Così l'Europa è regredita al Medioevo

Guardando qualsiasi mappa medievale o dell’inizio dell’età moderna dell’Europa, prima della rivoluzione industriale, si è sopraffatti da una vertiginosa incoerenza: imperi ovunque, regni, confederazioni, stati minori, “superiore” di qui e “inferiore” di là. È l’immagine di un mondo radicalmente frammentato e l’Europa odierna sta effettivamente tornando a una rappresentazione simile.
I decenni di pace e prosperità, dal 1950 al 2009, quando la crisi del debito dell’Unione europea ha avuto inizio, hanno dipinto il profilo economico e politico del continente come semplice. Per tutta la durata della Guerra Fredda ci sono stati due blocchi serrati, che al disgelo sono stati sostituiti dal sogno di un’Europa unita con una singola moneta. Oggi, mentre l’Unione accusa un colpo dopo l’altro, dall’interno e dall’esterno, la storia sta invertendo la rotta verso una complessità debilitante, come se questo mezzo secolo sia stato solo un interregno prima del ritorno alla paura e al conflitto.
Per gli Stati Uniti, la realtà di questo nuovo status quo sta venendo alla luce solo ora. L’Europa, la cui economia compete con gli Stati Uniti per il primato mondiale, resta una risorsa e un alleato, ma è anche un problema profondo. L’interrogativo più urgente è come gestire la situazione.
Nonostante l’Ue sia impegnata nell’espansione dei propri confini e della propria operatività, le divisioni sono visibili da decenni: i Paesi dell’Ue e quelli che non ne fanno parte, quelli all’interno dei confini dell’Area Schengen e quelli non compresi, quelli in grado di gestire i vincoli finanziari dell’eurozona e quelli incapaci di osservarli.
Il punto più oscuro sono le profonde radici di queste divisioni nella storia e nella geografia del Vecchio Continente. Il nucleo solido dell’Europa moderna assomiglia in larga misura all’Impero Carolingio fondato da Carlo Magno nel IX secolo. Il primo imperatore del Sacro Romano Impero governava le terre comprese tra il Mare del Nord e i Paesi Bassi fino oltre Francoforte, Parigi, Milano e così via. Il territorio dei nipoti più deboli di questa Europa si estende lungo il Mediterraneo, dalla penisola iberica all’Italia meridionale e ai Balcani, eredi delle tradizioni bizantina e ottomana.
Nel corso dei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, questo divario è stato soppresso a causa del relativo isolamento dell’Europa dal suo “vicino estero”, ovvero dalle regioni dell’Africa Settentrionale e l’Eurasia che, per secoli, hanno fatto davvero tanto per plasmare il carattere distintivo della periferia del continente.
Oggi la necessità di un allargamento della geografia non può più essere ignorata, visto che le varie regioni europee adottano atteggiamenti molto diversi nei confronti delle minacce poste dalle prepotenze della Russia guidata dal presidente Vladimir Putin, dal flusso di profughi dal Medio Oriente e gli ultimi attentati terroristici in patria e all’estero. È ormai chiaro che la centralizzazione imposta da decenni dall’Ue e la sua burocrazia distante e poco rappresentativa non hanno creato un’Europa unitaria. Anzi, hanno stimolato un rigurgito in tutto il continente a cui l’Unione europea può sopravvivere solo comprendendo come istituire meglio la propria legittimità tra le diverse nazioni che la compongono.
Le difese geografiche che proteggevano l’Europa durante il dopoguerra non reggono più. A metà del XX secolo, quando il geografo francese Fernand Braudel ha scritto la propria celebre opera sul Mediterraneo non ha considerato il mare stesso come il confine meridionale dell’Europa, a suo parere, il Sahara poteva piuttosto essere considerato tale. Oggi, quasi a dargli ragione, carovane di migranti si riuniscono in tutto il Nord Africa, dall’Algeria alla Libia, per una vera e propria invasione demografica dell’Europa. Anche i Balcani hanno riacquisito il proprio ruolo storico di corridoio per la migrazione di massa verso il centro Europa, la prima tappa per milioni di profughi in fuga dai regimi al collasso di Iraq e Siria.
L’Europa, pertanto, si trova ora di fronte a un’infelice ironia politica: i decenni in cui era in grado di valorizzare gli alti ideali dei diritti umani, incluso il diritto dei più bisognosi a cercare rifugio in Europa, è stato reso possibile, ormai è chiaro, dai regimi oppressivi che una volta dominavano sulla periferia. Il mondo arabo è stato rinchiuso per decenni in stati prigione, i cui dittatori-carcerieri hanno tenuto le proprie popolazioni in ordine. Saddam Hussein in Iraq, la famiglia Assad in Siria e Muammar Gheddafi in Libia hanno permesso all’Europa di cucinare la propria torta idealista e anche di gustarsela.
