinque e mezza di mattina, nella sua casa su quattro ruote.


Alle nove siamo al bar. Caffè, pizza bianca con la mortazza (mortadella) e maritozzo con la panna. Da Roma arriva l’operatore. Il più bravo che io conosca. Maestro con la steady cam, inviato di guerra nella ex Jugoslavia, cronista con la telecamera di raro coraggio. Anche lui semplice, curioso e consapevole. “Marco per fare questa cosa vengo a spese mie. È troppo importante. Non voglio soldi…”. Per adesso caro Gianb. Per adesso. Poi vedremo…


L’intervista comincia, in veranda.

Documenta Laporta: “Moro non era in via Fani”, “Moro è stato torturato”, “La scorta è stata mandata a morire per eleminare cinque testimoni”, “Alti funzionari, prelati e alcuni giornalisti hanno depistato”, “In via Fani c’erano forze speciali del blocco di Varsavia.

C’era Carlos. C’era il Gru (intelligence militare dell’Urss).


Le Br forse non avevano capito di essere comparse di comodo, sacrificabili, che non sapevano manco sparare”, “Valerio Morucci (vertici BR) era un agente dei servizi segreti italiani (Sisde) che aveva pezzi in combutta con i servizi segreti dell’Unione sovietica”…


Pausa pranzo. Con una strepitosa tavola imbandita intorno alla quale ci siamo seduti per coccolare i nostri palati con un pranzo a base di sofisticate ricette pugliesi cucinate dalla signora Vittoria. Un portento di moglie.


Un’ora. E poi di nuovo al lavoro.


A spiegare perché la vicenda Moro è stato un colpo di Stato. Per ora è tutto. Il resto è nelle due ore e dieci di intervista al Generale La Porta, di cui qui vi propongo due brevi passaggi, introdotta da alcune gustose notizie che a sorpresa ha deciso di rivelare Riccardo Sindoca. E così è risultato evidente anche davanti alla telecamera il motivo per cui si parli di lui nelle pagine di “Raffiche di bugie a via Fani. Stato e Br sparano su Aldo Moro”.


Marco Gregoretti








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da you tube riporto la risposta che mi ha dato il nick cose


si, oltre che dal blog di Laporta. E' comunque opinione di altri che sono stati vicini a questa vicenda o che l'hanno studiata successivamente. La questione è.. Moro avrebbe potuto anche uscirne illeso fortunosamente ma come avrebbe realmente reagito durante la prigionia di fronte alla strage dei suoi? Si sarebbe lasciato morire piuttosto che offrire quella minima collaborazione. Questo lo capisce chiunque onesto intellettualemte.

E anche se non fosse stato colpito direttamente dai proiettili (cosa già quasi impossibile con tutti quei colpi sparati con mitragliette che non sono di certo precise) resta sempre la questione delle schegge dai corpi dei due della scorta davanti. Se si ascoltano esperti di balistica lesionale si saprà che le ferite in guerra spesso provengono dalle schegge ossee "sparate" dai corpi dei commilitoni limitrofi quando vengono investiti da proiettili e/o ordigni. E con la direzione dal davanti a 45 gradi da fianco i lati, con cui sono stati uccisi Leonardi e l'autista della macchina di Moro, impossibile che le schegge ossee non siano finite per ferire Moro.

Inoltre, dai rilievi si legge che gli agenti della scorta tenevano le pistole sotto il sedile o nel vano cruscotto. E addirittura la mitraglietta d'ordinanza nel baule. Questa non è la modalità operativa se trasporti un "VIP" da proteggere. Anche questo fatto collima con la non presenza di Moro sulla scena della strage di Via Fani.



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PARLA IL GENERALE LAPORTA

Guarda su youtube.com



IL LIBRO

https://www.amazon.it/gp/product/B0BW1Y ... JU7H&psc=1


Le considerazioni sulla mancata citazione da parte di Moro dell' eccidio della sua scorta sono molto , molto interessanti.

Ma il punto è un altro : QUALCUNO quella mattina a Via Fani fu prelevato e rapito , le testimonianze del 4 testimoni oculari sono state molto precise .

l' Ing Alessandro Marini , Giovanni Intrevado ( guardia di PS ) Paolo Pistolesi , Pietro Lalli , in particolare Intravedo e Marini identificarono con certezza Moro portato via da 2 brigatisti :

vedi di Sergio Flamigni RAPPORTO SUL CASO MORO Kaos ed , pag 180-88 .

https://www.amazon.it/Rapporto-caso-Mor ... 102&sr=8-1

Quindi chi era questo QUALCUNO ? Un sosia poliziotto reclutato al volo perchè era giunta la soffiata dell' agguato ?

Possibile : ma allora perchè la scorta non era in modalità PARA BELLUM con le armi in pugno ben spianate fin dalla partenza da casa Moro ?

Le perizie balistiche hanno rilevato come il Maresciallo Leonardi venne FULMINATO assolutamente di sorpresa e con lui tutta la scorta ! Nessuno aveva la pistola in mano !

IL tutto per opera dello SPECIALISTA fornito dalla CIA con gli agenti Wilson e Terpil , vedi Flamigni op. cit. pag, 9-10 , e di Scarano - De Luca Il Mandarino è marcio Ed Riuniti pag 111 -126 .

https://editoririuniti.it/products/il-m ... -caso-moro

E le borse di Moro che ci facevano in macchina ? Erano piene di segatura ?

Troppe cose non tornano .


TESTIMONIANZA DI GIOVANNI INTREVADO


http://documenti.camera.it/leg17/resoco ... .0081.html






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LE CHIAVI DELL' ENIGMA


https://originidellereligioni.forumfree ... 5#lastpost



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https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/1 ... o/4033574/


Commissione Moro:

“Ciò che abbiamo saputo finora è una verità dicibile:

servì a chiudere la stagione del terrorismo”



di Stefania Limiti | 12 DICEMBRE 2017





La commissione d'inchiesta presieduta dal deputato Pd è alla terza relazione.


E stabilisce un punto fermo: intorno alla figura dell'ex brigatista Morucci è stata creata una "operazione di sdoganamento" di una versione dei fatti falsa: "Fu quasi una trattativa".

Una verità "di comodo" alla quale hanno contribuito diversi soggetti, secondo la commissione: dai giudici Imposimato e Priore al Sisde fino a politici e religiosi come suor Teresilla, "in quota Cossiga"


Quaranta anni di indagini fatte male e veri e propri depistaggi. Ma arrivata alla terza relazione la commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro fornisce ora un punto fermo: quel che abbiamo saputo fino ad ora del rapimento, dell’omicidio e delle indagini del presidente della Democrazia Cristiana è frutto di una “verità dicibile“, come la definisce il presidente della commissione Giuseppe Fioroni.

Una verità “dicibile”, di comodo, alla quale hanno contribuito i soggetti “che operarono attorno al percorso dissociativo di Valerio Morucci: i giudici istruttori Imposimato e Priore, il Sisde, alcune figure di rilievo della politica e delle istituzioni, suor Teresilla Barillà“, la religiosa mandata da Francesco Cossiga nelle carceri più come spia che per dare conforto ai detenuti.

La terza relazione della commissione Moro è oggi in calendario in Aula alla Camera. Non è quella conclusiva, anche se non è certo se si arriverà a una sintesi anche perché le attività d’indagine possono proseguire fino allo scioglimento della legislatura, peraltro sempre più prossimo. Dopo 164 sedute plenarie in 4 anni il materiale raccolto è molto. In parte è ancora sotto segreto perché consegnato alla Procura di Roma che ha un fascicolo aperto, altro alla Procura generale della Capitale che segue alcuni specifici filoni soprattutto sulla strage di via Fani.


La verità “dicibile”, dunque, come pagina inversa rispetto alle “verità indicibili” cui ha spesso fatto riferimento procuratore alla corte d’Appello di Palermo Roberto Scarpinato. Si legge nella relazione che lo spazio di dialogo tra Morucci e le istituzioni “di per sé non implica che le dichiarazioni processuali di Morucci siano viziate. È però innegabile che, con il concorso di forze diverse, si venne a creare una posizione processuale particolarmente garantita, nella quale il ruolo testimoniale scoloriva in una più ampia e opaca funzione consulenziale del Morucci, quasi realizzando concretamente una trattativa che veniva pubblicamente negata”.

Nel caso Moro, dunque, secondo la relazione della commissione, attorno alla figura di Morucci, ex brigatista responsabile logistico delle Brigate Rosse, è stata creata una grande operazione di sdoganamento di una versione dei fatti falsa. Dall’agguato di via Fani alla prigione di via Montalcini, dalla dinamica della fuga ai contatti con il mondo politico esterno alla prigione, la circolazione degli scritti di Moro e la loro misteriosa scomparsa, tutto è stato raccontato secondo una modalità concordata, lungo un processo di “stabilizzazione della verità parziale, funzionale a una operazione di chiusura della stagione del terrorismo che ne espungesse gli aspetti più controversi, dalle responsabilità politiche e istituzionali al ruolo di quell’ampio partito armato, ben radicato nell’estremismo politico, di cui le Br costituirono una delle espressioni più significative del terrorismo”.


