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13/09/2015, 17:50
Dalle indagini risulta che Yara aveva preso in prestito nelle biblioteca di Brembate di Sopra due libri sul bullismo:

Ma è evidente che Yara sia stata addescata all'interno del complesso sportivo.
Tre giorni dopo tre cani molecolari vengono messi sulle sue tracce. Due, compreso Joker, un Bloodhound che arriva dalla Svizzera, seguono lo stesso tragitto: palestra - uscita dalla parte opposta alla direzione di casa Gambirasio - cantiere di Mapello. Joker punta dritto al magazzino degli attrezzi e da lì non si muove.
No... la Letizia ha tentato di far credere che Yara e Bossetti si conoscevano e che sia salita sul suo furgone e che i tre cani che hanno seguito la pista tra l'uscita sul retro della palestra ed il cantiere, erano ubriachi, come pure chi ha eseguito gli esami autopici che all'inizio avevano stabilito che la morte è avvenuta in meno di un'ora dall'uscita di casa.
Dato che quella sera la madre di Yara si ricordava esattamente cosa la bambina avesse mangiato e a che ora.
Per l'accusa gli esami autopici valgono un cacchio mentre un dna controverso e strano, ha grande valore.
Onore alla scienza
13/09/2015, 21:30
Wolframio ha scritto:A proposito di Alfano, mi ero preso degli appunti.
Angelino Alfano dal 28 aprile 2013 a Febbraio 2014, è ministro dell’Interno e vice presidente del Consiglio dei ministri nel Governo Letta.
Cercando di collegarli a Vincenzetti della Hacking Team
Vincenzetti, come è riuscito a stabilire un rapporto di stima con palazzo Chigi tanto da scrivere in un messaggio al generale Antonello Vitale della presidenza del Consiglio, che si era prodigato per Hacking team, «G. le sono profondamente grato. Ho un ulteriore debito verso di lei e verso il governo. Spero mi chieda presto cosa posso fare per lei»?
E considerando la parole di Umberto Rapetto, ex ufficiale della Guardia di Finanza
Un aspetto affrontato nel suo blog sul giornale online diretto da Peter Gomez anche da Umberto Rapetto, ex ufficiale della Guardia di Finanza, già inventore e comandante del Gat (Gruppo Anticrimine Tecnologico, poi divenuto Nucleo Speciale Frodi Telematiche GdF), e pure giornalista, scrittore e docente universitario, oltre che direttore Iniziative e progetti speciali di Telecom Italia.
Tra i frammenti “di questa sorta di esplosione”, spiegava “c’è chi avrebbe trovato, postato su Github, qualcosa che fa pensare ad un “child porn fabrication tool”, vale a dire un software capace di caricare file compromettenti sul computer di una persona ignara così da generare fraudolentemente elementi di prova ad esempio in una investigazione in materia di pedopornografia”.
Dopodiché aggiungeva: “Voglio sperare che non sia vero. Lo auguro a chi – in giro per il mondo – si è trovato sottoposto ad indagini e anche a chi quelle attività giudiziarie ha diretto o eseguito. Immagino chi ha urlato la propria estraneità ai fatti e si è visto condannare sotto il peso schiacciante di prove inconfutabili. Non ci voglio pensare. Mi domando “cosa è vero? cosa è falso?”. Possibile che proprio nessuno abbia immaginato che certi ‘programmini’ potessero avere una backdoor in grado di permettere al produttore di conoscere le modalità (destinatario incluso) di impiego della così portentosa applicazione?”.
Questo potrebbe benissimo spiegare molte cose sul computer di Bossetti.