A peggiorare la situazione dell’unità europea, geografia e storia hanno contribuito a rendere alcune regioni del continente più vulnerabili al flusso di migranti e rifugiati di altre. Nel momento in cui la Germania e parte della Scandinavia hanno dato un benvenuto piuttosto timido, i Paesi dell’Europa centrale come l’Ungheria e la Slovenia erigono nuove recinzioni di filo spinato. I Balcani, praticamente divisi dal resto dell’Europa dalla guerra e dal sottosviluppo negli anni ’90, ora sono stati duramente colpiti dall’anarchia del Medio Oriente. All’estremità sud-orientale dell’Europa, la Grecia, un tempo una povera provincia ottomana, ha visto l’aggravarsi della propria crisi economica a causa della posizione sfortunata in quanto via d’accesso per centinaia di migliaia di migranti in fuga dal caos del mondo arabo.
Un altro fattore critico di questo periodo di relativa stabilità che volge ormai al termine in Europa è stato il ruolo geopolitico svolto dalla Russia. Durante la Guerra Fredda, l’Unione Sovietica era una minaccia strategica ovvia, ma è stata una minaccia ben gestita dagli Stati Uniti, e per gran parte del periodo che ha seguito la scomparsa di Stalin, il Cremlino è stato guidato da tediosi funzionari con una profonda avversione al rischio. Dopo il crollo sovietico, il decennio di crisi e debolezza istituzionale in Russia ha implicato, tra le altre cose, che non rappresentasse un timore per l’Europa.
Oggi, inutile dirlo, la Russia è molto indietro in quanto player strategico in Europa. Il consolidamento del controllo di Putin in Russia a seguito della debolezza dell’era Yeltsin ha creato una spaccatura profonda tra Parigi e Varsavia, Berlino e Bucarest. Per un polacco o un rumeno degli anni 90, la Russia era convenientemente debole e caotica, e l’appartenenza alla Nato e all’Ue prefiguravano una prospettiva di pace e prosperità durature. L’orizzonte strategico è molto differente adesso: il futuro del progetto europeo appare incerto, e una Russia rianimata ha annesso la Crimea, ha invaso l’Ucraina orientale e minaccia nuovamente la stabilità dei confini.
Potremmo assistere all’inizio di un notevole capovolgimento delle alleanze dei tempi della Guerra Fredda. L’Europa si sta nuovamente dividendo in due, ma questa volta è l’Europa Orientale che vuole avvicinarsi agli Stati Uniti perché dubita sempre di più che la Nato da sola possa essere una barriera difensiva efficace contro la Russia. Nel frattempo, i Paesi dell’Europa Occidentale, preoccupati per l’ondata di profughi e gli attacchi terroristici nel giardino di casa, cercano di avvicinarsi alla Russia (crisi ucraina permettendo) per tutelarsi dal caos proveniente dalla Siria.
Putin sa che la geografia e il potere, sia militare che economico, sono ancora un punto di partenza per far valere gli interessi nazionali. Le élite europee hanno una visione molto diversificata. Dopo secoli di spargimento di sangue, hanno in gran parte rifiutato la tradizionale politica di potenza. Per mantenere la pace, hanno invece riposto le proprie speranze sul regime normativo gestito dai tecnocrati di Bruxelles. Per loro, le divisioni del Vecchio Continente potrebbero essere sanate dal welfare state e dalla moneta unica. Le varie identità nazionali plasmate da secoli di esperienza storica e culturale potrebbero dover cedere il posto al superstato europeo, qualunque sia il costo in termini di legittimità politica dell’Ue tra le diverse nazioni europee.
Nel Regno Unito e in gran parte dell’Europa Occidentale è in atto una reazione violenta contro le invasioni di campo di Bruxelles, che sta trovando una potente espressione nella politica interna. Le politiche di assistenza sociale, un tempo promosse come sollievo alle divisioni del continente hanno agito da freno sulle economie nazionali, e questa stagnazione ha offerto, a sua volta, lo scenario per una politica nazionalista (talvolta reazionaria) e ha causato l’aumento delle ostilità nei confronti dei rifugiati.
In Europa Centrale e Orientale è possibile osservare altre preoccupazioni. Negli ultimi tre anni, ho viaggiato in lungo e in largo per la Romania, un Paese in cui la Seconda guerra mondiale si è conclusa solo nel 1989 con la caduta del regime stalinista di Ceausescu. In Romania, come nei Paesi Baltici e in altre aree dell’ex Patto di Varsavia e dell’Unione Sovietica, l’Ue continua a rappresentare più che uno stato patrimoniale. Si distingue per una politica basata sullo Stato moderno, piuttosto che una nazione caratterizzata da una concezione etnica, soggetta allo stato di diritto piuttosto che a un ordine arbitrario, tutela gli individui indipendentemente da religione, gruppo etnico o semplicemente dal norme del loro padre. La regione che va da Paesi Baltici e Polonia e si esternde a sud fino a Romania e Bulgaria, e a est fino al Caucaso costituisce quello che chiamo il Grande Intermarium. La Dottrina Intermarium è un concetto elaborato da Josef Pilsudski, leader polacco degli anni ’20 e ’30, che sperava nella creazione di una cintura di solide democrazie tra la Germania e l’Unione Sovietica al fine di contrastare le tendenze imperialistiche di entrambe.
