09/07/2016, 09:32
09/07/2016, 15:11
16/07/2016, 14:28
Aztlan ha scritto:Davvero...
Vediamo di discutere questa analisi.vimana131 ha scritto:Le previsioni della Stratfor per il decennio 2015-2025: la crisi della Germania, l’ascesa di Polonia e Turchia, la fine della classe media americana. «La crisi della Russia sarà il problema più grande dei prossimi dieci anni»
Francesco Cancellato
Nella loro presentazione ammettono di non aver saputo prevedere l'11 settembre, né la portata della risposta americana al terrorismo islamista, né il progressivo rallentamento dell'economia cinese.
Andiamo bene con questi "Nostradamus"...
Cinque anni fa, però, indovinarono un bel po' di cose: ad esempio, che gli Usa avrebbero trovato un accordo con l'Iran, che sarebbero emersi i nazionalismi in Europa, che la Russia, provata dalla crisi economica e dalla paranoia dell'invasione dal centro Europa, avrebbe provato a riappropriarsi delle vecchie repubbliche sovietiche, per espandere i propri mercati e per riassorbire terre a maggioranza russa, cosa che nel Donbass e in Crimea è puntualmente successa. Avevano previsto inoltre, che la Cina avrebbe dovuto rallentare fisiologicamente la propria crescita economica per stabilizzare il proprio mercato finanziario e che gli Stati Uniti si sarebbero ripresi meglio di chiunque altro dalla crisi del 2008.
Tutte cose scontate che sapevano tutti a parte l' accordo iraniano.
La reazione dei Paesi del Sud Europa di fronte al fatto diventato evidente chele istituzioni europee sono progettate a partire dalla necessità di sostenere l'export di Berlino e penalizzano in modo significativo i paesi del sud europaera inevitabile e aggiungerei sacrosanta.E così, dicono, «l'Europa sopravviverà, in qualche modo, ma quella europea sarà un'appartenenza del tutto residuale». Cari amici che sognate gli Stati Uniti del Vecchio Continente, mettetevi il cuore in pace: torneranno i cari vecchi Stati-nazione.
Anche perché, rullo di tamburi, la Germania entrerà in una spirale di forte crisi economica. Che dipende, in larga misura e ancora una volta, dalla fortissima dipendenza dall'export. Il ragionamento è piuttosto lineare: la crisi dell'Europa porta con se l'emergere dei nazionalismi; i nazionalismi al governo portano con loro il protezionismo; e il protezionismo per la Germania è un guaio. Allo stesso modo, emergeranno altre economie, nel mondo, che competeranno con la Germania sui mercati extra europei. Tutto questo, dicono quelli di Stratfor: comporterà «un pesante declino dell'economia tedesca, che porterà a sua volta a una crisi domestica politica e sociale che ridurrà l'influenza della Germania sull'Europa nei prossimi dieci anni».
Lo dico da un pezzo.
Per ora hanno avuto gioco facile perchè hanno appena cominciato a prendersela col più piccolo, la Grecia, e gli altri invece di capire la situazione si sono riparati dietro l' illusione che toccherà sempre a qualcun altro.
Ma quando toccherà ai prossimi ci sarà la rivolta del Sud Europa.
I governi socialisti riformisti verranno sostituiti da partiti e movimenti euroscettici di destra o neutri e ci sarà il crollo dell' Euro.
Rimarrà solo il Nord Europa e la Germania si leccherà le ferite contando sul fatto che la competizione è stata demolita.Aspettate a stappare le bottiglie, se siete italiani e francesi. Non sarete voi a beneficiare dell'eventuale declino tedesco, infatti. La nuova potenza emergente europea, infatti, sarà la Polonia. Le sue armi? La crescita economica e la crescente influenza geopolitica sull'area. Alleata strategica degli Usa - con ogni interesse a vederla crescere, quindi - la Polonia secondo lo Stratfor sarà la leader emergente di una eventuale coalizione anti-Russia di cui farà di sicuro parte la Romania.
La crescita del potere polacco - e rumeno e ungherese - sarà figlia, soprattutto, del crollo di Mosca
Possiamo già comprare lo champagne e metterlo in fresco, il crollo della Russia è una fantasia erotica americana con lo stesso grado di probabilità di un mio tete a tete con Avril Lavigne.E l'ISIS, direte voi? Pure lì, tra l'Iran e il Nord Africa, non saranno rose e fiori. La previsione è che gli stati nazionali dell'area, nati tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, collasseranno su loro stessi. Prepariamoci a altri Iraq, un’altra Siria, un’altra Libia. E soprattutto, al sostanziale disimpegno degli Stati Uniti su quell’area, che in virtù della grande crisi russa non avranno forza e tempo da dedicare al Medio Oriente.
Facile da prevedere visto che questi sono i piani americani redatti venti anni fa e messi in atto a partire dall' 11 Settembre.
Ormai con l' affinamento dello strumento delle "rivoluzioni colorate" non hanno bisogno di metterci la faccia inviando le truppe per far cadere un governo sfavorevole e magari legittimo.
Una bella operazione CIA e il golpe è servito, stile Ucraina.Toccherà ad altri stabilizzare quell'area, insomma. Più precisamente, alla Turchia. La cui competizione con l'Iran, crescerà nel corso degli anni. Ma che, a differenza, del regime degli Ayatollah, è nella posizione perfetta per agire a livello militare e diplomatico. Soprattutto, perché questa situazione premerà sempre più - come preme già ora - sui suoi confini meridionali. Insomma, la Turchia ha l'opportunità di far crescere il suo potere regionale, nei prossimi dieci anni.
Come sopra.
Quello che non viene messo in conto dai geni è lo scollamento tra l' attuale leadership della Turchia e la volontà del suo popolo, molto più evoluto, laico e democratico del fondamentista Erdogan che sta ricreando l' Impero Ottomano.
Non escludo che a un certo punto possa esserci un nuovo colpo di stato dei militari turchi che sono stati incaricati dal padre della patria Ataturk di preservare la laicità dello Stato.
Inoltre come dietro l' ascesa della Turchia c'è la benedizione americana dietro gli attuali detentori del potere regionale ci sono la Russia e la Cina.
Non ci sarà nessuna irresistibile ascesa come quella favoleggiata dallo Stratfor. Un aumento dell' influenza sì ma per il primo posto bisogna dare molto sangue.Chi invece il suo potere tenderà a mantenerlo, senza tuttavia scalfire la potenza statunitense, è la Cina.![]()
La Cina farà le scarpe agli americani, non solo economicamente ma come superpotenza globale, ricordatevi queste parole. E' in corso da ANNI.
