«Se fosse per noi, se fosse stato per noi, noi avremmo saputo come fare» di Eleonora Betti
È difficile trovare le parole giuste, le parole che possano descrivere l'esperienza di scendere in piazza per prendere parte ad una manifestazione pacifica, con il proprio fidanzato, con i propri amici. Il fatto di avere 25 anni e tanta voglia di esserci perché quel giorno diventi un importante simbolo del sentore di milione di persone, di tutte le età, di tutto il mondo, che vedono le loro vite sgretolarsi, e si sentono impotenti, non considerate, viste solo come numeri, e non come esseri umani, dalla finanza in primo luogo, e da una politica in totale balia di essa. È difficile far comprendere quanto sia forte a poche ore di distanza l'amaro stupore di non essere riusciti a concretizzare questi sani desideri e diritti democratici. La costituzione stessa della manifestazione degli “indignati”, che vedeva una presenza eterogenea di persone, per età, appartenenza sociale e convinzioni politiche, e vista come una sorta di movimento spontaneo di espressione, faceva sì che potessero esserci delle forti lacune nella sorveglianza e nella tutela di coloro che ne avrebbero preso parte. Se questo era insito nella situazione stessa, e quindi è rimproverabile agli organizzatori di questa giornata di indignazione nella capitale italiana una mancanza di vigilanza interna, è ancora più inaccettabile verificare tale mancanza nelle forze di polizia.
Ma di cosa stiamo parlando però? Di semplice sottovalutazione? Io ero parte della manifestazione. Questo vuole anche dire che posso riportare la mia testimonianza, quello che io ho potuto osservare, all'interno di un corteo di circa 200.000 persone. Ed è la mia testimonianza, il mio punto di vista. Non è detto che lo abbiate vissuto anche voi, se siete stati lì con me, magari però in un altro punto del corteo, non è detto che dobbiate credermi. Non sto cercando condivisione, intesa come approvazione, ma nel senso di comunicazione e di dialogo, di volontà di raccontare un'esperienza tra tante, in un giorno difficile, che ritengo possa avere in sé la forza di farci riflettere su dinamiche di più ampia portata. Proprio per questo non entrerò nel merito di un'analisi-resoconto degli eventi a cui non ho direttamente preso parte.
Sono arrivata in piazza della Repubblica alle 13.15, senza fare riferimento ad alcuno dei gruppi organizzati presenti (partiti, studenti, sindacati ecc.), ma come semplice cittadina. Solo casualmente, solo per rendermi conto, per quanto poteva essere possibile fare, della struttura del corteo, ho deciso, prima ancora che il corteo partisse, di incamminarmi con i miei amici, avvicinandomi a piazza dei Cinquecento, davanti alla stazione Termini. Sono passata accanto a bandiere di varia sorta, a persone della mia età, più grandi, più piccole, a insegnanti, studenti, bambini, invalidi, operai, artisti, impiegati...poi, ad un certo punto del viale, ho fiancheggiato una zona di guerra. Direte voi: zona di guerra? Ma la guerriglia non è avvenuta più tardi? Non è successo tutto tra via Cavour e piazza San Giovanni, all'improvviso, ore dopo? Devo darvi ragione, ma sapete, quando si cammina tra migliaia di persone pacifiche, e improvvisamente ci si trova accanto ad un gruppo di ragazzi (perché per la maggior parte si intuiva che fossero ragazzini, con qualche adulto tra loro) “tranquillamente” in tenuta da battaglia (passamontagna già calati sul volto e bandiere arrotolate su solidi bastoni di metallo in mano), vi assicuro che si ha un momento di smarrimento, e che il sangue si gela. Ma poi l'inesperienza (tutte le manifestazioni a cui ho preso parte in precedenza si sono svolte sempre in modo pacifico), la sottovalutazione della situazione (da parte mia, che sono una semplice cittadina, non una poliziotta), le battute sdrammatizzanti fatte con gli amici, ti fanno guardare avanti, verso quelle migliaia di persone pacifiche, e ti lasci alle spalle quelle poche decine di potenziali terroristi come se fosse stato solo un brutto sogno, o un carro allegorico.