Sopratutto leggendo la mail del Ceo della Hacking Team
Da: David Vincenzetti [mailto:d.vincenzetti@hackingteam.it]
Inviato: martedì 17 giugno 2014 12:22
A: Alberto Trombetta; Marco Pinciroli; Claudio Giuliano; Emanuele Levi; Stefano Molino; Giancarlo Russo
Oggetto: Il caso YARA
Naturalmente non posso dirvi molto. Naturalmente non conosco i dettagli. Ma, come e’ già successo numerose volte in passato per casi celeberrimi e molto piu’ grandi di questo, il merito del successo di questa indagine va a una certa tecnologia investigativa informatica prodotta da un’azienda a noi molto nota.
Insomma: ci hanno appena chiamato i ROS di Roma. Per complimentarsi e ringraziarci.
Comunque se sospetto che Alfano ha fatto la sua parte nell'infangare le indagini e siccome lo stesso Alfano si sentiva cosi sicuro nell'annunciare l'arresto dell'assassino di Yara, il collegamento lo vedo in questi appunti che mi ero preso.
Non mi sembra che nulla di tutto questo dimostri un infangamento delle indagini (con tutto il male possibile che penso di Alfano).
Da questi appunti risulta solo la gratitudine di un lavoratore per l' opportunità offerta. Il resto è nella fantasia. Se vogliamo ipotesi, ma priva di qualunque elemento oggettivo.
Che esista la possibilità di inserire file compromettenti nel computer di chi si desidera l' ho sempre dato per scontato, ma questo non significa che sia successo con Bossetti.
MaxpoweR ha scritto:tra l'altro ho sentito ieri che veniva chiamata "YARA cogliote" dai compagni di scuola ma a detta della madre le non dava peso alla cosa.
Non si direbbe visti i libri presi in prestito no? E soprattutto perchè quel soprannome così strano?
Questo potrebbe come non potrebbe essere rilevante. Di ragazzi con soprannomi strani ce ne sono a volontà.
E il bullismo mi sembra una cosa differente e indipendente dalla sorte toccata a Yara.
Wolframio ha scritto:che sia salita sul suo furgone e che i tre cani che hanno seguito la pista tra l'uscita sul retro della palestra ed il cantiere, erano ubriachi, come pure chi ha eseguito gli esami autopici che all'inizio avevano stabilito che la morte è avvenuta in meno di un'ora dall'uscita di casa.
Questo invece è interessante.
Ma al cantiere lavorava Bossetti.
Per cui si può benissimo pensare che sia coinvolto e che il parziale depistaggio serva ad addossare a lui tutta la colpa nascondendo il fatto che il suo ruolo fosse solo attirarla nella trappola dove l' attendevano i mandanti.
13/09/2015, 22:26
Aztlan ha scritto:Ma al cantiere lavorava Bossetti.
Per cui si può benissimo pensare che sia coinvolto e che il parziale depistaggio serva ad addossare a lui tutta la colpa nascondendo il fatto che il suo ruolo fosse solo attirarla nella trappola dove l' attendevano i mandanti.
Per tua conoscenza il Bossetti non lavorava nel cantiere di Mapello dove i cani hanno fiutato le tracce di Yara, li ci lavorava il marocchino e proprio quella sera.
Bossetti lavorava nel cantiere di Palazzago. Interessante no?
Aztlan ha scritto:Da questi appunti risulta solo la gratitudine di un lavoratore per l' opportunità offerta. Il resto è nella fantasia. Se vogliamo ipotesi, ma priva di qualunque elemento oggettivo.
.
Ma di che opportunità offerta parli?
Mi pare che sei tu che lavora di fantasia, informati bene sul perchè il Vincenzetti si sentiva in debito verso il Generale della presidenza del consiglio, prima di rispondere a vanvera.
Aztlan ha scritto:Che esista la possibilità di inserire file compromettenti nel computer di chi si desidera l' ho sempre dato per scontato, ma questo non significa che sia successo con Bossetti
Che non sia successo è solo un tuo parere.
Mentre io per arrivare alle mie conclusioni ci ho ragionato sopra in base ai seguenti elementi:
1- Il computer di Bossetti è stato hackerato molto prima dell'arresto, a che scopo se non per ficcarci elementi di prova?.