Parole che trovano dettaglio nelle molte pagine della relazione che spiegano passo dopo passo la costruzione del Memoriale Moro e un suggello nelle attività di consulenza avviate da Morucci con l’intelligence: già nel 1984 il direttore del Sisde Vincenzo Parisi trasmetteva al Cecis (l’organo di coordinamento dei Servizi) una lettera (12 aprile ’84) nella quale Morucci esponeva il “personale programma di politica carceraria, finalizzato ad un uso del carcere in funzione ‘controemergenziale’ e a una ricerca di ‘soluzione politica’”. L’anno successivo, nel 1985, sempre il Sisde considerava Morucci “una fonte da cautelare in assoluto”. Tra il 1986 e il 1987 il rapporto Morucci-Sisde appare continuativo e presenta diversi aspetti di tipi consulenziale, anche in una fase in cui Morucci rendeva dichiarazioni nei processi Metropoli e Moro-ter, fortemente segnati dalla sua collaborazione.

Certo è che nel luglio 1988 una copia del “Memoriale” identica a quella che sarà resa nota nel 1990 era già stata acquisita dal Sisde, tanto da poter affermare che quel documento, su cui sono stati imbastiti processi e scritti libri, più che un Memoriale sia piuttosto un dossier dei servizi, servito sul piatto d’argento ad una classe politica e giudiziaria impegnata principalmente a conservare il proprio ruolo.

Già in sede di pubblicistica il Memoriale era stato buttato giù dal piedistallo, ora c’è molto materiale che dimostra puntualmente la grande operazione di imbrigliamento della verità.


E non è poco, insieme a tanto altro: a proposito di depistaggi, lo stabile di via Massimi 91, quello nel quale avviene con quasi certezza lo scambio delle auto usate dai brigatisti, è l’unico della zona “sensibile” di via via Fani che non fu perquisito: forse per un milieu abbastanza elevato di cui facevano parte cardinali e prelati, “come il cardinal Egidio Vagnozzi, già delegato apostolico negli Stati Uniti e, dal 1968, Presidente della Prefettura per gli affari economici della Santa Sede, e il cardinal Alfredo Ottaviani.

Risulta inoltre, da alcune testimonianze, un’assidua frequentazione del complesso da parte di monsignor Paul Marcinkus. Alcune testimonianze indicano anche una frequentazione dei prelati in questioni da parte di Moro e dell’onorevole Piccoli”.

All’interno del complesso si riscontrano tuttavia anche presenze di altro genere, che potrebbero aver avuto una funzione specifica in relazione al sequestro Moro. Lì abitava la giornalista tedesca Birgit Kraatz, già attiva nel movimento estremista “Due giugno” e compagna di Franco Piperno.

Secondo la testimonianza di più condomini Piperno frequentava quell’abitazione e, secondo una testimonianza che l’interessato ha dichiarato di aver appreso dal portiere dello stabile, lo stesso Piperno avrebbe da lì osservato i movimenti di Moro e della scorta.


Oltre ad una serie di personaggi legati alla finanza e a traffici tra Italia, Libia e Medio Oriente va sottolineata la presenza di una società statunitense, la Tumco, compagnia americana che nel 1969 forniva assistenza alla presenza Nato e Usa in Turchia e attività di intelligence a beneficio dell’organo informativo militare statunitense la cui sede era in edificio di Via Veneto a Roma, noto come The Annexe, “l’annesso”, l’edificio supplementare. ra le altre presenze significative nel complesso c’è poi quella di Omar Yahia (1931-2003), finanziere libico, legato all’intelligence libica e statunitense, il cui ruolo è ampiamente trattato nella sentenza-ordinanza “Abu Ayad”.

Di certo lì, in via Massimi 91, nell’autunno del ’78 per diverse settimane venne ospitato Prospero Gallinari: riservati i nomi dei suoi due ospiti per tutelare le indagini ancora in corso.

Ma è nebbia, dunque, sulla prigione di Moro, mentre si infittisce il materiale che offre spunti di indagine e di ricostruzione letteraria – nuovi elementi sulle protezioni di Alessio Casimirri, una confessione in punto di morte del maresciallo Angelo Incandela sulle carte trovate dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, una inedita dichiarazione del pentito Michele Galati sul sacerdote che andò nella prigione a confessare Moro. Forse con più ordine metodologico si poteva ottenere di più, ma c’è tanto per riflettere e discutere.

Chissà se la politica se ne occuperà.



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MessaggioInviato: 02/06/2024, 20:22 
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HALLORA ,

il libro del Generale Laporta è

ASSOLUTAMENTE DA LEGGERE !

https://pierolaporta.it/stato-omertoso- ... more-83076

Riporta fatti e anlisi che non ho visto in oltre 50 libri che ho letto sul caso Moro .

Certo che le tesi di Laporta sono così potenti et estreme da fare apparire

il super complottista Martinelli e il suo film come un chirichetto timorato ...

Mooooolto da discutere ...




zio ot [:305]



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MessaggioInviato: 16/06/2024, 13:27 
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ARCHIVIO GERO GRASSI




Zimbra
Doc. N.
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tabacchi_s@camera.it



DEPOSIZIONE IN COMMISSIONE


Da : On. Gero Grassi <grassi_g@camera.it>
Oggetto : DEPOSIZIONE IN COMMISSIONE
A : Stefano Tabacchi <tabacchi_s@camera.it>


mer, 11 mag 2016, 09:13



ALL'ON. GIUSEPPE FIORONI

PRESIDENTE COMMISSIONE DI INCHIESTA MORO-2




Trasmetto alcune ricostruzioni sulla dinamica dell'eccidio di via Fani e del rapimento di Aldo Moro e chiedo che ladocumentazione trasmessa sia soggetto di verifica e di indagine.


Chiedo, inoltre, che sia allegata integralmente al verbale della riunione della Commissione in cui è annunciata.


Anticipatamente ringrazio e saluto cordialmente.


Gero Grassi

ROMA 11 MAGGIO 2016


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FIAT 128 FAMILIARE BIANCA CON TARGA CORPO DIPLOMATICO:
UN'AUTO ANOMALA




La storia dell'auto e della targa CD
Sia l'auto che la targa utilizzate sono state rubate.
La Fiat 128 familiare bianca, la cui vera targa è in realtà Roma R71888, è stata sottratta verso le ore 19-19.30 dell'8 marzol978 al sig.
Nando Miconi che l'ha momentaneamente lasciata in sosta in doppia fila, con le chiavi inserite, davanti al suo negozio "di carta da
involgere "sito in via degli Scipioni n.48 a Roma.
La targa CD 19707 è stata asportata l ' i l aprile 1973 dalla Opel Kadett, di proprietà di Arquimedes Alcalà Guevara, addetto militare
dell'Ambasciata del Venezuela a Roma.
Dopo tre anni, in data 3 maggio 1976, il Ministero dei Trasporti, a seguito di un'attività di riordino ed ammodernamento delle targhe, ha
riemesso la stessa targa (CD 19707) però di nuovo tipo, in plastica e formato rettangolare, non più quadrato e consegnato la stessa al
personale dell'ambasciata del Venezuela. La nuova targa è quindi associata ad una FIAT 124 Berlina intestata al dr. Heliodoro Claverie
Rodriguez, addetto agricolo dell'ambasciata.
Nella comunicazione inviata il giorno stesso alla Questura, al Ministero dell'Interno, al Ministero della Difesa e a quello degli Affari Esteri,
il Ministero dei Trasporti segnala che "...la targa CD19707 di vecchio tipo in metallo dovrà ritenersi abusiva".
Dopo quasi due anni, in data 26 gennaio 1978, l'ambasciata del Venezuela, restituisce le targhe CD19707 (modello nuovo rettangolare in
plastica) e la carta di circolazione dell'autovettura al Ministero dei Trasporti che pertanto provvede "ad annullare detto numero di
targa"e a darne comunicazione, in pari data, al Ministero degli Affari Esteri, della Difesa e dell'Interno.
Le targhe (modello nuovo rettangolare in plastica) sono ritirate e riposte in un armadio presso il Ministero dei Trasporti e dopo l'agguato
sono esibite agli inquirenti e tenute a disposizione dell'autorità giudiziaria.
Alcune domande sorgono spontanee.
Per quale motivo i terroristi hanno deciso di utilizzare una targa così inusuale, come quella corpo diplomatico? Una targa che da certamente
nell'occhio rispetto ad una targa normale?
Come fanno i terroristi a girare tranquillamente, per giorni e giorni per tutta Italia, compiere manovre azzardate e pure parcheggiare in
divieto (vedi paragrafo successivo), senza essere fermati o intercettati, considerato il fatto che la targa di vecchio tipo è rubata e da
ritenersi abusiva, mentre quella di nuovo tipo è stata annullata. Godono per caso di qualche immunità o lasciapassare?
I testimoni nei giorni precedenti l'agguato
Mi metto nei panni di un gruppo di terroristi. Sto preparando il colpo del secolo. Ho l'auto rubata pronta per l'attentato con una targa
rubata (dal 3 maggio 1976 da ritenersi abusiva e dal 26 gennaio 1978 pure tolta dagli archivi delle auto regolarmente circolanti). Con
quell'auto potrei essere fermato per un controllo ed arrestato subito, oppure circolando potrei fare un semplice incidente e mandare a rotoli
tutto il piano. Logica direbbe di tenere pronta l'auto in un garage e di utilizzarla solo il giorno dell'attentato. Ed invece...
23 febbraio 1978- Coniugi Candido Fortuni e Giuseppa Bentivoglio: "Mentre percorrevamo Via Mario Fani, una macchina 128
Fiat targata CD, fece una manovra spericolata di frenata ponendosi per traverso a poca distanza dalla nostra macchina,
tanto che mio marito per poco riuscì ad evitare l'impatto. Mio marito si adirò per questo fatto e malgrado le mie esortazioni a
lasciar perdere insegufquella macchina, la quale ripetè la'stessa manovra qualche centinaio di metri dopo. L'auto aveva a
bordo un uomo ed una donna. Quando, attraverso la stampa e la televisione, venni a sapere dell'attentato di via Mario Fani
e della macchina 128 Fiat, collegai subito tale macchina con quella da noi vista e commentai con mio marito: stavano
facendo le prove già da un mese prima"Ti sig. Candido precisa inoltre "la targa iniziava con CD19... , aveva sull'occhiello del
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numero 9 una scrostatura, tanto che vidi il fondo metallico della stessa".





