Una, 100, 150 Alcoa
Economisti e sindacati concordi: «Disarmati dinanzi alla crisi».
di Antonietta Demurtas
Una, 100, anzi 150 Alcoa. Potrebbero avere lo stesso destino dell'azienda sarda di proprietà della multinazionale americana anche le 150 vertenze industriali che nel 2012 sono giunte sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico.
Imprese in crisi, in alcuni casi già chiuse da tempo e in attesa di un nuovo acquirente che possa dare una speranza alle migliaia di loro operai in cassa integrazione. Ma i 180 mila lavoratori coinvolti non vedono all'orizzonte alcun cavaliere bianco e ora tremano all'idea di sentire pronunciare dal ministro Corrado Passera lo stesso verdetto emesso il 4 settembre nei confronti dello stabilimento di produzione di alluminio di Portovesme: «Quella di Alcoa è una situazione quasi impossibile, di scarsissimo interesse per gli investitori».
E così ristrutturazione, riconversione e investimenti rischiano di rimanere parole vuote, usate ogni volta per calmare animi sempre più esasperati. Ma per Cgil e Cisl il tempo dei palliativi è finito.
Più che mai in pericolo le aziende del Sud
Nei prossimi mesi sono almeno dieci le aziende che rischiano di fare la fine di Alcoa «e se il governo non decide di dare una risposta concreta a queste situazioni, l'esplosione di nuove tensioni sociali sarà inevitabile», dice a Lettera43.it Salvatore Barone, responsabile Industria della Cgil. «Un pericolo che interesserà soprattutto le zone più martoriate di questo Paese, dove oggi la questione meridionale è diventata la questione industriale».
È infatti ancora una volta il Sud a pagare le conseguenze di una politica industriale inesistente. Ma anche al Nord e al Centro «la situazione non è meno preoccupante», puntualizza con Lettera43.it Giorgio Santini, segretario generale della Cisl.
PER RISOLVERE I PROBLEMI SERVE UNA VISIONE. Soprattutto perché nell'affrontarla «siamo completamente disarmati», commenta con Lettera43.it l'economista Giulio Sapelli. «In questi ultimi 20 anni di pensiero neoliberista ci si è infatti occupati solo di finanza e non di economia». Manca quindi «una visione, una mission». Prima di tutto è necessario «riarmarsi, studiare e capire le esigenze delle imprese».
Per uscire dall'impasse «bisognerebbe analizzare la situazione delle aziende una per una. Non esiste un unico modello da applicare a tutte», dice Sapelli, «e questa crisi industriale mondiale è diversa da quelle precedenti». Non si possono quindi fare paragoni, «siamo davanti a un fenomeno nuovo e non abbiamo gli strumenti per capire come muoverci».
Intanto però il tempo passa e i fascicoli sul tavolo del ministero diventano sempre più voluminosi.
TERMINI IMERESE, LA PROSSIMA ALCOA. Tra le vertenze più critiche c'è quella dello stabilimento Fiat di Termini Imerese chiuso dalla fine del 2011. Fallito il progetto dell'imprenditore Massimo Di Risio per mancanza di credibilità finanziaria ed economica, «a oggi non c'è alcuna prospettiva non solo per il settore auto ma anche per una eventuale riconversione dello stabilimento», spiega ancora Salvatore Barone. Appesi quindi a un filo sono i destini di 1.468 lavoratori già in cassa integrazione, più quelli dell'indotto, «che a dicembre si troveranno nella stessa situazione in cui si trovano oggi i colleghi di Alcoa».
IRISBUS E VINYLS: CERCASI ACQUIRENTE. In attesa di un progetto valido di reindustrializzazione sono anche i 700 operai di Irisbus a Valle Ufita, Irpinia, unico stabilimento in Italia che costruiva autobus e che è ormai fermo da un anno. Anche in questo caso le offerte valutate sinora si sono dimostrate prive di credibilità.
«I cinesi che si erano fatti avanti sono scomparsi quando si è trattato di concretizzare il progetto». E così la situazione diventa sempre più kafkiana: «Paghiamo multe salate all'Unione europea perché il nostro parco auto è vecchio e chiudiamo l'unico impianto capace di produrre mezzi nuovi e in regola dal punto di vista ambientale», continua il segretario di Cgil Industria.