Continuerà a crescere, solo più lentamente, una normalizzazione dopo il suo ingresso nel libero mercato,
si alleerà con la Russia per il comune interesse di fronteggiare la minaccia americana
e insieme ad essa guideranno il blocco dei Paesi emergenti BRICS che saranno la nuova Superpotenza, un' alleanza di Nazioni che si oppongono al mondo unipolare americano.I problemi non saranno di ordine economico, spiegano quelli di Stratfor, ma più che altro economici e sociali. La ricchezza si distribuirà all'interno, ma le attuali - e brutali - campagne anti-corruzione danno un'idea di come il governo cinese si comporterà nei prossimi anni. Non si andrà verso una democrazia, in sintesi, ma verso una dittatura ancora più totalizzante. Soprattutto, si teme che la rivolta di Hong Kong sarà il modello di altre proteste nelle città della costa, che vorranno più libertà e sempre meno accetteranno trasferimenti di ricchezza verso l'entroterra. Il vantaggio della Cina? Non avere grandi minacce che premono sui suoi confini, cosa che le permetterà di concentrarsi sui propri problemi interni.
Il problema futuro della Cina diventata Superpotenza è fondamentale, strutturale, si tratta di un modello insostenibile.
Un' industrializzazione spinta che ha prodotto un degrado ambientale appena entro il livello dell' abitabilità delle città più produttive che diventeranno letteralmente inabitabili nel giro di anni con un conseguente crollo economico.
Nessuno ci pensa, come al solito quando si tratta di ambiente tutti se ne fregano pensando sia un lusso che non impatterà sulle loro vite, ma con la crescita smisurata della popolazione urbana ed industriale si toccherà presto il punto di saturazione dell' atmosfera che la rende letteralmente tossica.
E a quel punto la produzione tornerà a livelli pre-liberalizzazione.
A cui si accoppia una massa smisurata di persone che vivono come al tempo degli imperatori che oggi hanno un' alternativa e premono per trasferirsi tutti in città.
Unite al tutto l' esperienza della ex colonia britannica che ha conosciuto la democrazia e non vuole perderla diffondendo l' esempio in tutto il Paese.
Questa sarà la miccia che farà esplodere le rivolte democratiche in Cina.
Libere elezioni, la riconversione a un sistema verde per le città e la moltiplicazione della classe media saranno le soluzioni richieste alla crisi.
Ma prima di vedere il crollo del primo impero cinese con influenza nel resto del mondo assisteremo alla sua nascita e al suo climax, che è la fase che stiamo vivendo ora.Se la Cina rallenterà, contemporaneamente, emergeranno nuove tigri economiche in giro per il mondo. I nuovi “manufacturing hub” saranno sedici, soprattutto nel sud est asiatico, ma anche altrove. Tra loro, paesi centro-sud americani come Messico, Nicaragua e Perù, africani come Etiopia, Uganda, Kenya e Tanzania. In particolare, i due paesi su cui punta lo Stratfor sono l'Indonesia e Messico.
Grazie al cavolo. Con la nuova economia la delocalizzazione non è un evento futuro prevedibile, è in corso da tempo.Gli Stati Uniti, infine. Che rimarranno la grande potenza globale, anche se dovranno fronteggiare una grande problema interno.
Ritorneranno ad essere UNA delle due superpotenze globali, con il ritorno alla grandezza dell' ex avversario russo grazie alla guida di Putin come una delle due teste del blocco a guida russo-cinese dei BRICS.Lo Stratfor ricorda come storicamente i cicli economici americani durano cinquant'anni e finiscono con grandi problemi economici e sociali. L'ultimo ciclo è iniziato nel 1932, dopo il New Deal di Roosevelt ed è finito nei primi anni '80, con la presidenza di Jimmy Carter. Quello che è nato allora, finirà nel 2030. Ma i primi effetti della crisi cominceranno a manifestarsi nella prossima decade. Anzi, secondo lo Stratfor, è già visibile ed la crisi della middle class: «Non è un problema di uguaglianza - spiegano - ma di abilità della classe media di vivere una vita da classe media». Le cause? L'emergere di famiglie monoparentali e la crescente precarietà lavorativa: «Non è ancora una crisi politica, ma lo diventerà e esploderà tra le elezioni del 2028 e quelle del 2032». Per scoprire cosa succederà, tuttavia, bisognerà aspettare le prossime profezie.
http://www.linkiesta.it/crisi-russia-us ... 5-stratfor
16/07/2016, 20:43
01/08/2016, 00:49
Finlandia morente a causa dell'Euro
Ora sappiamo che la Finlandia è nei guai.
Una serie di forti shock dal lato dell’offerta ha devastato l’economia. Quando Nokia è crollata sulla scia della crisi finanziaria del 2007-2008, creando un buco enorme nel Pil del paese, il governo ha risposto con un sostanziale sostegno fiscale.
Questo ha rovinato la sua già virtuosa posizione fiscale: in un anno è passata da un surplus del 6% a un deficit del 4%, e anche se il suo deficit da allora è leggermente migliorato, è ancora al di fuori dei parametri di Maastricht. A causa di questo, l’attuale governo – sotto la pressione degli eurocrati folli – sta attuando l’austerità fiscale, per portare il deficit al di sotto del 3% del Pil. Per un’economia che ha subito una grave diminuzione della sua capacità produttiva, questo è disastroso, scrive Frances Coppola, in un post ripreso su “Luogo Comune”. Che svela una verità drammatica: in Scandinavia, si salva solo chi sta lontano dall’euro, come la Svezia. E meglio ancora la Norvegia, che non è neppure nell’Ue.
In Finlandia, le misure di austerità non saranno in grado né di ridurre il deficit né di far ripartire l’economia, scrive Coppola. «Al contrario, provocheranno un’ulteriore riduzione dell’economia e, di conseguenza – è una questione di semplice aritmetica – provocheranno un aumento del deficit in percentuale sul Pil». La Finlandia è stata in recessione per quasi tutti gli ultimi quattro anni: «Quello di cui ha bisogno è una politica fiscale espansiva, non di salassi».
L’austerità? «È una strategia del tutto controproducente per un’economia che ha avuto danni sul fronte dell’offerta a causa di shock esogeni».
L’unica cosa che sta impedendo all’economia finlandese di crollare è la politica monetaria espansiva della Bce: «Tassi negativi e “quantitative easing” possono essere uno stimolo debole, ma sono meglio di niente». Ma la verità è che la Finlandia, fatta passare per un paese prospero, «è molto più simile agli Stati deboli del sud Europa». E se la Finlandia sta male, neppure la Danimarca si sente molto bene.