Se poi tanto:
2- il computer di Bossetti viene in seguito sequestrato dopo il suo arresto per l'esame forense?
3- Avevano già il suo presunto DNA, bastava che lo arrestassero e sequestrare il suo Pc senza bisogno di hackerarlo molto tempo prima.
Ti pare che rientri tutto nella norma senza sentire puzza di un gioco sporco?.
Aztlan ha scritto:Questo potrebbe come non potrebbe essere rilevante. Di ragazzi con soprannomi strani ce ne sono a volontà.
E il bullismo mi sembra una cosa differente e indipendente dalla sorte toccata a Yara.
Allora mi spieghi perchè Yara ha preso in prestito dei libri sul bullismo per degli innoqui sopranomignoli che a detta della madre "le scivolavano addosso anche perché non capitava solo a lei"

ed in particolare proprio questo libro?
14/09/2015, 17:54
Luca Telese per ''Libero Quotidiano''
«Sa che cosa c’è? Non so cosa risponderle: non mi ricordo». Silvia Brena è bella. Ma Silvia Brena è terribilmente evasiva. Silvia Brena sorride e allarga le braccia, sul banco dei testimoni del Tribunale di Bergamo, e tutti i riflettori si stringono su di lei. Se in questo processo non fossero vietate le riprese televisive, oggi sarebbe già diventata una star dei programmi del pomeriggio. È la quindicesima volta consecutiva che Silvia ripete di non ricordare quello che lei stessa aveva testimoniato agli agenti. Gli avvocati Paolo Camporini e Claudio Salvagni la stanno sottoponendo a un quarto grado di quelli che nemmeno Perry Mason.
La domanda è una di quelle importanti: «Ricorda di essersi scambiata un messaggio con suo fratello, alle 18.35?». Risposta: «No». Domanda: «E ricorda di averlo cancellato subito dopo?». E lei: «No, non ricordo». Domanda: «Ma non è strano che sia lei che suo fratello abbiate entrambi cancellato solo quello?». Risposta: «Sì, forse. Ma se io non ricordo….». Le chiedono: «Ricorda di aver visto Yara, seduta in palestra?». «Se l’ho detto doveva essere così».
Ancora gli avvocati: «Ma si ricorda almeno di aver detto di aver ricevuto delle avances in palestra?». «No, non ricordo». Salvagni cela nei toni garbati uno moto di stizza: «Ma come può aver dimenticato? Le leggo la sua deposizione!». E allora lei: «Ah, sì, adesso che me lo dice, mi ricordo». Si ricorda di aver pianto, a casa, la sera della scomparsa, come ha raccontato suo padre?
«No, non ricordo. Ma se lui l’ha detto è possibile». È come un giallo, un mistero, ma anche come un film. È come un labirinto in cui si perde, come una lavagna cancellata. Le amiche di Yara, le sue compagne di palestra. Tutte carine, tutte sveglie, tutte capaci di esprimersi in un italiano compito, forbito, prive di qualsiasi inflessione dialettale.
Sono l’altra faccia di questo processo: nulla a che vedere con la bergamasca tribale, segreta, talvolta torbida, rivelata dall’inchiesta: sono perfette, si assomigliano, potrebbero essere uscite dal casting una serie americana, hanno i capelli giusti, gli occhi che brillano, un look acqua e sapone. Solo che c’è anche questo dettaglio: dicono tutte di non ricordarsi nulla.
Silvia Brena ha un sorriso solare, disarmante, che non corrisponde con l’espressione corrucciata del suo viso, a tratti terreo e pietrificato. Silvia in tribunale a Bergamo usa quel sorriso come un soldato spartano incastrato in una falange userebbe il suo scudo: per proteggersi. Silvia è una delle testimoni chiave che sfilano tra il pomeriggio e la sera della seconda giornata del processo per il delitto Yara. Silvia è l’unica persona - oltre a Massimo Bossetti - che ha lasciato il suo Dna sui vestiti di Yara.