La minaccia odierna, naturalmente, viene esclusivamente dalla Russia e non dalla Germania. L’egemonia politica della Germania sull’Europa dovrebbe derivare dal dominio economico, e questo fenomeno si è realizzato, in una certa misura, con lo spostamento del potere verso est da Bruxelles a Berlino, ma la leadership tedesca resta impacciata ed esitante. Di tutte le elite europee, dalla fine degli anni 40, quella teutonica in particolare ha riposto fiducia nell’integrazione europea, in larga parte come sistema per esorcizzare i demoni del proprio passato.
Di fronte al moltiplicarsi delle crisi, la cancelliera Angela Merkel ha giocato un’abile mossa politica con battute d’arresto solo occasionali, come la recente notizia delle violenze sessuali commesse a Capodanno dai migranti arabi. Tuttavia, la Merkel non è né Bismark né Federico il Grande, e non avrebbe voluto essere nessuno dei due. L’eredità del nazismo e l’ambivalenza dovuta alla posizione a cavallo tra Occidente e Russia pesano gravemente sulla leadership tedesca.
Con la disgregazione dell’Unione europea in atto, questo vuoto di potere potrebbe creare un equivalente del tardo Sacro Romano Impero del XI secolo: un’incoerente configurazione multietnica che è stato un impero di nome, ma non di fatto fino alla dissoluzione finale nel 1806.
Questo significa che non vi è ancora alcuna alternativa alla leadership americana in Europa. Per gli Stati Uniti, un’Europa che continua a frammentarsi internamente e a dissolversi esternamente nella geografia fluida dell’Africa Settentrionale e dell’Eurasia costituirà il più grande disastro della politica estera all’indomani della Seconda guerra mondiale. Il successo dell’Ue nel corso di molti decenni è stato il prodotto della potenza americana, derivante dalla vittoria sulla Germania nazista. Con tutte le sue imperfezioni, l’Unione europea, ancor più che la Nato, è stata l’incarnazione istituzionale di un’Europa postbellica libera, unita e prospera.
Alcuni esponenti dell’amministrazione Obama hanno avuto il merito di cercare coraggiosamente di cimentarsi con la disgregazione dell’Europa post-Guerra Fredda. Il Pentagono ha presentato dei piani per il ritorno delle truppe di terra, e Victoria Nuland, assistente del segretario di stato per gli affari europei, si è impegnata molto attivamente per tenere testa alla Russia in Ucraina. Tuttavia, il presidente Barack Obama stesso ha manifestato una certa mancanza di interesse per i guai del Vecchio Continente e ha adottato una posizione meno che solida nei confronti dell’aggressione di Putin. L’amministrazione è chiaramente distratta: la sua attenzione è concentrata non solo sulle crisi in Medio Oriente, ma anche nel Bacino del Pacifico. Il problema non è, tuttavia, il tanto discusso “pivot to Asia”, dove c’è urgente bisogno della leadership Usa per radunare i nostri alleati. Il problema è l’errata idea che in qualche modo l’Europa conti meno che ai tempi della Guerra Fredda.
L’attuale amministrazione e chi le succederà dovranno mettere la sicurezza del Grande Intermarium al centro delle priorità. Non si tratta solo di una questione di incremento dell’aiuto militare, ma di un impegno diplomatico più solido con tutti i Paesi dal Baltico al Mar Nero. L’obiettivo non dovrebbe essere semplicemente resistere all’aggressione di Putin, bensì mantenere la coesione interna e la tenuta dell’Ue e della Nato. A livello politico, questo significherà aiutare l’Ue a svilupparsi in una direzione che preveda un maggiore controllo democratico. Per quanto riguarda la sicurezza, una svolta per l’Europa sarebbe porre fine alla visione controproducente che gli Stati Uniti si impegneranno maggiormente in tema di difesa in Europa solo se gli Stati del Patto Atlantico stessi aumenteranno il finanziamento alla difesa. Con poche eccezioni, questo non sta accadendo visto il contesto dei problemi economici odierni. Se gli europei assistessero a un notevolmente intensificato coinvolgimento degli Stati Uniti, tuttavia, sarebbero più propensi a intraprendere azioni coraggiose per salvare le proprie istituzioni.
Gli anni in cui pensavamo che l’Europa fosse stabile, prevedibile e noiosa sono finiti. La mappa del continente sta tornando ai tempi del Medioevo, se non per i confini, almeno nell’atteggiamento e nelle alleanze politiche. La domanda oggi è se l’Ue può ancora sperare di sostituire definitivamente il multiculturale impero asburgico, che per secoli si è esteso in tutta l’Europa Centrale e Orientale e ha protetto le varie minoranze e i più vari interessi. La risposta dipenderà non solo da ciò che l’Europa stessa farà, ma anche dalla strada che gli Stati Uniti sceglieranno di imboccare. La geografia è una sfida, non una sorte.