Ci fermiamo temporaneamente dietro al camioncino vivace degli occupanti dell'ex Cinema Palazzo di San Lorenzo, e il corteo inizia a muoversi. Percorsi circa duecento metri, all'imbocco di via Cavour ci avviciniamo al gruppo del sindacato Fiom. Decidiamo per prudenza che quella zona, per noi “cani sciolti”, può essere una delle più tranquille, e ci mescoliamo a loro. In effetti dopo poco più di un'ora dalla partenza del corteo, gli eventi e la fortuna ci avrebbero dato ragione. Iniziamo a vedere più avanti del fumo, e un vago sentore di lacrimogeni nell'aria. Ma tutto sembra lontano, tutto sembra non poterci riguardare. Alle nostre spalle, poco dopo, iniziamo a sentire la folla rumoreggiare, gridare. Passano pochi istanti, e alla nostra destra vediamo scendere in fretta un gruppo di persone in un assetto simile a quello che ho descritto prima (passamontagna e spranghe). Ora è il nostro turno. Siamo in una zona del corteo molto compatta, e questo fa sì che sia forte. Ora siamo noi a gridare: “Fuori! Fuori! Fuori! Fuori!”. Non li facciamo entrare, non devono entrare. Ci hanno superati, sono scesi ancora. Non li vediamo più. Continuiamo a camminare. Qualche minuto. Il sole che ci scalda la testa e ci irrita gli occhi. Poi sento le grida. Le persone che mi sono davanti iniziano a correre nella direzione opposta al senso di marcia. Scappano. E io? E noi? Resto pietrificata con il mio pezzo di pizza in mano. Un mio amico e il mio fidanzato mi tirano letteralmente via, con tutta la loro forza. Corro. Ci fermiamo poco più in là, a distanza di sicurezza, per capire che sta succedendo. Falso allarme? Tutto finito? No. Ecco, di nuovo. Urla, gente che corre. Scappo, più veloce che posso. Sento solo dietro di me la voce del mio fidanzato che mi grida: “vai!vai!”. Ed eccomi, a 200 metri di distanza, in una traversa di via Cavour, senza fiato, ferma ad aspettare di vedere tutti i miei amici sani e salvi, ma con tutti i miei sensi all'erta, pronta ad una nuova fuga. Vedo tante persone percorrere quella stessa strada, sfilando davanti a me, con i volti smarriti e terrorizzati. Dei bambini, che non riescono neanche a fare uscire le lacrime dai loro occhi sbarrati, scortati e portati via dai genitori, che sono senza parole, che non sanno cosa dire loro per tranquillizzarli, per spiegargli cosa sia avvenuto. Anche noi, una volta riuniti, decidiamo di non tornare in via Cavour. Non è il caso. Io stessa non sono nelle condizioni fisiche per affrontare una situazione del genere, altri eventuali parapiglia, o peggio. Arriviamo ad un posto di blocco della polizia, dalle parti di via Merulana. Non sappiamo ancora che cosa nel frattempo sia iniziato ad avvenire altrove. Con tranquillità e rispetto ci rivolgiamo agli agenti, sperando di trovare in loro almeno una risposta ad una nostra nuova indignazione sociale, con la sensazione di rabbia e delusione che potrebbe provare un malato non soccorso da un medico: vogliamo sapere perché, come è possibile che loro non possano intervenire, come è possibile non fermare prima questi terroristi (chiamateli black block, se preferite). Non sono riconoscibili tra la folla? Ma come? Ma se noi li avevamo visti ancora prima che partisse il corteo? Ma se vanno in giro tranquillamente con spranghe e passamontagna da due ore? E poi, non diteci che non avete agenti in borghese mischiati ai veri manifestanti...ah, ecco appunto, allora se ci confermate che ci sono, come è possibile che loro li vedano e non vi chiamino ad intervenire, o non intervengano loro stessi, prima che questi delinquenti inizino a distruggere la città, prima che rovinino una manifestazione pacifica di migliaia di persone, prima che venga messa a repentaglio l'incolumità di quelle migliaia di persone? Come è possibile che i manifestanti stessi, disarmati, solo con la forza dei loro corpi e delle loro grida, riescano ad isolarli, almeno fino ad un certo punto, e non riusciate voi a prelevarli e a metterli fuori gioco? Dopo i primi momenti di reticenza, alternati solo da vaghi cenni di assenso e comprensione nei nostri confronti, sento una frase che mi lascia senza parole, da parte di uno dei poliziotti: «eh, lo so, lo so, guarda...se fosse per noi, se fosse stato per noi, noi avremmo saputo benissimo come fare». Non c'è altro da dire, non c'è altro da dirsi. Ci incamminiamo verso piazza Vittorio Emanuele, per prendere la metropolitana. I vigili che incontriamo per strada ci avvertono di non dirigerci verso piazza San Giovanni, perché lì la polizia sta già “caricando”. Incontriamo dei manifestanti “superstiti” che ci confermano l'avvertimento, e ci consigliano vivamente di allontanarci il più in fretta possibile. Lo facciamo. Prendiamo la metro, e finisce tutto. Per noi. Più tardi sentiamo alla radio la cronaca di ciò che è successo, e che sta ancora avvenendo. Di ciò che non abbiamo visto. Ma io non riesco a pensare più a niente. Non riesco a farmi una ragione di tutto quello che ho vissuto, e di quello che per mia fortuna non ho vissuto. La mia mente non fa che rivedere il volto di quel poliziotto, che dice: «se fosse per noi, se fosse stato per noi, noi avremmo saputo benissimo come fare».
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