Sulla manica del giaccone, per l’esattezza. Tutte le testimonianze dicono che quando lei è entrata in palestra Yara non aveva la giacca, lei non ricorda di averle parlato, e dice di essere andata in un altro piano a fare degli esercizi. Ma allora quel Dna da dove arriva? «Non lo so».
È un processo strano, quello di Bergamo: la mattina di venerdì si faceva a pugni per entrare in aula, il recinto dei giornalisti era affollato, le parabole dei tiggì hanno fatto gli straordinari per coprire le testimonianze del padre e della madre. Ma quando dopo una maratona devastante iniziano a sfilare le amiche e le ex compagne di corso di Yara, a sentirle non c’è quasi più nessuno. Ecco Daniela Rossi, una delle maestre: «Quando la mamma di Yara mi chiamò la prima volta non mi sono preoccupata, pensavo che Yara si fosse fermata a salutare qualcuno».
Ecco una ex compagna, Ilaria Ravasio, due di loro sono ancora minorenni. Durante l’udienza la testimonianza della Brena diventa il pretesto per un corpo a corpo tra legali e presidente della corte degno di un capitolo di Grisham: «Signorina Brena, vorrei chiederle. Lei ha usato la macchina tornando a casa?». E la presidente: «Avvocato Salvagni, questa domanda non è attinente!». E il legale di Bossetti: «Mi oppongo, signor presidente: se non è attinente la testimonianza dell’istruttrice di Yara, che cosa lo è?». Risposta: «Allora faccia domande su Yara, non sul privato della teste». Mugugno: «Allora riformulo: Signorina Brena, dopo aver lasciato Yara, che mezzo ha usato per uscire…?».
E si continua così, con toni da legal thriller, ma con l’inesorabile consequenzialità di ogni mossa, come se si trattasse di una partita a scacchi. Avevo letto le testimonianze rese nel 2010 da Silvia e dalle altre ragazze. Ma fino a che non ho sentito il racconto della mamma di Yara, e fino a che non le ho viste in Aula, non avevo capito quanto potessero essere importanti. Intanto c’è un dato anagrafico: leggevi maestra, nei fascicoli, ma solo con il processo capisci che le «maestre» non erano donne fatte, ma ragazze di diciotto-venti anni, che imparavano dai grandi e insegnavano alle piccole. Oggi le amiche di Yara sono appena diventate maggiorenni, e hanno l’età che il giorno del delitto avevano le loro istruttrici: anche Yara oggi avrebbe diciotto anni.
Le prime e le seconde, e la media tra ieri e oggi è il punto medio di una generazione. Mi colpisce moltissimo anche la testimonianza di Martina Dolci. Ha diciotto anni, uno sguardo spaurito da cerbiatta. Martina in questo processo è un teste decisivo perché è lei che ha ricevuto l’ultimo messaggio di Yara, l’ultimo contatto in vita. La mattina mamma Maura Panarese, la signora Gambirasio aveva descritto il legame di ferro di queste tre amiche, che con regolarità sorprendente mangiavano insieme, andavano in palestra insieme, giocavano insieme, partecipavano alle gare insieme. L’avvocato Camporini chiede a Martina: «Ricorda di aver ricevuto il messaggio di Yara?».
E alllora anche lei allarga i suoi occhi stupiti da cerbiatta: «No, non ricordo». Mi chiedo: ma come è possibile? L’evento più grande e terribile della sua vita, dimenticato così? «Ricorda se Yara aveva degli amori, se parlava di ragazzi?». E lei: «Veramente noi parlavamo poco di cose private, solo di ginnastica». L’avvocato è incredulo: «Ma non eravate amiche per la pelle?». E lei: «I nostri rapporti dipendevano soprattutto dalla ginnastica».