In un giorno di marzo prima dell'eccidio di via Mario Fani - Roberto Tersigni:



"Per recarmi al Policlinico, ove lavoro quale
medico, verso le ore 8, percorrevo a bordo della mia macchina Corso Italia proveniente da Piazza del Popolo. All'altezza di
Porta Pia, nel tratto scoperto del sottopassaggio, sorpassai un'autovettura di media cilindrata la cui targa era CD. La vettura
in questione poteva essere una Fiat 128 ovvero una Fiat 130. Il colore era chiaro. In detta autovettura ci erano 4-5 persone
di cui una era donna. Due o tre di queste erano vestite in bleu e pensai che fossero dei piloti dell'Aeronautica civile... "





Tra il 6 e l'8 marzo 1978- Pasquale Cippone, avvocato:


"Roma... verso le ore 12 due individui uscivano dall'ingresso di una sede
diplomatica dell'Ambasciata che poi in seguito ho appreso essere quella del/Iraq, e salivano su una Fiat 128 bianca familiare
targa CDL... Ciò che mi colpì fu l'aspetto poco diplomatico dei due individui... "
Nota: Le tre testimonianze sopra riportate sono relative a date che appaiono precedenti il furto dell'auto poi utilizzata nell'agguato di
via Mario Fani (furto avvenuto alle ore 19 / 19.30 dell'8.3.1978). Potrebbe trattasi di un errore dei testimoni nel ricordare la data
dell 'avvistamento oppure la targa CD potrebbe essere stata applicata su altra Fiat 128 bianca.




9 o 10 marzo 1978 - Roberto Farsetti:



"Verso le ore 17 ha notato in Siena un'auto Fiat 128 bianca tipo familiare targata
CD19707.... Non avendo mai visto una targa simile l'avevo annotata su una scatola di fiammiferi Minerva... A bordo del
mezzo c'era un giovane sui trentanni".





11 marzo 1978 - Vincenzo Mannino, amico del Farsetti:



"Siena ...ricordo che allorquando il Farsetti me ne parlò la prima volta, io
dissi a costui che anche a me era parso di vedere una Fiat 128 Familiare, di colore bianco sporco, con targa Corpo
Diplomatico.... verso le ore 19 in via Fiorentina. L'auto marciava in direzione Siena centro... "



13 marzo 1978 - Luigi Botticelli e Lorenzo Ferragamo (militari in servizio di leva presso il 10° Battaglione Trasmissione Lanciano sito Via Trionfale):




"Roma - verso le ore 17... ci stavamo recando verso il centro provenienti da Monte Mario quando giunti
all'altezza di Via Mario Fani con incrocio di Via Stresa abbiamo notato una Fiat 128 bianca modello familiare con due giovani a
bordo che ci precedeva di poco e che rallentando la marcia si accostava sulla sua destra in cerca di qualcosa come uno che
non è del luogo e quindi ha difficoltà ad orientarsi. Ci ha colpito inizialmente la targa che era applicata sul lato posteriore di
detta automobile cioè una targa del Corpo Diplomatico, in latta, con fondo sul nero opaco e con le scritte in argento".




13 o 14 marzo 1978 - Luigi Vitali:



"Verso le ore 8.40/ 8.45 si trovava alla guida della sua autovettura sulla strada che
daTrezzano porta a Milano e 200 metri circa, prima di giungere alla tangenziale ovest, notava una autovettura Fiat 128
familiare bianca targata CD19707 con due uomini a bordo, diretta verso Milano".





14 marzo 1978 - Mauro Tornei: "Roma...verso le ore 17.15, alla guida della mia macchina, percorrevo via Cassia Antica e stavo
per imboccare piazza Dei Giochi Delfici, diedi la precedenza ad una Fiat 128 di colore bianco con a bordo tre individui di
giovane età. Notai che la targa della macchina era CD. Non feci caso al numero di targa. La Fiat 128 bianca, non ho fatto
caso se era tipo familiare, continuando il percorso imboccò Via Cassia Antica, direzione vivai Sgaravatti".
15 marzo 1978 - Celeste Perlini, sacerdote: "Mi trovavo in Piazza del Popolo di Roma. Verso le ore 11.00 circa notavo
parcheggiare fuori dallo spazio riservato alla sosta, un'autovettura Fiat 128 familiare di colore bianco con applicata
posteriormente la targa Corpo Diplomatico, con due persone a bordo, di cui una di sesso femminile, che dopo aver
parcheggiato detta autovettura scendevano ed il conducente riferiva all'accompagnatrice frase in lingua italiana. Non ho
sentito cosa si dicevano ma ebbi l'impressione che l'uomo rivolgendosi alla donna, la sollecitasse a far presto, parlando in
lingua italiana. Istantaneamente sopraggiungeva sul posto un'autovettura di colore scuro di grossa cilindrata, di cui non sono
in gradi di precisare il tipo, con a bordo 4 individui, che scesi senza scambiarsi frase alcuna con gli occupanti della Fiat 128, si
allontanavano (a piedi) in opposte direzioni. L'uomo e la donna (scesi dalla 128) si allontanarono verso la Via del Babuino. I
4 uomini scesi dall'auto scura si allontanarono a piedi verso Porta Flaminia passando vicino all'Obelisco. Preciso che il
parcheggio in questione è quello antistante alla Chiesa di S.Maria dei Miracoli di Piazza del Popolo. Contemporaneamente a
questa seconda autovettura ne giungeva una terza di colore amaranto di tipo Renault che si arrestava a tergo delle due
vetture affiancate, già dette e precisamente dietro alla Fiat 128 familiare con targa CD. Quando fu scoperto il corpo
dell'onorevole Moro all'interno di una Renault di colore amaranto io ricollegai subito l'avvistamento. Rimasi sul posto fino alle
11.27 e poi mi allontanai".



15 marzo 1978 - Antonio Albuzzi, Carabiniere:



"Roma: alle 18.10 circa, ero fermo a bordo della mia vettura sul Lungotevere
delle Navi al semaforo che segnava rosso di Ponte Risorgimento. Venivo affiancato da una Fiat 128 famigliare color bianco
con due persone a bordo. Allo scattare del segnale verde venivo sorpassato dalla predetta autovettura che era targata
CDL... Vi era anche un 7. Non ricordo le altre cifre. Pensai che il conducente abusava della targa Corpo Diplomatico
Esamino le fotografie n.16 e 17 dei rilievi tecnici di Polizia Scientifica concernenti il sopralluogo effettuato in via Mario Fani. La
vettura è uguale a quella che io ho visto e la targa corrisponde a quella che la Fiat 128 familiare, da me notata, recava
posteriormente ".
La quantità e in molti casi la qualità dei particolari riportati dalla maggioranza dei testimoni è tale che appare quindi confermato che la Fiat
128 bianca familiare targa CD è stata ripetutamente utilizzata nei giorni precedenti la strage. Per quale motivo? A che scopo? Per fare dei
sopralluoghi e/o eseguire delle prove si poteva benissimo utilizzare un'altra auto ed un'altra targa. Che senso ha utilizzare l'auto che si è
deciso di utilizzare per l'attentato? A meno che l'auto non appartenga a terroristi, ma bensì ad altre forze... Magari forze in possesso di
lasciapassare (Servizi Segreti, Gladio, Corpi di polizia in borghese, ecc.)?
Testimoni vicino all'abitazione di Aldo Moro



Nel mese di marzo, prima dell'eccidio di via Mario Fani - Pietrina Martini:


"Sono infermiera caposala presso la casa di cura Villa
Maria Pia sita in Via del Forte Trionfale 36. In epoca precedente al sequestro Moro, ebbi modo di notare, per diversi giorni,
una macchina piccola, bianca, targa CD, in via del Forte Trionfale, in sosta sulla destra rispetto a chi esce dalla clinica. L'ho
vista ferma sempre in punti diversi della stessa Via Forte Trionfale ed una volta a circa 10-15 metri dalla casa dell'On. Moro.
Non ho mai visto nessuna persona a bordo o nei pressi della macchina stessa. Già prima del tragico agguato di Via Mario
Fani ebbi modo di manifestare la mia meraviglia che una macchina così poco appariscente fosse del Corpo Diplomatico e di
ciò parlai con qualcuna delle infermiere. Quella volta che ho visto la macchina CD nei pressi della casa di Moro, erano circa le
9.30 del mattino, di un giorno tra il 12 ed il 14 marzo 1978. Le altre volte che ho visto la macchina CD bianca era sempre di mattina
e nel mese di marzo. Non ho più visto la macchina dopo l'agguato di via Mario Fani. Non ho fatto caso alla targa della macchina. Non
sono in grado di dire di che tipo fosse perché non mi intendo di macchine ".