La Danimarca ha subito una profonda recessione dopo la crisi finanziaria, toccando il fondo nel secondo trimestre del 2010. Ma, a differenza della Svezia, non ha recuperato: il modello dell’andamento del suo Pil è molto più simile a quello della Finlandia, anche se non ha avuto gli shock sull’offerta subiti da Helsinki.
Perché è rimasta stagnante per gran parte degli ultimi sette anni? Molte spiegazioni tendono a incolpare il welfare danese, “troppo generoso” e costoso: una tassazione elevata soffocherebbe le imprese, mentre lo stato sociale scoraggerebbe il lavoro produttivo. Tagliare il welfare, quindi? Ma no: «Anche la Svezia ha un generoso stato sociale e una tassazione relativamente elevata. E anche la Norvegia. E in effetti anche la Finlandia. Tutti gli stati nordici sono così. E tutti, negli ultimi anni, hanno fatto seri sforzi per migliorare l’efficienza dei loro sistemi di welfare e ridurne il costo». La Danimarca è addirittura in testa alla classifica dell’Ocse tra i paesi scandinavi per lo sforzo nell’azione riformatrice. Eppure i suoi risultati economici differiscono enormemente da quelli di Svezia e Norvegia.
La vera ragione di questa profonda differenza non è difficile da trovare, scrive Frances Coppola: la Finlandia, quella che tra questi paesi ha le peggiori prestazioni, è un membro dell’euro. «Questo non solo le impedisce di gestire la propria politica monetaria, compresa la possibilità di svalutare per proteggere la sua economia dagli shock esogeni, ma anche incatena la sua politica fiscale alle regole del Patto di Stabilità e Crescita.
La Finlandia è soggetta alla procedura prevista in caso di deficit eccessivo e, in quanto membro dell’euro, questo significa che deve conformarsi alle azioni richieste o affrontare le sanzioni – anche se le azioni previste sono direttamente nocive per la sua economia». A Parte la Finlandia, nessuno degli altri paesi scandinavi ha l’euro, ma la Danimarca è un membro del meccanismo di cambio Erm II, che è un precursore dell’euro: «È obbligata a mantenere il valore della propria moneta entro fasce stabilite rispetto al valore all’euro».
Anche la politica monetaria danese è quindi determinata in larga misura non dalle condizioni locali, ma dalle decisioni della Bce – siano o meno appropriate per l’economia danese. «La Danimarca ha anche accettato di essere vincolata dalla forma più rigorosa del Patto di Stabilità e Crescita, il Fiscal Compact, il che significa che è soggetta alle stesse regole fiscali e alle stesse sanzioni di un membro della zona euro».
Al contrario, la Svezia non è un membro dell’Erm II. «Avrebbe dovuto aderire all’euro, a un certo punto, ma – misteriosamente – persiste nel non soddisfare i criteri di convergenza. La corona svedese fluttua rispetto alle valute di tutto il mondo, tra cui l’euro, consentendo alla Svezia un controllo molto maggiore della propria politica monetaria rispetto alla Danimarca o alla Finlandia». Sul versante fiscale, «anche se la Svezia ha ratificato il Fiscal Compact, ha rifiutato di lasciarsi vincolare dalle disposizioni previste finché rimane al di fuori dell’euro. Quindi, anche se dovrebbe mantenersi entro i parametri di Maastricht, non incorre in sanzioni se non lo fa».
Quanto alla Norvegia, notoriamente, non è neppure un membro dell’Ue. Dal momento che il paese è un esportatore di petrolio, la corona norvegese è una “petrovaluta”. «La Norvegia ha usato efficacemente il suo fondo sovrano per assorbire le entrate derivanti dalla produzione di petrolio e impedire che la sua moneta si apprezzasse eccessivamente», spiega Coppola. Il recente crollo del prezzo del petrolio l’ha colpita duramente? Certo: la crescita del Pil di gennaio è stata negativa. Ma attualmente la Norvegia sta attingendo al suo fondo sovrano per mantenere i programmi di bilancio. Le difficoltà momentanee sono dovute alla congiuntura globale, «non a legami con un’Eurozona depressa e ossessionata dall’austerità». Attenzione: «La capacità di gestire la propria politica monetaria e di bilancio è preziosa. Le banche centrali dell’Eurozona, bloccate in una politica monetaria uguale per tutti, hanno scarsa capacità di proteggere le loro economie dagli shock locali; con la centralizzazione della vigilanza bancaria, hanno anche in gran parte perso il controllo delle politiche di vigilanza a livello sistemico».
Le autorità fiscali dell’Eurozona, a loro volta, hanno poca autonomia se un paese è entrato nella procedura per disavanzo eccessivo; mentre per quelli che ne sono rimasti fuori, evitare la supervisione di Bruxelles può diventare la preoccupazione principale. Per i paesi della zona euro, il vero obiettivo di politica monetaria non è l’inflazione, ma il rapporto deficit-Pil. «La Bce sta combattendo una battaglia persa per alzare l’inflazione, contro la determinazione della burocrazia di Bruxelles nel forzare 19 autorità fiscali a deprimere la domanda in nome dei conti in regola. E così il disastro economico della Finlandia è, almeno in parte, una conseguenza della sua appartenenza all’euro».
La Danimarca, invece, «soffre per la perdita dell’autonomia monetaria a causa della sua appartenenza all’Erm II, e della perdita dell’autonomia di bilancio perché ha scelto di essere vincolata al Fiscal Compact». Al contrario, la Svezia «ha il controllo sia della politica monetaria sia di bilancio», mentre la Norvegia «non solo ha il controllo della sua politica monetaria e fiscale, ma è ulteriormente ammortizzata dal suo ampio fondo sovrano». Altro che iper-welfare: «La Grande Divergenza scandinava è principalmente causata dall’euro».
20/08/2016, 01:21
“Se Brics mollano il dollaro conseguenze drammatiche”
NEW YORK (WSI) – L’importanza che il dollaro riveste nel commercio è nota a tutti e costituisce uno dei fondamentali dividendi del potere che gli Stati Uniti hanno guadagnato dallo status di potenza egemone al termine della Seconda Guerra Mondiale. Controllare l’emissione della moneta centrale negli scambi internazionali mette gli Usa nella privilegiata condizione di poter produrre dal nulla qualcosa che gli altri Paesi si debbono “guadagnare” attraverso le proprie esportazioni: il deficit commerciale degli Stati Uniti, uno squilibrio macroeconomico da molti criticato, di fatto si può reggere sulla possibilità del suo “finanziamento” tramite l’emissione di nuova moneta da parte della Federal Reserve.