È a questo punto del pomeriggio che mi chiedo: hanno solo paura o nascondono qualcosa? Anche Laura Capelli era stata una maestra di Yara, anche lei ha oggi venticinque anni. È lei che aveva avvisato Silvia Brena, quella sera. Anche Laura è carina, seria, scrupolosa. Ma a tratti anche lei non ricorda bene: «Capisce, è passato tanto tempo». Le chiedono: «Ricorda che il fratello della Brena frequentasse il centro?». Risposta: «No, assolutamente». Allora l'avvocato Camporini si spazientisce: «Ma come? Se nella testimonianza aveva detto che aveva lavorato al bar!».
E lei: «Ha ragione, avevo dimenticato». La mattina, la signora Gambirasio aveva rivelato una circostanza incredibile: la tata di Yara, che le dava una mano a casa, e che nel tempo era diventata una delle sue migliori amiche, era la signora Aurora Zanni. Ma la signora Zanni era anche la moglie del cugino di Giuseppe Guerinoni, l’autista che nel 1969 aveva avuto una storia con Ester Arzuffi. Guerinoni è il padre naturale di Massimo Bossetti.
Fa un po’ di impressione scoprire che il figlio di Aurora, Damiano, all’epoca ventenne, fosse un habituè della casa dei Gambirasio. Il ragazzo nei giorni del delitto era nel Mato Grosso, ma frequentava un luogo cruciale di questo delitto, la discoteca «Sabbie mobili». Sarebbe sua la traccia di Dna da cui si è risaliti alla Arzuffi, e quindi a Bossetti. Anche Silvia Brena in aula ripete: «Frequentavo la discoteca Sabbie mobili».
Il corpo di Yara è stato ritrovato nel campo di Chignolo, esattamente di fronte alla discoteca. Chiedono alla Brena, ancora una volta: «Si ricorda dove è stato ritrovato il corpo di Yara?». La risposta, so che non ci crederete, è: «No, non mi ricordo». Ho ascoltato con attenzione la mamma di Yara. Mentre parla Silvia ripenso alle sue parole. Sono rimasto stupito dal rigore della signora Maura, dalla sua meticolosità, dalla sua precisione.
Ad un certo punto, durante la deposizione, si finisce a parlare - perché nei processi capita anche questo - della biancheria intima di Yara: «Ricorda quale reggiseno indossasse?», chiede l’avvocato Camporini. E la presidente: «Ma avvocato, come pretende che si ricordi? Anche io ho una figlia, so di cosa parlo!».
E la madre di Yara, impassibile: «Mi permetta, presidente, ma ricordo benissimo che era un reggiseno rosa, sportivo, reagalatole dalla zia». A questo punto l’avvocato è incuriosito: «E come fa ad esserne sicura?». Risposta: «Ho comprato io tutta la biancheria di Yara. Erano pochi capi. E quando quella mattina ho visto quel rosa, ho capito che aveva scelto quello». Faccio un altro esempio. La madre di Yara racconta di essere entrata in allarme già alle 18.45: «Io le avevo detto di tornare alle 18.30. Lei voleva tornare più tardi. Le ho detto: allora alle 18.45. Non avrebbe mai potuto tardare senza informarmi».
E il percorso del ritorno: «Le avevo detto quale strada fare, incrocio per incrocio. E le avevo raccomandato di passare sul lato del marciapiede dove sono i lampioni, quello con più luce». Allora la presidente le dice: «Ma mica può essere sicura che lo facesse…». E la signora Maura: «E invece lo sono. Le spiego. Quando tornavo da fuori, se era nell’orario in cui Yara rincasava, facevo quel percorso con la macchina, proprio per incrociarla: nel 99% dei casi la trovavo proprio lì».
Poteva accadere una cosa così a una madre come questa? Mentre passano le ore, e sfilano i testimoni, mi viene in mente questo mondo dove Yara è cresciuta. Regole e orari, una madre straordinaria, affettuosa, ma attentissima. Mamma Maura dice: «A catechismo non ci era voluta andare più per una sua scelta. La palestra era un luogo sicuro». Aggiunge: «So che qualcuno la prendeva in giro per l’apparecchio. Ragazzate. Mi pare che la chiamassero “Coyote”. Ma non erano cose serie».