Dal 12 al 14 marzo 1978 - Mario D'Achille:


"Sono conducente di ambulanza presso l'ospedale San Filippo Neri sito in via
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Trionfale. Molto spesso, in conseguenza di alcuni esami clinici che vengono effettuati esclusivamente presso il policlinico,
percorro via Trionfale, via Cortina d'Ampezzo, via Cassia per recarmi al suddetto nosocomio. Verso il giorno 12.3.78, nel
ritornare dal policlinico percorrendo lo stesso itinerario sopra descritto, alle ore 11.30/12.00 circa. Transitando in via Cortina
d'Ampezzo, ho incrociato una Fiat 128 bianca di tipo familiare che procedeva verso Via Cassia. La predetta autovettura era
condotta da un uomo.... Accanto all'uomo sedeva una donna Un paio di giorni dopo, credo il 14.3.78, ho rivisto la stessa
128 bianca, familiare, ferma d'innanzi un edificio sito in via Cortina d'Ampezzo (in effetti si tratta di Via del Forte Trionfale),
ad una distanza di circa 50 metri da quella che ho in seguito saputo essere l'abitazione de/l'On. Moro. Preciso che la suddetta
autovettura si è fermata davanti al cancello di un edificio che credevo che fosse un istituto scolastico, ha fatto scendere la
donna che si è diretta con passo sicuro al/Interno dell'edificio stesso ed è ripartita subito, cercando di fare inversione di
marcia. Io sono stato quindi costretto a spostarmi tutto sul lato sinistro della strada per evitare la collisione. In questo
frangente ho notato che l'auto era targata CD e che alla guida si trovava la stessa persona che avevo visto qualche giorno
prima nella medesima Via Cortina d'Ampezzo. In particolare, in questa circostanza ho pensato che invece di essere targata
CD era meglio che fosse targata "che disgraziato".... Nel ripercorrere la Via Cortina d'Ampezzo.... ho notato che nel punto
dove credevo esistesse istituto scolastico c'era invece una cartello "Casa di Cura"(que\\a che descrive il teste è la Casa di Cura
Villa Maria Pia sita in via del Forte Trionfale 36 - ubicata quasi di fronte all'abitazione dell'On. Moro).





Qualche giorno prima del 16 marzo 1978 - Alverino Taraddei:



"Sono gestore dei negozio di generi alimentari sito ina via del
Forte Trionfale 4/B. Qualche giorno prima del 16 marzo, non sono in grado di stabilire esattamente la data, nella mattinata, notai in
sosta ali 'altezza del civico UH della stessa via, una autovettura Fiat 128 tipo familiare di colore bianco latte, targata CD. In quella
occasione non detti importanza al particolare, per cui non rilevai i numeri di targa, né feci caso se in essa si trovassero o meno delle
persone... "






Dalle testimonianze sopra raccolte appare dimostrato che la 128 CD ha stazionato ripetutamente e frequentemente nelle vicinanze
dell'abitazione dell'On. Moro nei giorni precedenti l'agguato. La Fiat 128 targa CD sembra sempre più un'auto di vigilanza o di
scorta di Aldo Moro più che un'auto di terroristi.
A mio avviso appare veramente difficile pensare che l'auto in questione non sia mai stata notata dalla scorta di Aldo Moro ed in particolare
dall'uomo più esperto: il maresciallo Oreste Leonardi. Anche l'uso della targa CD sembra più una specie di distintivo per farsi riconoscere
dalla scorta più che un'auto di terroristi in perlustrazione per organizzare un attentato.
Il Maresciallo Leonardi è un professionista serio e preparato. Certamente è al corrente che proprio nelle settimane precedenti l'agguato, la
polizia ha aperto un'inchiesta, in quanto nel mese di febbraio sono state notate, proprio da uomini della scorta, delle persone sospette vicino
allo studio dell'On. Moro in Via Savoia.




Come riportato in un articolo del 19.5.1979 pubblicato sul Corriere della Sera, i giornalisti Roberto Martinelli ed Antonio Padellare
scrivevano: "... proprio il 15 marzol978 si erano chiuse, senza esito, le indagini su una ipotesi di attentato contro il leader DC... Due
giovani erano slati visti aggirarsi con fare sospetto in via Savoia, vicino allo studio di Aldo Moro. La Digos aveva segnalato l'episodio
alla Procura della Repubblica. Il giorno prima dell 'agguato la Polizia rassicurava Moro".
E' certo che dopo quell'episodio è stato chiesto un rafforzamento della scorta. In data 15 marzo 1978, su disposizione dell'allora Capo
della Polizia Parlato, il capo della Digos Domenico Spinella si è recato presso lo studio dell'On. Moro, al fine di concordare delle iniziative
per il rafforzamento delle misure di sicurezza.
La Fiat 128 targa CD potrebbe pertanto essere stata un rinforzo delle misure di sicurezza. Una scorta aggiuntiva. Al riguardo il
manuale delle scorte prevedeva: "La scorta per particolari motivi di sicurezza può essere raddoppiata e, in tal caso, l'auto dèlia
personalità è preceduta e seguita da un'auto di scorta... ".




Ora sentiamo una testimonianza relativa a poche ora prima dell'agguato, sempre vicinissimo l'abitazione dell'On. Moro.







16 marzo 1978 - Riccardo Iorio:


"Sono una guardia giurata e presto servizio ogni notte presso il Ministero delle Poste in Europa all'Eur. Stamattina, come di consueto, verso le ore 6,00 sono smontato e con la vespa sono andato a casa, in Via
Casa/piombino 8. Per giungervi devo percorrere via del Forte Trionfale e verso le ore 6,25 superato l'autosalone Rosati, sulla
destra, quasi accostato al vecchio cinema, chiuso da tempo, ho notato una Fiat 128 bianca di tipo familiare, con 4 persone bordo. L'auto era ferma con il muso rivolto verso la mia stessa direzione di marcia, in un piccolo spiazzo formato da una lieve
rientranza del marciapiede. Pertanto detta macchina non dava alcun fastidio alla circolazione. Poiché, per lo meno, era
strana, la presenza di una tale auto con 4 persone a bordo, ho dato un'occhiata alla targa e a colpo d'occhio sono certo che
fosse targata CD. Non ricordo il numero di targa. Non ho fatto molto caso, invece, ai 4 che si trovavano a bordo. Ricordo
solo che l'uomo seduto al volante, indossava una giacca di panno, del tipo militare, di colore verde.... Più tardi ho saputo
dell'eccidio di via Mario Fani e andato sul posto ho rivisto la stessa autovettura, cioè una Fiat 128 del tipo familiare, bianca,
già sistemata sul carro attrezzi, priva della targa. Credo si tratti della stessa autovettura, poiché a prescindere dalla targa,
sullo sportello anteriore sinistro questa macchina presentava una lieve strisciatura che io avevo già notato in quella di cui fatto menzione e targata CD. Credo pertanto che la macchina di stamattina, ferma 200 metri prima dell'abitazione
dell'on. Moro con la parte anteriore diretta verso l'abitazione dell'on. Moro, sia la stessa".
La testimonianza del sig. Iorio è importantissima, sia perché relativa a poche ore prima l'agguato sia per la certezza dell'identificazione
dell'auto utilizzata dai terroristi.
A questo punto emergono delle ulteriori domande:
Cosa ci fa la Fiat 128 CD due ore e mezza prima dell'uscita di casa di Moro? Perché quattro persone a bordo? Perché rischiare in 4,
quando ne bastava uno? Al rischio di mandare all'aria tutto il piano. Perché usare la stessa auto che poi è utilizzata nell'agguato in Via
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Mario Fani?
E poi: Il testimone vede l'auto ferma e parcheggiata. Quindi non un passaggio veloce, ma ferma e parcheggiata. Parcheggiata da quanto
tempo e per quanto tempo?
Il brigatista Mario Moretti dichiara di essersi recato da solo con la 128 CD in via del Forte Trionfale, di aver verificato la presenza della
scorta di fronte a casa Moro, di aver dedotto che di li a poco Moro sarebbe uscito; quindi di essersi portato in Via Mario Fani ad aspettarli.
Come ormai è ampiamente dimostrato e documentato la versione brigatista è falsa. Trattasi di versione di comodo per nascondere
verità inconfessabili, verosimilmente legate alla collaborazione con forze estranee alle Brigate Rosse.
Viene in mente l'articolo del giornalista Pecorelli che dimostra, attraverso i suoi scritti, di sapere da chi era composto il commando
dell'agguato di via Mario Fani (e probabilmente per questo è ucciso il 20 marzo 1979), infatti, durante il sequestro del Presidente DC, sul
giornale OP scrive:
" Aspettiamoci il peggio, gli autori della strage di via Mario Fani e del sequestro di Aldo Moro sono dei professionisti addestrati
in scuole di guerra del massimo livello. I killer mandati all'assalto dell'auto del presidente potrebbero invece essere
manovalanza reclutata su piazza. È un particolare da tenere a mente'.
Eccolo il particolare da tenere a mente: In via Mario Fani vi erano manovalanza di piazza e professionisti. Ovvero: brigatisti e... chi altro?