Altrove un deficit commerciale costante provoca in tempi più o meno brevi una crisi finanziaria, a meno che qualcosa non venga fatto per riequilibrare la bilancia degli scambi internazionali prima che le riserve di dollari e valuta pregiata della banca centrale nazionale si esauriscano.
Chiaramente, gli Usa non possono avere problemi nella quantità di dollari a disposizione. Anche per queste ragioni, qui ricordate in sintesi estrema, gli Stati Uniti si sono sempre spesi attivamente per mantenere intatta la supremazia del dollaro, mentre il peso specifico dell’economia americana, anno dopo anno, decresceva nel complesso rispetto a quella globale. Nonostante la geografia economica non rassomigli più a quella del secondo dopoguerra, il sistema, nella sostanza resta ancora nei binari istituzionali di allora.
Qualche giorno fa è avvenuto un nuovo tentativo di “aggiramento” della centralità del dollaro da parte di Russia e Turchia, che, secondo quanto riportato da alcuni media turchi, avrebbero manifestato la volontà di scambiarsi beni e servizi direttamente nelle proprie divise nazionali, nella cornice del vertice di San Pietroburgo. Secondo l’osservatore tedesco Ernst Wolff, autore di un libro critico sulla storia del Fondo Monetario Internazionale, questo gesto equivale a una “dichiarazione di guerra” da parte dei due Paesi, che si stanno defilando (specialmente nel caso della Turchia in tempi recenti) dall’ordine internazionale americano. Intervistato dal network Sputnik, vicino al Cremlino, Wolff ha dichiarato che il tentativo di bypassare il dollaro come valuta di scambio internazionale è costato caro a Saddam Hussein in Iraq o a Muammar Gheddafi in Libia e per questo il giornalista si dice “intrigato” nel vedere quale sarà la reazione.
I tentativi di riformare il sistema dollaro centrico non sono una novità, ma sono sempre naufragati: “Gli Stati Uniti, sono pronti a tutto pur di mantenere questo sistema intatto”, ha detto Wolff; le “conseguenze geopolitiche” sarebbero “drammatiche” in caso di allontanamenti da questo sistema da parte dei Paesi emergenti, indubbiamente influenzati dalla centralità del dollaro.
La Nuova Banca di sviluppo, nata su impulso dei Brics per superare tale sistema non ha ancora la forza per vincere questa battaglia, fa capire Wolff. Ma in prospettiva, mondando nuove potenze economiche sempre più ingombranti, il mantenimento della pace potrebbe passare da un nuovo equilibrio in un’ottica lontana dal “privilegio americano” (come lo chiamò Charles De Gaulle) sul dollaro. Anche se, almeno per ora, resta una speculazione priva di un percorso delineato.
23/08/2016, 01:14
26/08/2016, 12:08
08/09/2016, 12:25
Eurostat: crescita zero per l'Italia
L'Istituto di statistica europeo conferma i dati dell'Istat per il pil nel secondo trimestre. Ferme anche Francia e Finlandia, in Eurozona, +0,3%
Rallenta la crescita del pil in Europa: dopo l'aumento di 0,5% registrato nel primo trimestre 2016, nel secondo la crescita è stata di 0,3% nella zona euro e 0,4% nella Ue-28. Lo comunica Eurostat, che per l'Italia conferma la crescita zero già diffusa dall'Istat. Su base annuale il pil dell'Eurozona è salito di 1,6% e quello dell'Ue-28 di 1,8%, rallentando anche in questo caso sull'1,7% e 1,9% del trimestre precedente. In Italia la crescita annuale è confermata a 0,8%.
Italia, Francia e Finlandia sono gli unici Paesi europei con la crescita ferma nel secondo trimestre del 2016. Sotto la media Ue (+0,4%) anche Austria (+0,1%), Grecia e Lituania (+0,2%), mentre volano i Paesi dell'Est: Romania (+1,5%), Ungheria (+1%), Slovacchia, Polonia e Repubblica Ceca (+0,9%). Bene anche la Spagna (+0,8%), mentre rallenta anche la Germania (+0,4% dopo lo 0,7% del primo trimestre).
15/09/2016, 12:52
opinioni
La bancarotta delle navi Hanjin è lo specchio della crisi globale
Marina Forti, giornalista
Una grande compagnia di trasporto marittimo di container fa bancarotta, e la notizia arriva come una bomba in porti grandi e piccoli in tutto il mondo, da Singapore agli Stati Uniti, ad Amburgo (con una coda anche a La Spezia). La Hanjin Shipping è, o meglio era, la prima compagnia di trasporto di container della Corea del Sud, e la settima al livello mondiale, con una flotta di 141 navi portacontainer. Il suo fallimento ha implicazioni che vanno ben oltre la Corea del Sud. In effetti accende i riflettori sulla crisi di tutto il sistema mondiale del trasporto marittimo, una crisi strutturale che si può riassumere in una frase: ci sono troppe navi per le merci da spostare.
Il fallimento della Hanjin Shipping ha stupito molti osservatori, ma non è una crisi improvvisa. Dal 2011 l’azienda chiudeva i bilanci in perdita. Finora però aveva potuto contare sul credito delle banche, trainate dalla Korea development bank (Kdb), cioè dallo stato coreano, e almeno dal 2013 aveva tentato varie operazioni per risanare i bilanci. Invano: in cinque anni la Hanjin Shipping ha accumulato 5,5 miliardi di dollari di debiti. E quando anche i primi sei mesi del 2016 si sono chiusi in passivo, la banca di stato ha deciso che il credito era finito.
Così, il 31 agosto la Hanjin Shipping ha “portato i libri in tribunale”, cioè ha presentato istanza di fallimento, contemporaneamente in Corea del Sud e negli Stati Uniti. La bancarotta ha lasciato in mare 65 navi portacontainer cariche di merci (o 68, o forse 85: dalla casa madre non arrivano molti dettagli), per qualcosa come 14 miliardi di dollari, secondo le stime circolate in questi giorni sui mezzi d’informazione economica, senza contare gli addetti e gli equipaggi.
Portacontainer bloccate fuori dei porti
Con la compagnia in stato di fallimento, molti porti hanno rifiutato alle sue navi il permesso di attraccare per le operazioni di scarico e carico, almeno finché non avranno garanzie che qualcuno pagherà le tasse portuali, il lavoro degli addetti e il rifornimento di carburante. Tre portacontainer della compagnia sudcoreana sono rimasti fuori del porto di Long Beach, a Los Angeles; solo l’11 settembre la prima ha avuto il permesso di entrare in porto e scaricare.