Gli avvocati, però, trovano, spulciando in biblioteca, che Yara aveva preso in prestito due libri sul bullismo (uno si intitola «Brutta», la storia di una figlia angosciata da una madre oppressiva). Lei rimane stupita: «Non li avevo visti». Il signor Gambirasio piange e fa piangere tutti quando racconta con una voce bellissima che si arrochisce e si incrina: «Era il collante, il sale di questa famiglia, aveva l’argento addosso! Tu le chiedevi un bicchier d’acqua, e lei te lo portava facendo la ruota».
E ride, e piange, e non c’è soluzione di continuità. Piange e singhiozza soprattutto quando è costretto a ripercorrere il suo girovagare disperato per le strade, e gli precipita addosso l’angoscia di quella sera. Non vuole crollare.
Si ferma. La presidente lo aiuta con una domanda. Ma lui piange di nuovo. Racconta, però, c’è la strada era bloccata per dei lavori. Molti non si accorgono delle conseguenze di questa battuta, ma la pm Ruggeri e gli avvocati sì. Se c'erano i lavori com’è possibile che Bossetti girasse in tondo con il suo furgone “da predatore?”. Quella frase, tra le lacrime, ha incrinato un teorema dell’accusa.
È un processo così, intricato come un sudoku. Dietro ogni dettaglio c’è una conseguenza, dietro ogni lacrima c’è un colpo di scena. Ma la vera notizia sono queste ragazze che sembrano saltate fuori da un altro mondo, da un film come “Il giardino delle vergini suicide”, di Sofia Coppola, queste ragazze belle e smemorate, che forse tacciono solo per prudenza, ma che forse nascondono qualcosa.
Yara era una tredicenne che stava esplodendo nella sua vitalità, e che è entrata in contatto in palestra con il mondo dei grandi. Forse in palestra ha trovato il bandolo che l’ha portata fuori dal sentiero sicuro della sera? Forse la discoteca Sabbie mobili era l’epicentro della vita, ma anche un porto di mare? L’unico ufo, in questa giornata, l’unico che non ha legami con questo mondo, paradossalmente, è Massimo Bossetti. L’unica cosa sui cui le amiche di Yara rispondono tutte la stessa cosa, senza amnesie, e guardandolo negli occhi: «Non lo abbiamo mai visto».
È incredibile anche il chiasmo che lega le due famiglie, i Gambirasio e i Bossetti: due madri che comandano ogni cosa, due padri che lavorano, portano i soldi, e tornano nei cantieri dal weekend delegando alle moglie, come dice Fulvio, «L’amministrazione della famiglia».
Mentre l’udienza sta per finire ripenso al racconto di Silvia Brena. Quella sera, racconta, dopo aver pianto ed essersi disperata, era andata in oratorio fino alle 23.00. Poi era andata a bere al pub “Agadà”. Poi, a sentire i racconti, aveva pianto di nuovo, tutta la notte. Forse un percorso normalissimo, per certe ragazze di questa generazione: disperazione a intermittenza.
Forse dietro questi silenzi e questi omissis c’è un’ombra, un sospetto indicibile, qualcosa che noi non sappiamo. È sera: seguo Silvia nel tribunale mentre accompagnata da un poliziotto esce percorrendo i corridoi, e rimango colpito da un piccolo colpo di scena. Silvia arriva in una stanzetta in cui ci sono tutte le altre amiche che dopo aver testimoniato l’hanno aspettata: cinque ragazze, le ex compagne e le ex istruttrici. Escono, varcano il portone, rispondono «No comment» ai giornalisti appostati con la sicurezza che potrebbe avere Belen Rodriguez. Salgono le scale di un parcheggio, e se ne vanno tutte insieme, portandosi dietro tutti i dubbi di questo enigma.