Altre testimonianze il giorno dell'agguato (16.3.1978)



16 marzo 1978 - Luciano Pasquali:



"Verso le ore 7.55, mentre a bordo della mia autovettura percorrevo la Via Prenestina,
diretto a Porta Maggiore, poco dopo l'incrocio con Via Alberto da Giusmano, sono stato affiancato e poi superato sulla sinistra
da un'autovettura Fiat 128 familiare di colore bianco con targa CD. L'andatura della suddetta autovettura ha attirato la
mia attenzione in quanto era molto frettolosa. Cercava di superarmi sulla sinistra passando sul marciapiede, ecco perché ha
destato la mia attenzione. Disolito, una macchina targa CD non fa queste cose. Poi l'ho raggiunta e ho detto: Lei ha una
macchina del Corpo Diplomatico e fa il pirata? C'era un ingorgo.... E questo ha superato tutti sulla sinistra con un ruota sul
marciapiede e l'altra sulla strada ".
Una precisazione riguardo questa testimonianza. Il luogo dell'avvistamento è lontano circa 16 /17 chilometri rispetto a via del Forte
Trionfale 79 (abitazione di Aldo Moro) e via Mario Mario Fani (luogo dell'agguato). Non si capisce cosa ci farebbe l'auto in questa zona,
che appare molto decentrata rispetto al percorso dell'auto di Moro. Considerato l'orario (manca circa un'ora all'agguato), è comunque
ancora in tempo per raggiungerli.






16 marzo 1978 - Lorenzo Cappuccio:



"Sono proprietario di un'officina meccanica sita in via Trionfale, all'angolo con via Mario
Fani. Questa mattina, verso le ore 8.50, mi sono recato a piedi dall'altra parte di via Mario Mario Fani, e cioè quasi all'incrocio con
Via Stresa, per prendere in consegna la macchina di un cliente. Nel percorrere a piedi il suddetto tratto di strada ho notato
un 'autovettura BMW 302, di colore blu, con tre persone a bordo, che ha percorso per tre o quattro volte via Mario Fani, in entrambi i
sensi. Preciso che la predetta autovettura era targata CD. Non ho fatto caso al numero di targa. La targa era comunque quadrata. Ho
proseguito fino ad un bar sito a circa 150 metri dall 'incrocio con via Stresa. L'autovettura BMW, quasi ali 'altezza del bar effettuò
mentre proveniva dall 'incrocio con via Stresa una inversione ad U a velocità sostenuta, tanto da far sgommare le ruote, dirigendosi
verso l'incrocio con via Stresa. Ali 'interno del Bar, da alcune persone che conosco, ho saputo che c 'era stata una sparatoria e che era
stato rapilo l'On. Moro. Uscito dal locale notai per l'ultima volta l'autovettura BMW 302 a velocità sostenuta percorrere per Via Mario
Fani in direzione di Via Trionfale. L'autovettura in fondo a via Trionfale deviò a sinistra verso il centro di Roma".
La testimonianza evidenzia che quella mattina vi era almeno un'altra auto con targa CD, molto sospetta, con tre persone a bordo. Appare
evidente che la BMW fa parte del piano dell'agguato. Probabilmente l'uso della targa CD era una specie di segnale di riconoscimento.
L'auto in questione ha senz'altro una funzione di supporto / supervisione del territorio e di appoggio al piano terroristico. Là BMW 302 di
colore blu targa CD ed i suoi tre occupanti non sono mai stati individuati - identificati.
Come facevano i terroristi ad essere certi che l'auto di Moro sarebbe passata in Via Mario Fani
Moro e la sua scorta non percorrevano tutti i giorni la stessa strada: cambiavano il percorso in ragione dei vari impegni della giornata ...
Eppure, fin dalla sera del 15 marzo i brigatisti attuarono i preparativi: nottetempo vennero squarciate le gomme del pulmino appartenente
al fioraio Antonio Spiriticchio che ogni giorno sostava proprio nel luogo dell'agguato. L'audace imboscata terrorista venne preceduta da
una meticolosa preparazione logistica: dunque i terroristi fin dal giorno prima avevano l'assoluta certezza che la mattina dopo, verso le ore
9, l'auto di Moro sarebbe transitata in via Mario Fani.
Come potevano essere sicuri che Moro proprio quel giorno e a quell'ora sarebbe passato da via Mario Fani?
Questo è uno dei nodi centrali della vicenda, mai chiarito nonostante tutte le indagini svolte in questi 38 anni. Secondo la versione
brigatista fu solo una fortuna il fatto che al primo tentativo Moro transitasse per via Mario Fani e secondo le loro dichiarazioni se l'auto di
Moro quella mattina avesse utilizzato un altro percorso l'agguato sarebbe stato ripetuto nei giorni seguenti. Sempre in Via Mario Fani.
Sempre nello stesso punto. Sino a scopo raggiunto.
Anche questa versione è l'ennesima menzogna. 1 brigatisti avrebbero tagliato le gomme al furgone di Spiriticchio anche i giorni
successivi e si sarebbero appostati per diverse mattine con le divise dell'Alitalia con borse contenenti armi davanti al bar Olivetti?
Ovviamente nessuno avrebbe segnalato niente di sospetto? Una versione semplicemente ridicola.




In merito ai movimenti dell'auto di Moro e della scorta va precisato che:
1) Il 21 maggio 1981, nel corso dell'audizioni alla precedente Commissione Parlamentare, l'agente Rocco Gentiluomo, facente
parte della scorta di Aldo Moro ha precisato che "Prima di partire ogni mattina ci si collegava con la centrale operativa.
Avevamo l'obbligo di chiamare. Dovevo avvertire che uscivamo e quando si arrivava a destinazione. Via radio venivamo
informati, ad esempio, delle manifestazioni, cosicché potevamo evitare di finire in mezzo alla folla. In quei casi si
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cambiava itinerario. Tutti i movimenti si comunicavano via radio e c'era un apposito registro su tutti gli spostamenti
Sia le registrazioni audio che i registri cartacei però non si trovano. Furono ripetutamente chieste sin dal 1980, senza
esito. Certamente non si potrà dare la colpa anche di questo alle Brigate Rosse!




2) Quando nel maggio 1979 furono arrestati i brigatisti Morucci e Faranda, tra i vari reperti recuperati, vi era il recapito
telefonico del commissario di Pubblica Sicurezza Antonio Esposito, iscritto alla loggia massonica P2,

(TESSERA N 1841 ) che la mattina del 16
marzo 1978 prestava servizio proprio nella sala operativa della questura di Roma. Anche su questa circostanza, che apre scenari
inquietanti, si chiede di effettuare i doverosi approfondimenti.







Conclusioni




Quella di seguito riportata è una ipotesi, fondata però su tutta una serie di ragionamenti supportati dalle testimonianze, dai documenti e
dalla logica.


L'ipotesi che la Fiat 128 familiare bianca targa CD facesse parte del convoglio e quindi fosse di scorta ad Aldo Moro, mi rendo conto, apre
scenari inquietanti ed esplosivi, ma è l'unica argomentazione in grado di spiegare i seguenti interrogativi:
come facevano i terroristi ad essere così sicuri che quella mattina l'auto di Moro sarebbe passata in Via Mario Fani?


Erano sicuri perché godevano della complicità di forze che apparentemente dovevano proteggere Aldo Moro mentre in effetti parteciparono attivamente all'eccidio.

L'auto di Moro era preceduta da un'auto di scorta aggiuntiva (la 128 CD) che si posizionò sin dall'inizio davanti all'auto di Moro ed essendo davanti di fatto decise e condizionò l'itinerario, portando il convoglio all'appuntamento voluto in via Mario Fani;


perché l'autista Ricci ed il maresciallo Leonardi non reagirono alle prime avvisaglie dell'agguato?

Perché sia Ricci che Leonardi credevano di seguire un'auto di colleghi. In effetti sia Ricci che Leonardi nulla fecero quando la 128 CD si fermò inspiegabilmente all'incrocio di via Mario Fani con via Stresa.


Nulla fecero neppure quando videro scendere delle persone dalla 128 CD ed
avvicinarsi alla loro auto (quella con Moro a bordo).


Ricci e Leonardi vennero uccisi all'improvviso, probabilmente da persone identificate
come "amiche", con iniziali singoli e precisi colpi sparati in maniera inaspettata, effettuati con il duplice scopo della sorpresa e per evitare di colpire il passeggero Aldo Moro.