Sei sono sotto sequestro in porti cinesi, altre a Singapore (a La Spezia invece la crisi è rientrata, per ora: il 10 settembre la nave Hanjin Spain ha avuto il permesso di entrare in porto, scaricare e proseguire per Valencia, Spagna)
Insomma, il primo risvolto del fallimento della compagnia sudcoreana è un discreto caos nel commercio marittimo di tutto il mondo. Tendiamo a darlo per scontato, ma il trasporto delle merci è una delle principali attività dell’economia globale, che si tratti di oggetti di consumo come televisori, telefonini, vestiti, o di materie prime, o derrate agricole e semilavorati, dal succo d’arancia al carbone: e il 95 per cento del trasporto avviene per mare.
Hanjin Shipping conta per il 3 per cento del traffico mondiale di container, ma fa l’8 per cento del traffico transPacifico, cioè tra i paesi asiatici e i porti americani. Già molti temono una crisi del commercio al dettaglio negli Stati Uniti, in vista della “stagione dello shopping” del giorno del ringraziamento e di Natale, con ritardi nelle consegne: se si fermano le portacontainer si inceppa la catena globale di rifornimento delle marche occidentali che fanno fabbricare i propri abiti, telefonini e altri oggetti di consumo in Cina o nel sudest asiatico.
Visto dal resto del mondo, il fallimento della Hanjin Shipping allude a una crisi strutturale del settore dei trasporti marittimi
Non per nulla, la compagnia sudcoreana ha depositato l’istanza di fallimento anche negli Stati Uniti (dichiarare fallimento serve a “proteggersi” dai creditori, cercando di minimizzare il sequestro dei beni dell’azienda). Il tribunale fallimentare del New Jersey ha per ora messo le navi di Hanjin al riparo da cause legali, ma ha anche intimato alle navi di non lasciare le acque territoriali statunitensi finché la questione non sarà definita. Alcuni grandi creditori statunitensi dell’azienda sudcoreana hanno fatto ricorso.
Da Chicago alla California, nei tribunali federali sta arrivando una valanga di cause contro la Hanjin Shipping da parte di aziende che vantano crediti per centinaia di migliaia di dollari, a volte milioni, e chiedono il sequestro delle navi. Il minimo che si possa aspettare è una lunga scia di cause legali che si trascinerà per anni in tutto il mondo, complicate dal fatto che la flotta Hanjin è solo in parte di proprietà della compagnia sudcoreana: molte sono navi in affitto, e su questo ora giocano molti ricorsi (tra l’altro, uno dei creditori che chiede ai tribunali degli Stati Uniti il sequestro dei beni della Hanjin Shipping è la Hastay Marine, proprietaria della nave portacontainer Hanjin New Jersey, costruita nel 2013: rivendica 1,74 milioni di dollari di affitto della nave).
Perché è fallita la Hanjin Shipping?
Vista dalla Corea del Sud, la bancarotta della Hanjin Shipping sembra l’esito di una complicata storia di potere. La compagnia nell’occhio del ciclone è una sussidiaria del gruppo Hanjin (proprietario tra l’altro di Korean Air), une delle gigantesche conglomerate di attività industriali, riconducibili a una grande famiglia, che in Corea del Sud sono chiamate chaebol e non hanno un equivalente al mondo se non forse nei keiretsu giapponesi. Le chaebol sono parte della struttura del potere sudcoreano, in connessione strettissima con il governo (ma non possiedono istituti di credito: così dipendono dalle banche di stato).
Molti si sono chiesti perché la Hanjin Shipping sia stata lasciata fallire. Yi Jung-jae, un commentatore del giornale coreano (in inglese) Korean JoongAng Daily si è chiesto perché “un paese che affida al trasporto via mare il 70 per cento delle sue consegne di merci abbia lasciato la questione in mano alle banche”. Perché, continua Yi, non c’è stata per la Hanjin Shipping una riunione nella west wing del palazzo presidenziale, le stanze riservate del potere, dove di recente è stato deciso il salvataggio della Daewoo Shipbuilding, i cantieri navali?
Vince chi riesce a fare economie di scala, a tagliare i costi. Per esempio, costruendo navi sempre più grandi
L’ipotesi più probabile, secondo lui, è che l’esito fosse già deciso: lo stato ha salvato i cantieri navali della Daewoo e ha lasciato fallire la compagnia marittima della Hanjin per poi farla rilevare dalla Hyundai Merchant Marine. Del resto, solo a fallimento dichiarato il capo del gruppo Hanjin ha deciso di mettere 90 milioni di dollari per tappare alcuni dei debiti della sua sussidiaria.
Visto dal resto del mondo, il fallimento della Hanjin Shipping allude invece a una crisi strutturale del settore dei trasporti marittimi, e insieme allo strapotere della finanza speculativa. Anche per questo, quella delle navi Hanjin è una storia di portata mondiale. In fondo, da quando il primo container è stato imbarcato su una nave, nel 1956, questa industria è cresciuta in modo inarrestabile, fino a diventare parte indispensabile dell’economia globale (per una breve storia dei container, si veda qui).
Con la Hanjin Shipping, è la prima volta che crolla una grande compagnia di container. Ma il fatto è che tutto il trasporto marittimo è in crisi: nessuno osa dirlo a voce alta, ma potenzialmente il 90 per cento delle compagnie di trasporto marittimo è sull’orlo della bancarotta.
Il punto è che negli ultimi anni l’economia mondiale va a stento, la Cina rallenta, e il traffico merci ha smesso di crescere. Nei primi anni duemila il trasporto marittimo cresceva al doppio del tasso di crescita mondiale; negli ultimi cinque anni invece è cresciuto in linea con la crescita economica (cioè molto poco) e nel 2015 il prodotto interno lordo mondiale è cresciuto più del traffico marittimo. Solo che ormai i trasporti navali sono un’industria gigantesca, cresciuta a dismisura; nel 2015 la flotta totale era quattro volte più numerosa che nel 2000.
La concorrenza delle meganavi
Non solo. Il trasporto marittimo (sia dei container, sia il bulk, cioè il trasporto sfuso – di minerali, liquidi, granaglie o altro) è dominato da pochissime grandi compagnie, e la concorrenza lascia sempre meno spazio alle più piccole.
Vince chi riesce a fare economie di scala, a tagliare i costi. Per esempio, costruendo navi sempre più grandi: negli ultimi vent’anni la dimensione media di una portacontainer è cresciuta del 90 per cento. Circolano ancora navi da tre o quattromila container, ma la prima compagnia mondiale di questo settore, la danese Maersk, dal 2013 ha messo in servizio navi capaci di trasportare più di 18mila container (misura standard, 20 piedi: si usa parlare di teu, twenty-foot equivalent unit. Per capirsi, messi in fila farebbero un serpente di 108 chilometri, tutti su un’unica nave). Ora si va verso i 22mila teu.