A credere in una riconversione sono stati finora i lavoratori di Vinyls, Porto Marghera, stremati da due anni di lotte per non perdere il posto di lavoro. Ma il progetto dell'Oleificio Medio Piave che prevede la possibilità di assumere i 150 cassintegrati ha sinora incontrato innumerevoli difficoltà.
Una polveriera chiamata Sardegna
In una situazione di crisi cronica che va avanti ormai da anni è il distretto del mobile imbottito tra Matera e Bari. Il Mise (Ministero per lo Sviluppo economico) e le Regioni si erano impegnati ad attuare un programma d'area per ridare competitività al territorio. Ma le promesse sono rimaste sulla carta, «e il sostegno alle imprese non c'è mai stato, nessun investimento per risolvere l'annosa questione delle infrastrutture», denuncia Barone.
IL SETTORE DEI TRASPORTI È IN GINOCCHIO. Insomma è ancora una volta la mancanza di fondi a frenare le possibilità di ripresa di alcune aziende. Un problema che ha colpito anche il cantiere navale di Castellamare di Stabia dove dopo aver annunciato un programma di parziale riconversione, né lo Stato né la Regione hanno aperto il portafogli.
«Una vicenda, quella di Fincantieri, ancora tutta da risolvere», osserva Giorgio Santini, «soprattutto per quanto riguarda gli stabilimenti del Mezzogiorno». Anche la casertana Firema, per esempio, non gode di ottima salute. L'azienda che costruisce treni e mezzi di trasporto per ora è commissariata, «ma bisognerebbe già pensare a come ricollocarla sul mercato», dice Barone. E in questo entrano in gioco anche Ansaldo Breda e le pubbliche amministrazioni, i maggiori clienti.
L'ISOLA DELLA RABBIA. Ma a preoccupare di più è ancora «la polveriera della Sardegna», ammette il segretario della Cgil. A partire da Alcoa. In attesa del tavolo con i sindacati in programma il 10 settembre la paura è che Glencore, l'azienda svizzera finora interessata all'acquisto, possa fare un passo indietro nonostante i segnali incoraggianti giunti nella serata del 5 settembre.
Fondamentale sia per Alcoa sia per Carbosulcis e EurAllumina, ferma ormai da tre anni, è però affrontare una volta per tutte il problema del costo dell'energia. «Sinora si è solo cercato di tamponare, senza risolvere nulla», è l'opinione di Barone. Quello che manca è un piano energetico nazionale. E latitano gli investimenti, che nel caso di Eurallumina (500 lavoratori) permetterebbero di costruire una caldaia capace di produrre vapore ed eliminare l'oneroso costo dell'olio combustibile.
SENZA SOLDI E SOPRATTUTTO SENZA IDEE. Non sono però solo i soldi a mancare in questo momento, «ma le idee», aggiunge Sapelli, secondo il quale «oggi c'è un problema di comprensione. Si è perso il contatto con la realtà».
E a detta dell'economista tutto è avvenuto «quando sono emerse le business school e i manager hanno smesso di andare in azienda, ma si sono messi a studiare formule matematiche». Insomma, «i vari bocconiani ci hanno massacrato», critica, «ma ora dobbiamo ripartire».
I SINDACATI INCALZANO IL GOVERNO. D'altro canto neanche i sindacati chiedono sussidi per le aziende, ma propongono un sostegno attraverso il credito di imposta. In questi giorni l'obiettivo è incalzare il governo per mettere in campo «nuovi contratti di sviluppo e di programma, trovare imprenditori capaci di rilevare le aziende che stanno chiudendo», argomenta Santini, «e laddove non ci sono soluzioni occupazionali dirette, studiare un modo per ricollocare i lavoratori».
Venerdì, 07 Settembre 2012
http://www.lettera43.it/economia/indust ... 563576.htme questa sarebbe la luce dell'uscita dal tunnel...ma se questa luce non si "vedeva" in quale situazione sociale ci trovavamo.........?
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ubatuba il 07/09/2012, 13:15, modificato 1 volta in totale.