Ciò concorda con quanto riportato dai vari testimoni che inizialmente udirono spari isolati seguiti,
dopo alcuni secondi, dalle raffiche di mitra perché venne sparato un colpo ravvicinato (colpo di grazia) alla fine dell'agguato a 4 dei 5 componenti la scortaQ'unico a
non esser raggiunto da tale colpo fu Francesco Zizzi al suo primo giorno di servizio. Morirà in ospedale qualche ora dopo)?



Perché non
dovevano sopravvivere all'agguato.

Non dovevano raccontare la dinamica di quanto era successo ed in particolare che la Fiat 128 CD era
un'auto ritenuta di "colleghi".




5 di 5
5
11/05/2016 10:05





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In realtà la tesi del Generale Laporta

è stata formulata in primis da Gero Grassi .



assolutamente da leggere il suo libro


https://www.gerograssi.it/cms2/file/Ger ... ampato.pdf



zio ot [:305]



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 Oggetto del messaggio: Re: Aldo Moro, quando la verità uccide.
MessaggioInviato: 17/06/2024, 16:58 
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P2: LA CONTROSTORIA (21) LE MORTI MISTERIOSE





]277 «Il generale Antonino Anzà venne ritrovato morto nel suo studio il 12 agosto 1977. L’ufficiale era
stato colpito da un colpo di pistola alla testa, nella sua casa di Roma. L’immediata versione dei fatti
attribuisce il decesso al suicidio, ma l’arma era appoggiata alla scrivania, a due metri di distanza dal
corpo.

Qualche giorno prima, a Messina, anche il colonnello Giansante venne ritrovato morto. In quel
periodo, si scoprirà successivamente, erano in gioco gli avvicendamenti al vertice degli stati maggiori di
Esercito e Difesa ed all’interno dei Corpi erano sorte faide per aspirare alle due cariche», GUARINO –
108
quale generale dei Cc sarà ritrovato suicida con una classica revolverata che fa tutto
da se, o col solito incidente d’auto radiocomandato, o la sbadataggine dei camionisti
spagnoli, o d’elicottero278.

Sotto a chi tocca: chi sfida l’Internazionale fa questa fine
in questa Italia democratica. […]

Purtroppo il nome del Generale Cc è noto279:
Amen280.




GLI ANNI DEL DISONORE-MARIO GUARINO e FEDORA RAUGEI-EDIZIONI DEDALO 2006



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http://old.radicali.it/search_view.php?id=48931




P2: LA CONTROSTORIA (21) LE MORTI MISTERIOSE




Fatti e misfatti, uomini, banche e giornali, generali e terroristi, furti e assassinî, ricatti e potere, secondo i documenti dell'inchiesta parlamentare sulla loggia di Gelli

di Massimo Teodori

SOMMARIO: "Molto si è scritto della P2 e di Gelli ma la verità sulla loggia e sul suo impossessamento del potere nell'Italia d'oggi è stata tenuta nascosta. Contrariamente a quanto afferma la relazione Anselmi votata a maggioranza a conclusione dell'attività della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla P2, la Loggia non è stata un'organizzazione per delinquere esterna ai partiti ma interna alla classe dirigente. La posta in gioco per la P2 è stata il potere e il suo esercizio illegittimo e occulto con l'uso di ricatti, di rapine su larga scala, di attività eversive e di giganteschi imbrogli finanziari fino al ricorso alla eliminazione fisica."

La "controstoria" di Teodori e una ricostruzione di fatti e delle responsabilità sulla base di migliaia di documenti; è la rielaborazione e riscrittura della relazione di minoranza presentata dall'autore al Parlamento al termine dei lavori della Commissione parlamentare d'inchiesta. Sono illustrati i contorni dell'associazione per delinquere Gelli-P2; si fornisce l'interpretazione dell'attività eversiva dei servizi segreti e quella dei Cefis, dei Sindona e dei Calvi; si chiarisce il ruolo della P2 nel "caso Moro" e nel "caso d'Urso", nella Rizzoli e nell'ENI, nelle forze Armate e nella Pubblica Amministrazione. Sono svelati gli intrecci con il Vaticano, il malaffare dei Pazienza, dei Carboni e il torbido del "caso Cirillo".

(SUGARCO EDIZIONI - Dicembre 1985)

APPENDICE - LE MORTI MISTERIOSE


Nel nostro paese ormai da molti anni l'eliminazione individuale è divenuta mezzo normale di soluzione di conflitti. La storia italiana dell'ultimo quindicennio non è solo punteggiata dalle stragi dal terrorismo e dalla grande criminalità organizzata ma anche da delitti individuali centrati usati nella lotta per il potere, la cui soluzione nella maggior parte dei casi è rimasta volutamente irrisolta.

Le morti elencate in questa appendice assassini, »suicidi , »incidenti sono misteriose, nel senso che o non si conosce l'assassino e il mandante, o vi è stata una veloce rubricazione come »suicidi nonostante vistose contraddizioni, o vi è stato deliberato rifiuto di indagare sulle modalità dell'incidente.

L'elenco dei personaggi uccisi si riferisce all'ambito P2. Ciò non significa che la loggia P2 abbia ucciso o sia stata il mandante dei delitti ma solo che la morte di ciascun personaggio si inserisce, direttamente o indirettamente, in una trama nella quale ha attivamente operato la P2 o alcuni suoi autorevoli esponenti. Seguendo una tipologia ormai consolidata, l'origine delle morti può essere ricondotta a una di queste due categorie: o per eliminare un concorrente in una qualche situazione di potere o per far tacere per sempre qualcuno a conoscenza di pericolose informazioni occulte.

Alcune vicende sono assai note: quelle del colonnello dei servizi segreti Rocca, del giornalista Pecorelli e del banchiere Calvi. Ma l'elenco delle eliminazioni individuali centrate nell'arco di un quinquennio è molto più esteso: le schede contenute in questa appendice sono solo una parte di una lista che potrebbe essere più lunga.

Dunque, l'eliminazione fisica è divenuta parte della cultura di potere italiana, forse l'unica, in questo grado, fra i paesi democratici dell'Occidente. Lo strumento dell'assassinio è usato con frequenza non solo nel mondo militare e dei servizi segreti, nei rapporti fra malavita e manovalanza terroristica, ma anche sempre più diffusamente nei grandi casi nazionali di malaffare finanziario e politico come quelli Sindona, Cirillo, Calvi...

La P2 è stata anche questo: il terreno di coltura su cui si è potuta sviluppare la cultura dell'eliminazione centrata individuale.



Ecco una serie di morti misteriose.






Danilo Abbruciati (caso Calvi e malavita)


Esponente di rilievo della malavita romana, viene ucciso il 27 aprile 1982 da una guardia giurata dopo che ha sparato a Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano. Non si conoscono i motivi per cui il boss della malavita romana si sia inserito in un affare riguardante la banca di Calvi.

Legato a Flavio Carboni, a Domenico Balducci e a Ernesto Diotallevi che portò a Calvi il passaporto falsificato intestato a »Gian Roberto Calvini . Era stato implicato nei sequestri della banda dei marsigliesi, in particolare in quelli di Bulgari, Ortolani (figlio di Umberto) e D'Alessio.

Vito Alecci (Esercito e P2)

Il colonnello dell'Esercito Vito Alecci muore suicida nel catanese il 3 marzo 1985. Aveva vissuto per un lungo periodo con Nara Lazzerini, la segretaria di Licio Gelli che aveva assistito per cinque anni agli incontri del venerabile all'Hotel Excelsior di Roma. Il suicidio del colonnello, che era un vecchio iscritto alla P2, per la Lazzerini è »un omicidio bell'e buono da far risalire senza esitazione alla Loggia.

Giorgio Ambrosoli (caso Sindona)

Nominato nel 1974 commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, ricostruisce con un intenso lavoro di cinque anni gli imbrogli che sono all'origine del crack Sindona.

Si oppone decisamente alla sistemazione del dissesto sindoniano per cui lavorano alacremente i piduisti Gelli, Ortolani, Stammati e Memmo, auspice Giulio Andreotti. Dopo mesi di minacce, viene assassinato il 12 luglio 1979 sotto il portone della sua casa. L'indomani avrebbe dovuto testimoniare per i giudici americani sul dissesto in Usa della sindoniana Franklin National Bank.

L'esecutore del delitto è identificato in William J. Aricò detto »Billy lo sterminatore , e il mandante, secondo l'incriminazione della magistratura italiana, è Michele Sindona (P2)

Antonino Anzà (militari)

Nell'estate del 1977 erano previsti gli avvicendamenti al vertice degli stati maggiori dell'Esercito e della Difesa. A turbare ulteriormente un clima già teso dalle faide interne intervengono in agosto due fatti clamorosi, le dimissioni da comandante dell'Arma del generale Enrico Mino e la fuga di Kappler dall'ospedale militare del Celio. Il comandante dei CC ritira poco dopo le sue dimissioni e sull'onda dell'emozione per Kappler, rafforza la sua posizione all interno dell'Arma. Sul fronte degli stati maggiori, intorno a ferragosto, un terzo fatto aumenta lo sconcerto: il 12 agosto uno dei concorrenti alla carica di capo di stato maggiore dell'Esercito, il gen. Antonino Anzà, viene trovato morto per un colpo di arma da fuoco nella sua casa romana. La tesi del suicidio, prontamente resa ufficiale, contraddice numerosi elementi di fatto. Tutta la stampa scrive che il »suicida si era sparato poco dopo essersi cucinato, senza consumarla, una rapida colazione. Pochi giorni prima, in Sicilia, un collaboratore di

Anzà, il colonnello Giansante comandante dei CC di Messina, si era anch'egli suicidato. Il comandante dei carabinieri, generale Mino apparteneva come hanno testimoniato in molti, allo stretto gruppo, gelliano e così alcuni dei pretendenti alla sua successione.