La tendenza al gigantismo aveva la sua logica: le mega-navi sono state messe in cantiere intorno al 2010, quando il prezzo del carburante era molto alto. Grandi navi che viaggiano a velocità ridotta per risparmiare carburante hanno fatto scendere i costi unitari. Dirigenti del settore sottolineano che era anche una misura di efficienza ambientale, perché permette di diminuire le emissioni di anidride carbonica, in linea con le norme dell’Organizzazione marittima internazionale (Imo, l’agenzia dell’Onu che dal 2013 impone limiti alle emissioni per tonnellata di carico trasportato per miglio marino percorso).
Anche su questo si gioca la concorrenza: si dice che una convenzione Imo sul trattamento delle acque di zavorra sia stata ratificata, la settimana scorsa, perché applicarla avrà costi tali da spazzare via operatori in difficoltà finanziarie.
Dunque chi ha potuto permetterselo, cioè poche grandi compagnie, ha fatto costruire meganavi. Questo ha fatto crollare il costo delle spedizioni, ma quelle poche grandi compagnie si potevano ben permettere di tenere bassi i prezzi, con il vantaggio di mandare fuori mercato i piccoli concorrenti. Oggi però questo gigantismo appare sovradimensionato: in fondo, il commercio non può continuare a crescere in modo esponenziale. Un segno della crisi è che ogni mese decine di navi vanno in demolizione, anche se avrebbero ancora anni di vita, per “tamponare le perdite”: sarebbe stato impensabile solo qualche anno fa.
Le crisi a venire
Anche il trasporto bulk oggi è sull’orlo del collasso. Un’altra bolla speculativa si è sviluppata sullo shale gas statunitense: in anni di prezzo del petrolio alle stelle, quando si diceva che gli Stati Uniti sarebbero diventati il nuovo grande esportatore di idrocarburi grazie al fracking e ad altre tecniche di estrazione “non convenzionale”, molti avevano investito in navi-cisterna nell’aspettativa del trasporto di gas liquido. Poi però il petrolio è crollato e il prezzo economico e ambientale dello shale gas si è rivelato proibitivo. E anche questa bolla è scoppiata.
Gli operatori più seri addebitano molto alla finanza speculativa: negli anni duemila investire in container dava ritorni folli e ha alimentato un sottobosco di finanzieri e di trader. Le banche erano disposte a concedere credito a un costo vicino allo zero. Un commentatore del South China Morning Post riassume: “Ci sono un sacco di compagnie zombie là fuori”. La facilità eccessiva nel prestare i soldi, sostiene, “sta creando una crisi nel trasporto marittimo peggiore di quella degli anni ottanta”. Ora la bolla sta scoppiando. I ritorni non sono più folli, i rischi crescono, e anche le banche cominciano a ritirare i loro crediti (come riferisce qui The Economist).
Certo, la Hanjin Shipping non era una “compagnia zombie”. Ma anche le aziende più solide risentono della crisi. La Maersk, considerata la prima compagnia nel settore dei container, ha saputo gestire così bene questi tempi di recessione che oggi perde “solo” 11 dollari per ogni singolo container trasportato (la Hanjin ne perdeva cento): ma è pur sempre in perdita. Oggi molti occhi sono puntati proprio sulla compagnia danese, per la quale il prossimo mese è atteso l’annuncio di una profonda ristrutturazione.
A ben vedere, la bancarotta della Hanjin sembra un preludio delle crisi a venire.
26/10/2016, 16:15
Egitto, caos economia: militari sequestrano lo zucchero nelle fabbriche
Il bene di prima necessità scompare dai negozi del paese. Scarseggiano anche farina e olio per friggere. La crisi valutaria non permette di acquistare sui mercati mondiali i quantitativi necessari al fabbisogno. Primo ministro: "Interventi necessari ma saranno limitati"
IL CAIRO - La crisi economica egiziana inizia ad avvitarsi in maniera pericolosa per il governo del generale Abdel Fatah al Sisi. Il regime negli ultimi giorni ha dato ordine ai militari di sequestrare tonnellate di zucchero nelle fabbriche dolciarie e nei depositi dei distributori alimentari. Questo perché il primo fra gli alimenti sovvenzionati che inizia a scarseggiare nel paese è proprio lo zucchero. La crisi valutaria che sta paralizzando le finanze dello Stato egiziano non permette di acquistare con velocità sui mercati mondiali i quantitativi necessari al fabbisogno del paese.
Ieri sera il primo ministro Sherif Ismail si è dovuto presentare in televisione per confermare che l'esercito ha fatto razzia di zucchero in fabbriche e nei depositi privati. Il premier ha detto che "gli interventi nelle fabbriche sono stati necessari ma saranno limitati, ora abbiamo zucchero per tre mesi".
Una delle fabbriche in cui i militari hanno fatto irruzione è uno stabilimento di produzione della Pepsi Cola. Un'altra è una delle quattro sedi della Edita, principale produttore di cioccolata e dolci vari del paese, a cui sono state sequestrate duemila tonnellate di zucchero.
Da settimane in tutti i negozi e supermercati del paese lo zucchero ormai è scomparso, mentre iniziano a verificarsi fenomeni di accaparramento anche di farina e olio per friggere. Sono tutti beni di prima necessità sovvenzionati dallo Stato, che però ormai non ha più fondi sufficienti in dollari per rifornirsi liberamente sui mercati internazionali e soprattutto ha iniziato ad alzare i prezzi su richiesta del Fondo monetario internazionale.
Un grossista privato di alimentari, Abdel Abdou, intervistato dalla Associated Press, conferma che l'esercito è stato anche nei suoi depositi: "Ci hanno sequestrato 45 tonnellate di zucchero, mi hanno trattato come un trafficante di droga". "Stanno perdendo la testa" ha dichiarato ieri Hani Berzi il presidente della Edita, "se il governo aveva un problema doveva venire da noi e negoziare una soluzione, ma venire qui, sequestrare lo zucchero e trattarci come contrabbandieri è vergognoso".
Molti analisti ritengono che il governo Sisi sia entrato in una fase di vero e proprio panico: per avere un prestito di 12 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale, il governo si è impegnato a tagliare i sussidi ai beni alimentari, che dissanguano le casse dello Stato. Ma prima che i tagli iniziassero è iniziato l'accaparramento, a cui hanno fatto seguito le prime proteste, soprattutto su Internet, come quella del tassista di "tuk tuk" del Cairo che per giorni ha monopolizzato l'attenzione nel paese.