William Joseph Aricò (caso Sindona)


Il presunto assassino dell'avvocato Ambrosoli muore il 19 febbraio 1984 nel carcere di Manhattan, il Metropolitan Correctional Center, tentando una disperata evasione. Secondo la ricostruzione della direzione del carcere, Aricò insieme al suo compagno di cella, dopo aver segato le sbarre si sarebbe calato dal nono piano con lenzuola annodate. Viene trovato cadavere su una terrazza del carcere: il giorno dopo si sarebbe dovuto presentare al tribunale di Brooklyn per il procedimento di estradizione in Italia. Era stato arrestato nel giugno 1982 a Philadelphia.

Domenico Balducci (caso Calvi e malavita)

Esponente di rilievo della malavita romana, viene ucciso il 17 ottobre 1981 davanti al cancello della sua villa. Amico di Pazienza e finanziatore di Carboni, entra attraverso i due faccendieri nelle tormentate vicende dell'ultimo anno di vita del banchiere della P2. Proprietario di una villa in Sardegna in cui si sarebbe dovuto recare Calvi durante la vacanza organizzata da Pazienza nell'estate del 1981.

Albert Bergamelli (malavita e P2)


Quando lo arrestano nel marzo 1976 dichiara: »Qualcuno mi ha tradito ma si ricordi che sono protetto da una "grande famiglia" . Fino ad allora era noto come feroce rapinatore e capo, insieme a Berenguer e Bellicini, di una banda di sequestratori.

E dopo il suo arresto che il pubblico ministero Vittorio Occorsio comincia a trovare riscontri a un'ipotesi di connessioni fra la »banda dei marsigliesi , il terrorismo nero e la loggia P2 (la »grande famiglia ). Dopo alcuni anni, Bergamelli, detenuto nel carcere di Ascoli Piceno, stabilisce ottimi rapporti con Cutolo.

Bergamelli viene ucciso in carcere nel settembre 1982, a poco più di un anno di distanza dal caso Cirillo e sei mesi dopo il delitto Semerari. L'assassino di Bergamelli si chiama Paolo Dongo, un detenuto »comune politicizzatosi in carcere e divenuto seguace della frazione brigatista capeggiata da Giovanni Senzani.

Ermanno Buzzi (»neri e P2)


Accusato per la strage di Piazza della Loggia a Brescia nel 1974, viene strangolato nel carcere di Novara da Pier Luigi Concutelli, assassino del giudice Occorsio, nell'estate del 1981. Questo delitto non impedisce al ministro della Giustizia Mino Martinazzoli di trasferire nello stesso carcere Carmine Palladino che subisce la stessa sorte.

Roberto Calvi


La morte del banchiere della P2 il 17 giugno 1982 è stata analizzata, oltre che dai giudici inglesi, da una moltitudine di articoli e inchieste nella stampa italiana. Eppure tutti gli interrogativi sulla sua fine a Blackfriars Bridge sono rimasti senza risposta. Certo è che la sua fine è legata agli intrighi della finanza speculativa nazionale e internazionale di cui il sistema piduista era partecipe. Gelli e Ortolani, insieme a Pazienza e ad altri, sono stati incriminati per il crack dell'Ambrosiano. Nonostante che il tribunale di Londra abbia ratificato in prima istanza il suicidio, pochissimi sono coloro che hanno creduto a questa tesi assolutamente improbabile.

Maria Fiorella Carraro (caso Cirillo)


Il »suicidio del 1· aprile 1982 della segretaria di Aldo Semerari, che avviene contemporaneamente alla scomparsa del criminologo, mentre infuria la polemica per il falso documento sul »caso Cirillo pubblicato dall'»Unità , lascia sconcertati per alcuni particolari inverosimili. Un'altra collaboratrice del criminologo, Luisa Barlesi, dichiara al magistrato di non credere al suicidio della Carraro che, poco prima della sua morte, aveva dato a vedere di essere tutt'altro che depressa. La stessa arma rinvenuta accanto al corpo, una 357 Magnum, contribuisce ad aumentare i dubbi degli inquirenti, così come la ricostruzione degli ultimi movimenti della donna nel suo appartamento. Il caso viene rapidamente archiviato come »suicidio .

Vincenzo Casillo (caso Cirillo)

Il luogotenente di Cutolo è uno dei principali protagonisti del »caso Cirillo . Entra ed esce a suo piacimento dal carcere di Ascoli Piceno per condurre la trattativa fra SISMI, camorra, Brigate Rosse e inviati della DC. Un anno e mezzo dopo la liberazione di Cirillo, quando il »caso esplode nella stampa, il 29 gennaio 1983 il camorrista salta in aria mettendo in moto un'automobile imbottita di dinamite. Casillo aveva avuto a che fare con il gruppo SISMI diretto da Pietro Musumeci (P2). Al momento della sua morte è latitante: l'esplosione avviene nei pressi del suo nascondiglio di Primavalle a Roma a poca distanza dalla sede del SISMI.

Augusto Ciferri (M.Fo.Biali)

E' il maresciallo del SID incaricato di effettuare le intercettazioni telefoniche che sono alla base del fascicolo M.Fo. Biali. In seguito all'apertura di un'inchiesta sulla sparizione del fascicolo, il colonnello Demetrio Cogliandro, responsabile del fascicolo, dichiara al magistrato che Ciferri non gli consegnò mai le bobine delle intercettazioni all'origine del dossier ma solo appunti. Due giorni dopo, il 12 ottobre 1979, Ciferri muore finendo contro un albero in un incidente inspiegabile date le condizioni normali della strada e del tempo. Nessuno pensa a fare l'autopsia.

Ciferri era l'uomo chiave per l'attendibilità del fascicolo M.Fo.Biali riguardante il generale Giudice (P2) e il generale Lo Prete (P2), il contrabbando del petrolio e l'attività degli uomini del SID, Maletti e Viezzer, tutti della P2.

Ciferri conosceva anche Pecorelli (P2) che aveva pubblicato a puntate su »OP il dossier M.Fo.Biali.

Graziella Corrocher (caso Calvi)

La segretaria di Calvi si uccide nel pomeriggio del 17 giugno 1982 poco dopo che il consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano ha deciso di privare il presidente dei suoi poteri e di chiedere alla Banca d'Italia il commissariamento.

La morte della Corrocher, che lascia sul suo tavolo un biglietto in cui esprime profonda delusione per il comportamento del suo presidente, precede di poche ore quella di Calvi.

Salvatore Florio (Guardia di Finanza e P2)

Il colonnello Salvatore Florio è l'ufficiale della Guardia di Finanza che attiva le indagini su Gelli come responsabile dell'Ufficio I a cui sono dovute tre informative sul capo della P2 nella primavera 1974. Con l'assunzione del comando del corpo da parte del gen. Raffaele Giudice (P2) nell'agosto 1974, il colonnello Florio viene subito trasferito e fatto segno a una campagna diffamatoria attraverso numerose lettere anonime inviate ai suoi superiori. Dopo due anni a Genova, nel 1977 Florio viene mandato a dirigere la scuola sottufficiali di Ostia. Nel luglio '78 riceve un'ispezione del generale Giudice e fra i due ufficiali vi è un duro scontro di fronte a testimoni. Nei giorni seguenti il colonnello, durante un viaggio in Veneto muore in un incidente stradale dalla meccanica inspiegabile. La sua macchina, guidata da un autista perfettamente riposato, dopo una serie di sbandate si schianta contro il guard rail dell'autostrada. Vengono ufficialmente avanzati sospetti di sabotaggio. Alla famiglia non viene re

stituita la borsa portadocumenti che il colonnello aveva con sé e dalla sua cassaforte spariscono alcuni dossier col timbro »riservatissimo , uno dei quali intestato al generale Giudice. La moglie testimonia in tribunale sulle persecuzioni subite dal marito da parte del gruppo piduista.

Boris Giuliano (mafia e finanza occulta)

Il capo della squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano viene ucciso in un bar il 21 luglio 1979, dieci giorni dopo ii delitto Ambrosoli.

L'avvocato Giuseppe Melzi, legale dei piccoli azionisti delle banche di Sindona, ha parlato di un incontro avvenuto verso la metà di giugno 1979 fra Giuliano e il liquidatore della Banca Privata, Ambrosoli.

E' certo che sia l'avvocato Ambrosoli, ricostruendo i giri di denaro delle banche sindoniane, sia il commissario di Palermo, indagando sui percorsi dei denari mafiosi, si sono trovati di fronte al problema del riciclaggio del denaro »sporco e ai circuiti finanziari nazionali e internazionali di carattere occulto.

Salvatore Imperatrice (caso Cirillo)


Elemento della Nuova Camorra Organizzata che partecipa alle trattative per la liberazione di Cirillo come accompagnatore di Casillo. Arrestato quattro giorni dopo il rilascio di Cirillo, sembra che in carcere gli sia stata affidata una cassa di documenti sull'affare e sulla trattativa con servizi segreti BR e DC.

Viene trovato »suicidato nel carcere di Avellino l'11 marzo 1985, dopo che era sopravvissuto ad una fuga da una caserma dei carabinieri nell'ottobre '84 e ad una serie di coabitazioni forzate in celle con un gruppo di noti killer delle carceri quali Concutelli, Medda, Tuti e Andraous.

Giovanna Matarazzo (caso Cirillo)

Compagna di Vincenzo Casillo, a conoscenza di tutte le vicende del »caso Cirillo raccontatele dal luogotenente di Cutolo. Si allontana da Roma dopo la morte del camorrista e viene data per morta tre mesi dopo. Il 2 febbraio 1984, con il ritrovamento di un cadavere sconosciuto, le viene attribuito quel corpo con la dichiarazione di una morte presumibile.

Enrico Mino (militari)

Il nome del generale Enrico Mino non figura negli elenchi di Castiglion Fibocchi anche se negli atti della commissione d'inchiesta in più occasioni egli viene definito uomo vicino a Gelli e a Pecorelli. Ne parlano in questo senso l'ex presidente della Repubblica Giovanni Leone, in un memoriale inviato alla commissione, e il capitano Antonio Labruna, in un interrogatorio al giudice Sica. Sicuramente, durante il suo comando dell'Arma, Mino entra in conflitto con alti ufficiali dei Carabinieri, in particolare con il generale Arnaldo Ferrara e con l'allora colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa. Per tutta la durata del suo comando si protrasse quel clima di profonde divisioni e di scontro fra gruppi contrapposti, terreno d'incubazione su cui ha prosperato il sistema di potere e di ricatto della P2.

Nel momento più delicato del conflitto interno all'Arma, e in coincidenza con le polemiche sulla fuga di Kappler, Mino perde la vita nel novembre '77 precipitando con un elicottero durante un viaggio di ispezione nel Sud. I dubbi sulla natura dell'incidente furono rafforzati dalle polemiche ancora in corso sul misterioso suicidio del generale Anzà e su quello del colonnello Giansante. Con Mino muoiono il comandante del gruppo CC di Catanzaro e altri ufficiali dei comandi in Calabria.

Vittorio Occorsio (malavita e P2)

Il magistrato viene ucciso a raffiche di mitra il 10 luglio 1976: l'omicidio è rivendicato da »Ordine Nero .

Occorsio si stava occupando di sequestri di persona. A Roma erano stati sequestrati il figlio di Umberto Ortolani (P2), il »re del caffè Alfredo Danesi (P2), e Giovanni Bulgari che aveva il negozio in via Condotti sotto la sede della P2. Il segretario della loggia P2, avvocato Gianantonio Minghelli, era stato incriminato, anche se poi prosciolto, per legami con la banda dei marsigliesi. Il giorno prima di essere ucciso il magistrato aveva parlato con un giornalista della coincidenza fra il totale delle cifre dei riscatti delle bande e il costo della sede della costituenda organizzazione internazionale della P2, l'ONPAM, capeggiata da Licio Gelli.

Nel covo dove viene successivamente arrestato Pier Luigi Concutelli, esecutore materiale del delitto, la polizia trova banconote provenienti dal riscatto dei sequestri della »banda dei marsigliesi e piani per l'evasione di Albert Bergamelli.

Carmine Palladino (»neri e P2)

Luogotenente fin dal 1962 di Stefano Delle Chiaie, dopo un periodo di lontananza dalla milizia politica, viene nuovamente arrestato nell'ambito delle indagini sulla strage della stazione di Bologna. Il 12 agosto 1982 viene strangolato nel carcere di Novara da Pier Luigi Concutelli, assassino del giudice Vittorio Occorsio. Dopo il suo arresto, Palladino aveva dato segni di disponibilità a collaborare con i giudici. I rapporti con Concutelli e Delle Chiaie vengono ribaditi successivamente da alcuni »pentiti dell'estrema destra. Gli inquirenti hanno riaperto le indagini sull'omicidio Occorsio. Sembra che Delle Chiaie abbia armato la mano di Concutelli con il mitra Ingram che venne usato per l'assassinio del magistrato.

Mino Pecorelli


Il giornalista, membro della P2, è con la sua agenzia »OP al centro dell'informazione su tante vicende di malaffare della Repubblica negli anni Settanta. Gran parte del giro di relazioni, di amicizie e inimicizie di Pecorelli sono in ambito P2 oltre che fra i servizi segreti e fra gli uomini politici che se ne servono.

Viene assassinato il 20 marzo 1979. Negli ultimi mesi aveva affrontato su »OP alcuni temi particolarmente pericolosi: il passato di Licio Gelli (P2); il contrabbando di petroli e le responsabilità dei generali Giudice e Lo Prete della Guardia di Finanza (P2); gli assegni per alcuni miliardi in riferimento al presidente Andreotti.

Due giorni dopo l'assassinio, nell'agenda del giornalista era previsto un incontro con il capo della P2.

Renzo Rocca (servizi segreti)


Fedelissimo del generale De Lorenzo, insediato fino al giugno 1967 alla direzione dell'Ufficio REI (Ricerche economiche e industriali) del SIFAR, il colonnello Renzo Rocca è forse il primo e certamente il più importante della lunga lista degli oscuri »suicidi fra gli alti gradi dell'esercito.

Messo in pensione dal capo di stato maggiore della Difesa, gen. Aloja, pochi mesi dopo, nel febbraio 1968, il colonnello apre un ufficio a Roma, formalmente intestato alla Fiat. Il personale che collabora con Rocca proviene tutto dal SIFAR. La sera del 27 giugno 1968 Rocca viene trovato morto nel suo ufficio, si sostiene per un colpo di pistola alla tempia. Il locale viene immediatamente perquisito dal SID, anzi, vi sono due gruppi di ufficiali dei servizi che si recano precipitosamente in via Barberini poco dopo la morte del colonnello. Tre ufficiali sono mandati dal Centro di controspionaggio di Roma, un altro, un colonnello, inviato dal capo dell'ufficio D, generale Viola. Dopo di loro arriva anche un funzionario della divisione Affari Riservati del ministero dell'Interno e, buon ultimo, giunge un semplice commissario che avvisa il magistrato di turno. Questi, appena arrivato, non comprende subito che i precedenti visitatori hanno svuotato i capaci archivi delle quattro stanze dell'ufficio. Qualcosa comun

que il sostituto procuratore Ottorino Pesce porterà a palazzo di Giustizia, ma non riuscirà a consultare nemmeno quei pochi documenti perché il procuratore generale di Roma, Ugo Guarnera, su sollecitazione del capo del SID, ammiraglio Henke, finirà per togliergli l'inchiesta che viene affidata al magistrato Ernesto Cudillo, il quale archivierà il caso come »suicidio e restituirà al SID le carte sequestrate.

Luciano Rossi (Guardia di finanza e P2)

E' il capitano della Guardia di Finanza che nel marzo 1974 redige un'informativa su Licio Gelli nell'ambito dell'Ufficio I diretto dal colonnello Salvatore Florio. Con la nomina da parte di Andreotti e Tanassi del generale Giudice (P2) alla testa della Guardia di finanza, viene allontanato dal servizio informativo e va incontro a numerose traversie, analogamente al colonnello Florio.

Muore il 5 giugno 1981 con un colpo di pistola alla tempia dopo essere stato interrogato nei giorni precedenti circa l'»informativa su Gelli che aveva redatto nel 1974. Non era ammalato, non aveva motivi per suicidarsi e aveva adottato poco tempo prima un bambino. Riferiscono, alla sua morte, che aveva confidato ad amici di essere preoccupato per il suo coinvolgimento nella vicenda della P2, poiché Gelli lo aveva avvicinato, dopo l'informativa, minacciandolo.

Aldo Semerari (servizi segreti, camorra e »caso Cirillo )

Viene trovato decapitato il 1· aprile 1982 ad Ottaviano, patria di Cutolo. Notissimo criminologo, viene arrestato il 28 agosto 1980 per associazione sovversiva nell'ambito delle indagini sulla strage della stazione di Bologna. I »fascisti pentiti lo qualificano nelle deposizioni come un elemento di spicco del vertice dei gruppi neri clandestini negli anni in cui sono a contatto con Gelli e con altri elementi della P2.

E' stato recentemente svelato che Semerari, fratello massone di Palazzo Giustiniani, oltre ai rapporti con la criminalità organizzata con i terroristi neri e con le varie famiglie camorristiche, in realtà collaborava strettamente con i servizi segreti, il SISMI e il SISDE.

Prima di essere ucciso ha cercato la protezione del SISMI attraverso l'avvocato Renato Era e il colonnello Demetrio Cogliandro. La sua morte deve essere messa in relazione con il »caso Cirillo e l'intreccio BR Servizi segreti camorra. Nei giorni precedenti l'assassinio, scrisse una lettera rivendicando la paternità di un documento falso pubblicato da »l'Unità sui responsabili delle trattative.





UNA VERA ECATOMBE ...



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