A questo si aggiunge il fatto che sfruttando l'ondata di proteste contro il governo per la situazione economica, per l'11 novembre è stata organizzata una giornata di mobilitazione nazionale. Una protesta che secondo il governo viene sobillata dai Fratelli Musulmani, dichiarati fuorilegge dal colpo di Stato militare del 2013.
La crisi dello zucchero è soltanto l'ultimo episodio del disastro economico che sta facendo crollare l'Egitto del generale Sisi: l'inflazione è al 14 per cento, il massimo da 7 anni. Il cambio in dollari è stato contingentato, per cui la lira egiziana da un cambio ufficiale di 1 dollaro per 8,8 viene venduta al mercato nero a 1 dollaro per 15,5 lire. In questo contesto la polizia ha già iniziato a fare arresti in vista della manifestazione dell'11 novembre. Almeno 70 persone sono finite in carcere, quasi tutte accusate di legami con i Fratelli Musulmani che vengono definiti dal governo militare semplicemente "terroristi".
05/11/2016, 01:04
Auto, euro ha sancito fine dell’industria francese
PARIGI (WSI) – È opinione comune che uno dei fattori che determinano la potenza economica di una nazione è il suo settore automobilistico. La Francia, un tempo leader nella produzione di auto, potrebbe presto essere tagliata fuori dai grandi del mondo, visto che il suo contributo al settore sta drammaticamente diminuendo. Si tratta di uno dei tanti segni di come l’economia del paese d’Oltralpe si sia indebolita con l’adozione dell’euro e l’avvento della globalizzazione.
L’industria francese non è stata in grado di recuperare le forze dopo le crisi del 2001 e del 2008, poiché l’euro, una moneta più forte del franco francese, è diventata un peso e non un asset per l’economia francese. Com’è ovvio, il tasso di cambio stabilisce la forza di un’economia: una valuta più debole aiuta a ritrovare la competitività durante una crisi, mentre una moneta più forte sostiene il consumo di merci estere e importate.
Se da una parte la Cina è stata accusata di svalutare in maniera artificiosa la sua moneta per sostenere le esportazioni, all’inizio del suo percorso la Bce ha messo in atto una politica che ha avuto un effetto opposto per l’economia della Francia ed di altri paesi del sud Europa: l’euro è diventato troppo forte. Mentre per la Germania la prima conseguenza è stata un rafforzamento della competitività, la Francia ha perso appeal a livello mondiale, facendo lentamente deperire la sua industria.
Secondo i dati diffusi dall’Eurostat, oggi l’industria in Francia costituisce il 14,1% del valore lordo totale aggiunto mentre nel 1995 era del 19,2% contro la media Ue che è ancora al 19,3% e solo in Germania al 25,9%. Sotto la media dell’Unione Eruopea è anche la quota dell’occupazione totale in Francia, ferma all’11,9% contro il 15,4% dell’Unione europea e al 18,8% del livello tedesco. Uno dei segnali della lenta agonia della produzione industriale francese è il collasso del settore automobilistico. La produzione mondiale di auto è quasi raddoppiata passando dai 53 milioni di veicoli prodotti all’anno tra il 1997 e il 2015 a 90 milioni di oggi.
La Germania ha visto balzare del 20% la sua produzione di auto, mentre in Francia la produzione è quasi dimezzata da 4 milioni a meno di 2. Una stagnazione e un crollo verificatisi subito dopo l’adozione dell’euro. Il paese persegue una politica sociale particolarmente incisiva e attenta alle diverse etnie razziali, vista la presenza massiccia di migranti di fede musulmana.
Se muore l’industria e non si è più in grado di offrire a tutti un posto di lavoro, potrebbe innescarsi un forte sentimento reazionario che potrebbe dar vita a rivolte estreme, causando ancora più problemi per la Francia. E tutto questo è iniziato con l’arrivo euro.
05/11/2016, 16:50
06/11/2016, 15:54
Bettino Craxi previde la crisi vent’anni fa
Col suo libro esplosivo sulle 36 super-logge segrete del massimo potere mondiale (“Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere), il massone Gioele Magaldi, fondatore del Grande Oriente Democratico in aperta polemica con la massoneria ufficiale italiana, «ha completamente riscritto la storia degli ultimi non so quanti anni», scrive Vincenzo Bellisario sul sito del “Movimento Roosevelt”, nato su impulso dello stesso Magaldi per squarciare il velo sulla politica italiana dominata dall’élite internazionale e contribuire a democratizzare il sistema, in un percorso di ripristino della perduta sovranità.
Ma a fare un’analoga denuncia, ricorda Bellisario, fu il vituperato Bettino Craxi, dal suo esilio di Hammamet, nella seconda metà degli anni ‘90. Memoriale uscito nel 2014, col titolo “Io parlo, e continuerò a parlare” (Mondadori). Altro libro utilissimo, dice Bellisario, «per comprendere in “altri termini” cos’è accaduto e accade in Italia, in Europa e nel mondo», ovvero: nomi e cognomi di chi ci ha inguaiato davvero, precipitandoci in questa crisi infinita.
Rivelazioni che «spiegano con parole mirate e incisive i fatti degli ultimi anni ed odierni, ancora oggi tristemente e quotidianamente sotto gli occhi del tutto ignari della quasi totalità» del pubblico, che magari vota Renzi e ha di Craxi un pessimo ricordo. Un libro, quello dell’ex leader del Psi, definito (oggi) da diversi giornalisti “profetico”, “sorprendente”, “agghiacciante”, “al limite della preveggenza”.
Lo Stato è a pezzi, così come l’idea di nazione?
«La pace si organizza con la cooperazione, la collaborazione, il negoziato, e non con la spericolata globalizzazione forzata», scrive Craxi. «Ogni nazione ha una sua identità, una sua storia, un ruolo geopolitico cui non può rinunciare. Più nazioni possono associarsi, mediante trattati per perseguire fini comuni, economici, sociali, culturali, politici, ambientali».
Al contrario, «cancellare il ruolo delle nazioni significa offendere un diritto dei popoli e creare le basi per lo svuotamento, la disintegrazione, secondo processi imprevedibili, delle più ampie unità che si vogliono costruire». E attenti: «Dietro la longa manus della cosiddetta globalizzazione si avverte il respiro di nuovi imperialismi, sofisticati e violenti, di natura essenzialmente finanziaria e militare».
Da Mani Pulite, Craxi fu liquidato come “capo di una banda di ladri” per via del finanziamento illecito ai partiti, compreso il suo?
«I partiti dipinti come congreghe parassitarie divoratrici del danaro pubblico – scrive l’ex leader socialista – sono una caricatura falsa e spregevole di chi ha della democrazia un’idea tutta sua, fatta di sé, del suo clan, dei suoi interessi e della sua ideologia illiberale. Fa meraviglia, invece, come negli anni più recenti ci siano state grandi ruberie sulle quali nessuno ha indagato. Basti pensare che solo in occasione di una svalutazione della lira, dopo una dissennata difesa del livello di cambio compiuta con uno sperpero di risorse enorme ed assurdo dalle autorità competenti, gruppi finanziari collegati alla finanza internazionale, diversi gruppi, speculando sulla lira, evidentemente sulla base di informazioni certe, che un’indagine tempestiva e penetrante avrebbe potuto facilmente individuare, hanno guadagnato in pochi giorni un numero di miliardi pari alle entrate straordinarie della politica di alcuni anni. Per non dire di tante inchieste finite letteralmente nel nulla».
Possibile che sul finanziamento illecito non avesse niente da dichiarare il Pci?
«D’Alema ha detto che con la caduta del Muro di Berlino si aprirono le porte ad un nuovo sistema politico», scriveva Craxi. «Noi non abbiamo la memoria corta. Nell’anno della caduta del Muro, nel 1989, venne varata dal Parlamento italiano una amnistia con la quale si cancellavano i reati di finanziamento illegale commessi sino ad allora. La legge venne approvata in tutta fretta e alla chetichella. Non fu neppure richiesta la discussione in aula. Le commissioni, in sede legislativa, evidentemente senza opposizioni o comunque senza opposizioni rumorose, diedero vita, maggioranza e comunisti d’amore e d’accordo, a un vero e proprio colpo di spugna. La caduta del Muro di Berlino aveva posto l’esigenza di un urgente “colpo di spugna”». È storia, ormai: «Sul sistema di finanziamento illegale dei partiti e delle attività politiche, in funzione dal dopoguerra e adottato da tutti, anche in violazione della legge sul finanziamento dei partiti entrata in vigore nel 1974, veniva posto un coperchio».
“Serviva”, quel coperchio, per legittimare una “nuova” classe dirigente europeista, usa obbedir tacendo. «Il regime avanza inesorabilmente: lo fa passo dopo passo, facendosi precedere dalle spedizioni militari del braccio armato», scriveva Craxi quasi vent’anni or sono. «La giustizia politica è sopra ogni altra l’arma preferita. Il resto è affidato all’informazione, in gran parte controllata e condizionata, alla tattica ed alla conquista di aree di influenza». Il regime, continua Craxi, «avanza con la conquista sistematica di cariche, sottocariche, minicariche, e con una invasione nel mondo della informazione, dello spettacolo, della cultura e della sottocultura che è ormai straripante». A proposito di “sottocultura”, Bellisario ricorda il recentissimo attacco «violento, squallido e di bassissimo profilo» sferrato da Luciana Littizzetto contro il Movimento 5 Stelle nientemeno che dalla tribuna televisiva di Fabio Fazio, sulla Rai (in compenso, all’epoca, dalla televisione di Stato fu cacciato Beppe Grillo, colpevole di mettere alla berlina di socialisti “ladri”: anche di quello si occupava, Craxi, anziché esternare sui pericoli della globalizzazione privatizzatrice in arrivo).
«Sono oggi evidentissime le influenze determinanti di alcune lobbies economiche e finanziarie e di gruppi di potere oligarchici», scrisse più tardi, da Hammamet, il segretario del Psi. «A ciò si aggiunga la presenza sempre più pressante della finanza internazionale, il pericolo della svendita del patrimonio pubblico, mentre peraltro continua la quotidiana, demagogica esaltazione della privatizzazione», che è sempre «presentata come una sorta di liberazione dal male, come un passaggio da una sfera infernale ad una sfera paradisiaca: una falsità che i fatti si sono già incaricati di illustrare, mettendo in luce il contrasto che talvolta si apre non solo con gli interessi del mondo del lavoro ma anche con i più generali interessi della collettività nazionale». Parole sante, col senno del poi? Non si direbbe: la Grande Privatizzazione continua anche ora e più che mai, con Renzi, che mette all’asta persino un modello di impresa pubblica in super-attivo, Poste Italiane.
Facile dire che vedeva lungo, Craxi: «La “globalizzazione” non viene affrontata dall’Italia con la forza, la consapevolezza, l’autorità di una vera e grande nazione, ma piuttosto viene subìta in forma subalterna in un contesto di cui è sempre più difficile intravedere un avvenire, che non sia quello di un degrado continuo, di un impoverimento della società, di una sostanziale perdita di indipendenza». Chissà cos’avrebbe detto, oggi, di fronte agli ultimi orrori, a comiciare dal Ttip, il Trattato Transatlantico Usa-Ue che rade al suolo ogni residua sovranità economica. Per non parlare del Fiscal Compact e del pareggio di bilancio inserito addirittura in Costituzione, a certificare la morte clinica dello Stato come garante della comunità nazionale. Ai tempi, quando i Prodi e i Ciampi magnificavano il dorato avvenire promesso da Bruxelles, Craxi scriveva: «I parametri di Maastricht non si compongono di regole divine. Non stanno scritti nella Bibbia. Non sono un’appendice ai dieci Napolitano e Draghicomandamenti». E l’andamento di questi anni «non ha corrisposto alle previsioni dei sottoscrittori: la situazione odierna è diversa da quella sperata».
Ogni trattato, aggiungeva Craxi, può e deve essere rinegoziato, aggiornato, adattato alle condizioni reali e alle nuove esigenze: «Questa è la regola del buon senso, dell’equilibrio politico, della gestione concreta e pratica della realtà», lontano cioè dall’autismo dogmatico dei tecnocrati e dei loro cantori più o meno prezzolati, distribuiti in ogni paese. «Su di un altro piano stanno i declamatori retorici dell’Europa, il delirio europeistico che non tiene contro della realtà, la scelta della crisi, della stagnazione e della conseguente disoccupazione». La “scelta della crisi”, dunque, da cui la “conseguente disoccupazione”. L’euro? No, grazie: «Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro». Ed era solo la fine degli anni ‘90. L’Italia non era ancora finita nel girone infernale della Bce: recessione e crollo del Pil, super-tassazione, licenziamenti e fallimenti, erosione dei risparmi, disperazione sociale, rassegnazione al declassamento dell’Italia Così parlava il “profeta” Craxi. Rileggerlo oggi? Scomodo, per troppi personaggi in pista già allora. Uomini che però, anziché ad Hammamet, sono fini alla Bce, al Fondo Monetario e all’Ocse, a Bankitalia, alla Goldman Sachs. E naturalmente a Palazzo Chigi, e al Quirinale.